Vai al contenuto

Tre bimbi morti al giorno, una strage silenziosa

Tre bambini al giorno. Non è una statistica, è una conta macabra che si consuma nel silenzio generale mentre noi beviamo il nostro caffè mattutino. In Libano, mentre il mondo è distratto da altro, si sta consumando una tragedia che ha il volto dell’infanzia perduta. I numeri sono impietosi: più di 200 bambini uccisi in due mesi. Ma dietro i numeri ci sono storie, come quella di Celine Haidar, giovane promessa del calcio libanese, ora in coma per una scheggia alla testa. O come quei sette bambini di un’unica famiglia, spazzati via mentre cercavano rifugio sul Monte Libano. Fuggivano dalla morte e la morte li ha raggiunti comunque. La comunità internazionale? Assiste con la stessa indifferenza con cui si guarda un temporale dalla finestra. L’Unicef fa quello che può, con un budget ridicolo – finanziato per meno del 20% del necessario – mentre gli operatori sanitari cadono come soldati in prima linea: 200 morti, 300 feriti. Le scuole? Chiuse. Gli ospedali? Sotto attacco.

L’acqua potabile è diventata un lusso per 450.000 persone. E i bambini sopravvissuti portano cicatrici che nessun cerotto potrà mai coprire: il trauma psicologico di chi cresce tra le bombe diventa la normalità di una generazione perduta. Ma ciò che fa più male è il silenzio. Un silenzio che pesa come piombo sulla coscienza di chi potrebbe fare qualcosa e sceglie di non farlo. La morte dei bambini in Libano è diventata una notizia di sottofondo, come il ronzio di un televisore dimenticato acceso. E mentre scriviamo editoriali indignati, altri tre bambini moriranno oggi. Altri tre domani. In un crescendo di orrore che si è trasformato in routine. L’orrore, quando diventa quotidiano, rischia di perdere il suo potere di sconvolgere. E sullo sfondo c’è Gaza, con donne e bambini uccisi in un anno come mai in nessun altro conflitto.

L’articolo Tre bimbi morti al giorno, una strage silenziosa sembra essere il primo su LA NOTIZIA.

L’articolo proviene da lanotiziagiornale.it qui

Povertà e solitudine Giornata mondiale (ma nera) dell’infanzia

Rosa ha diciassette anni. Ha smesso di contare i giorni nel momento esatto in cui il lockdown si è insediato dentro di lei, trasformando le mura di casa in una trincea e le giornate in un rituale sempre uguale. Esce raramente, e quando lo fa, il mondo le sembra meno reale di una chat su Telegram. Ha un sogno – visitare Londra con la sua migliore amica – ma per ora rimane una fantasia, una scintilla che si accende e si spegne con il tremore delle sue mani. ADHD, disturbo dell’umore, ansia sociale: le diagnosi si accumulano, come pezzi di una storia che non è solo sua.  

La povertà che scolpisce il futuro

Rosa è un simbolo. Un volto tra i tanti raccontati dal rapporto *Non sono emergenza*, promosso dall’impresa sociale *Con i Bambini* e dalla Fondazione Openpolis per la Giornata mondiale dell’infanzia e dell’adolescenza che cade il 20 novembre, che fotografa l’infanzia e l’adolescenza nell’Italia del post-pandemia. È una fotografia cruda, fatta di numeri che pesano come macigni. Nel 2023, il 13,8% dei minori viveva in povertà assoluta: quasi 1,3 milioni di bambini e ragazzi intrappolati in un presente che non fa sconti. È il dato più alto mai registrato dal 2014, segno che la pandemia non ha solo amplificato le disuguaglianze, ma le ha scolpite nel tessuto sociale del Paese.  

La povertà materiale è solo la punta dell’iceberg. Il rapporto evidenzia come il disagio minorile abbia radici più profonde: culturali, educative, relazionali. Durante la pandemia, la dispersione scolastica implicita – ragazzi che frequentano ma non imparano – ha raggiunto livelli allarmanti. Nel 2022, il 12% degli studenti provenienti da famiglie svantaggiate ha completato il percorso di studi senza acquisire competenze di base. Nonostante un leggero miglioramento, nel 2024 il 44% dei maturandi non raggiunge standard adeguati in italiano e il 47,5% in matematica. Dati che, come sottolinea il rapporto, rivelano “una crisi educativa di lungo periodo, legata non solo alla pandemia, ma a disuguaglianze strutturali”.  

Solitudine e resilienza: il peso di crescere oggi

Ma è la solitudine, forse, la ferita più profonda. Nel 2023, meno di un terzo dei ragazzi tra 11 e 17 anni dichiarava di vedere i propri amici ogni giorno. Una generazione fa erano il 70%. L’emergenza sanitaria ha solo accelerato un declino già in atto: le relazioni si sono trasferite online, gli abbracci sono diventati emojii. Tra gli 11-17enni, il 2,5% presenta dipendenza da social media, mentre quasi 66 mila ragazzi hanno manifestato una tendenza all’isolamento sociale, il fenomeno degli *hikikomori*.  

