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Meloni, Fanpage e quell’idea distorta di giornalismo – Lettera43

A destra parlano di attacco alla democrazia, come se stanare ragazzotti fascisti in un partito fosse un pericolo. Dicono che bisogna limitarsi alla cronaca, ai fatti, evitare le opinioni. Ma quello è lavoro da ufficio stampa. Il punto è che hanno paura. Della verità scomoda, del cambiamento, di mettere in discussione le proprie convinzioni.

Meloni, Fanpage e quell’idea distorta di giornalismo

Diteci esattamente quale giornalismo volete, che razza di idea avete del giornalismo, quale dovrebbe essere la formula per accarezzare i lettori, la politica, l’imprenditoria tutta ed evitarci il rogo. Giorgia Meloni, giornalista professionista – come ci tiene a ricordare nel suo curriculum depositato a Palazzo Chigi – ha un’idea confusa, rabberciata dalle idee di qualche decennio fa. Ha spiegato la presidente del Consiglio che il giornalismo che si infila tra le beghe del potere è un attacco alla democrazia e non si capisce bene di chi sia quella democrazia messa a rischio dallo stanare ragazzotti fascisti riuniti in organizzazione. Tanta è la confusione sotto il cielo che la premier ha chiesto addirittura l’intervento di Sergio Mattarella, non si capisce bene per cosa. Forse Meloni vorrebbe che il presidente della Repubblica bussasse alla porta di Fanpage per tirare l’orecchio al direttore Francesco Cancellato e dirgli che i bambini non devono occuparsi delle cose dei grandi, non devono ascoltare i loro discorsi, devono stare in cameretta a giocare, devono farsi i fatti loro. Spira quell’aria del giornalismo come recinto dove ci si può divertire però senza esagerare. Quella stessa aria che nel ‘500 soffiava sulla testa dei giullari. Va bene ridere e far ridere, però occhio a non esagerare.

Meloni, Fanpage e quell'idea distorta di giornalismo
Sergio Mattarella stringe la mano a Giorgia Meloni (Imagoeconomica).

Quelli per cui la stampa dovrebbe limitarsi alla cronaca e attenersi ai fatti

Ci sono quelli per cui i giornalisti dovrebbero limitarsi alla cronaca. Dicono proprio così, limitarsi. Come se la cronaca fosse un lavoro di ribattuta dei fatti. Poi si correggono: attenersi ai fatti, dicono. Evitare le opinioni. Ricordano quelle redazioni in cui al giovane praticante viene chiesto di telefonare al direttore prima di aggiungere un aggettivo. Limitarsi ai fatti è la reductio del “limitarsi ai nostri fatti”. Per loro i giornalisti sono impiegati a tempo pieno con lo scopo di propagare certe azioni, solo quelle, e rendere popolari le loro opinioni. Lo chiamano giornalismo, ma non sanno che è lavoro da ufficio stampa. E gli uffici stampa costano.

Per loro il “giornalista bravo” è quello con cui sono sempre d’accordo

Ci sono quelli per cui i giornalisti bravi sono quelli che mettono su carta le loro riflessioni al bar, tra amici. Per loro un “giornalista bravo” è un giornalista con cui sono sempre d’accordo. Sognano le edicole come un social fisico in cui incontrare gente con le loro stesse idee, con le identiche opinioni, tutti in lotta verso un unico obiettivo: collimare in molti e non sentirsi mai soli. Giornalismo come bonus psicologico.

Quelli dei nomignoli, degli sfottò: è stand up comedy su carta

Poi ci son quelli che vogliono il giornalismo con i nomignoli, con gli sfottò, con il perculamento dell’avversario come zenit del piacere. Per loro il giornalismo è stand up comedy su carta. Ridono a crepapelle. «Hai visto stamattina sul giornale x come il giornalista y ha bastonato il politico z?». E godono. Il giornalismo è un momento ludico. Chiamano gli avversari politici con i nomignoli inventati dal loro editorialista di punta. È tutto un gozzovigliare di faccette, di darsi di gomito, di moderne maschere di commedia dell’Arte sul palcoscenico del presente.

Chi sfodera autorevolezza e competenza come marchio doc rilasciato

Ci sono quelli che il giornalismo è il fine, mica il mezzo. L’autorevolezza come la competenza è un marchio doc rilasciato all’origine per un decina di firme e quel caravanserraglio di giornalisti sono la guida spirituale del Paese. Se il loro giornalista preferito scrive una sciocchezza o addirittura una falsità, quella bugia diventa verità. Se gli fate notare che le cose non stanno così, loro rispondono: «L’ha scritto x». Discussione chiusa. Giornalismo come nuovissimo testamento.

I complottisti che vorrebbero le inchieste sul “non ce lo dicono”

Naturalmente ci sono quelli che vorrebbero il giornalismo del “non ce lo dicono”. Più le tesi sono assurde, disparate e disperate e più un giornalista è meritevole di stima. Vorrebbero un giornalismo rarefatto dove il coraggio è direttamente proporzionale al coraggio di essere irrealistici. Il naif è da Pulitzer.

Cosa hanno in comune tutte queste visioni distorte? La paura

Immaginate in questa realtà come sia messo male il giornalismo che non si piega alle aspettative di nessuno, che scava in profondità, che dà voce a chi non ce l’ha, che sfida il potere e le sue narrazioni preconfezionate. Pensate come vanno poco di moda i giornalisti che non cercano approvazione, ma la verità; e che non si limitano a riportare i fatti, ma li contestualizzano e li analizzano criticamente. In fin dei conti, tutte queste visioni distorte del giornalismo hanno un elemento in comune: la paura. Paura della verità scomoda, paura del cambiamento, paura di mettere in discussione le proprie convinzioni. Ma il vero giornalismo non può e non deve piegarsi a queste paure. Il suo compito è illuminare gli angoli bui della società, dare voce a chi non ne ha, sfidare il potere costituito e le narrative dominanti. Non è un mestiere per compiacere, ma per scuotere le coscienze. Chi invoca un giornalismo “limitato”, in realtà, chiede di limitare la democrazia stessa.

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