Poi ci sono le ragazze. Sono loro, spesso, a pagare il prezzo più alto. Il 9,3% dei giovani tra 11 e 17 anni è a rischio grave di dipendenza da cibo: 373 mila adolescenti, per la maggior parte ragazze, che combattono contro un’immagine di sé che non sentono mai adeguata. Gli accessi al pronto soccorso per disturbi alimentari sono aumentati del 10,5% rispetto al 2019, un dato che il rapporto definisce “indicativo di un malessere sistemico”.  

Eppure, in questo scenario fatto di ombre, c’è anche una luce. Come nota il rapporto, “i giovani non sono solo vittime di un sistema disfunzionale, ma protagonisti di un cambiamento possibile”. Il 6,8% dei ragazzi tra 14 e 17 anni nel 2023 ha partecipato ad attività di volontariato, un dato in crescita rispetto al 2021. Tra i 15 e i 24 anni, quasi due giovani su tre si dichiarano molto preoccupati per il cambiamento climatico, più della media della popolazione adulta.  

C’è un messaggio che emerge, potente, dal rapporto: il disagio minorile non si risolve con soluzioni emergenziali o paternalistiche. Serve un cambiamento di prospettiva. Serve, come sottolineano gli autori, “una narrazione che parta dai giovani, dai loro bisogni e dalle loro esperienze, coinvolgendoli attivamente nelle politiche che li riguardano”.  

Rosa, con il suo biglietto per Londra, non è solo un caso. È una storia, una voce, un futuro che ci riguarda tutti. La sua vita, come quella di tanti altri, ci chiede una cosa: ascolto. E l’ascolto, come la cura, non è mai un atto emergenziale. È un progetto. Un impegno. Un modo di dire che sì, ci importa.  

L’articolo Povertà e solitudine Giornata mondiale (ma nera) dell’infanzia sembra essere il primo su LA NOTIZIA.

L’articolo proviene da lanotiziagiornale.it qui

Migranti, Trump rilancia le deportazioni forzate

L’idea non è nuova, ma questa volta porta con sé il peso di un’ambizione spietata: Donald Trump annuncia il programma di rimpatri forzati più grande della storia americana. “Forced Deportation Program”: un nome che suona come un proclama da tempi bui, un’operazione che promette di deportare milioni di persone migranti irregolari, con costi stimati fino a 960 miliardi di dollari. Non è solo una questione di numeri, è una dichiarazione politica: deportare vite per un ritorno all’America che Trump sogna.

Un piano senza precedenti: costi, numeri e macabra logistica

A guidare la macchina di espulsione c’è Thomas Homan, ex capo dell’Immigration and Customs Enforcement (ICE, il servizio federale responsabile della gestione dei flussi migratori e del controllo delle frontiere interne). Homan è già noto per le politiche aggressive contro l’immigrazione durante il primo mandato di Trump. “Il nostro piano è semplice: cacciare via chi non appartiene a questo Paese”, ha dichiarato Homan in un’intervista a Fox News. È la visione di un’America che non si limita a erigere muri, ma che usa il sistema federale come un’arma per cancellare presenze indesiderate.

Il piano è talmente massiccio che richiederebbe una rete logistica senza precedenti: nuove strutture di detenzione, personale triplicato per l’ICE e una campagna di identificazione che ricorda tristemente altri momenti storici. Gli attivisti per i diritti civili, come l’Unione Americana per le Libertà Civili (ACLU), hanno già definito il programma una “pulizia etnica legalizzata”.

I numeri dipingono il ritratto di una follia economica. Un rapporto del Center for American Progress calcola che deportare dieci milioni di persone costerebbe oltre 900 miliardi di dollari in un decennio, senza contare il crollo dei settori economici più dipendenti dalla manodopera migrante. Agricoltura, edilizia e turismo rischiano un tracollo immediato: il 73% dei lavoratori agricoli negli Stati Uniti sono nati all’estero, secondo i dati del Dipartimento dell’Agricoltura. Cosa succederà quando i campi rimarranno vuoti e i raccolti marciranno?

Famiglie spezzate e un prezzo morale incalcolabile

E poi c’è l’ombra delle famiglie spezzate. Durante il primo mandato di Trump, la separazione forzata di genitori e figli ai confini degli Stati Uniti ha sconvolto il mondo: 5.500 bambini, secondo l’ACLU, furono strappati ai loro genitori tra il 2017 e il 2018. Molti di loro non hanno ancora ritrovato le proprie famiglie. Ora, l’idea di replicare questa strategia su scala ancora più ampia evoca un’immagine agghiacciante di file di bambini soli, rinchiusi in strutture governative, mentre i genitori vengono espulsi.

Ma l’aspetto più inquietante non sono i numeri o i costi. È il silenzio complice che accompagna questo piano. Trump promette deportazioni e milioni applaudono. Non si interrogano sulle conseguenze morali, sull’immagine di un paese che si trasforma in un carcere per chi ha cercato rifugio. Un’America in cui l’ICE pattuglia le città, entra nelle case, preleva persone in piena notte.

Chi è il prossimo? La domanda è sempre la stessa, ma le risposte continuano a tacere. La retorica dell’espulsione si alimenta del timore, del sospetto, di quella paura insita nella società americana, dove il confine tra “noi” e “loro” è sempre più sfocato.

Trump non sta solo deportando persone migranti. Sta rimandando indietro il tempo, verso un’America dove il sogno era riservato ai pochi e dove la legge era un martello per i più deboli. Non è il piano di un leader; è la sceneggiatura di un impero che implode. E il costo vero, quello che nessuna stima economica può calcolare, sarà pagato da chi guarda tutto questo e non fa nulla per fermarlo.

L’articolo Migranti, Trump rilancia le deportazioni forzate sembra essere il primo su LA NOTIZIA.

L’articolo proviene da lanotiziagiornale.it qui

Disinformazione sui Social, ecco lo studio che prova la manipolazione di X. E che smentisce Elon Musk

Non c’è sorpresa, solo conferma. Uno studio dell’Università del Queensland ha dimostrato ciò che molti sospettavano: Elon Musk, proprietario di X (ex Twitter), ha manipolato l’algoritmo della piattaforma per favorire contenuti a sostegno di Donald Trump e dell’agenda repubblicana. La ricerca, condotta da Timothy Graham e Mark Andrejevic, ha analizzato 56mila post pubblicati tra gennaio e settembre 2024. I risultati sono inequivocabili: le pubblicazioni di Musk e delle figure repubblicane hanno ottenuto un incremento anomalo di visibilità e interazioni rispetto al passato.

I numeri che svelano la manipolazione del Social di Musk

Numeri parlano chiaro: i post di Musk, dopo il suo sostegno dichiarato a Trump, hanno registrato un aumento del 138% nelle visualizzazioni e del 238% nei retweet. Non si tratta di semplici coincidenze o di dinamiche organiche. Gli studiosi hanno rilevato un pattern sistematico: mentre le voci critiche verso il partito repubblicano o lo stesso Musk venivano rese meno visibili, i contenuti provenienti da figure come Trump o altri esponenti conservatori venivano amplificati, raggiungendo una platea significativamente maggiore.

Dal sospetto alla prova: le conseguenze etiche e politiche

La questione è politica, ma non solo. È anche tecnica e, soprattutto, etica. Musk, dal suo acquisto della piattaforma, ha spesso proclamato la volontà di “liberare” X da censure e manipolazioni, promuovendo la libertà di espressione. Eppure, quello che emerge è il contrario: una manipolazione intenzionale dell’algoritmo per piegarlo a fini propagandistici. Il proprietario di X non si è limitato a condividere le sue opinioni; ha usato il potere della tecnologia per alterare il flusso dell’informazione e orientare il dibattito pubblico.

La manipolazione degli algoritmi sui social media non è nuova, ma il caso di Musk rappresenta un ulteriore passo nella pericolosa convergenza tra tecnologia e politica. Quando una piattaforma con milioni di utenti attivi quotidianamente diventa il megafono di una sola parte, la democrazia subisce un duro colpo. Le piattaforme social non sono più semplici spazi di confronto; diventano strumenti di influenza, capaci di orientare opinioni e decisioni su scala globale.

Ci sono precedenti? Certo. Facebook, Cambridge Analytica, la Brexit, le elezioni americane del 2016. Ma con Musk si passa a un livello successivo: qui non si tratta di un’azienda terza che sfrutta i dati, ma del proprietario stesso che usa la piattaforma per i propri scopi. È un abuso di potere che pone interrogativi profondi sulla regolamentazione delle piattaforme digitali e sulla responsabilità dei loro leader.

La gestione di Musk ha già portato a un aumento di disinformazione e discorsi d’odio sulla piattaforma. Con l’eliminazione dei team di moderazione e la scelta di monetizzare i contenuti, X è diventata terreno fertile per teorie complottiste, fake news e polarizzazione politica. Ma la manipolazione dell’algoritmo aggiunge una nuova dimensione al problema: non è solo una questione di cosa viene pubblicato, ma di chi ha il privilegio di essere ascoltato.

La democrazia richiede trasparenza e pluralismo. Le piattaforme sociali, pur essendo aziende private, svolgono un ruolo pubblico cruciale. Quando i loro algoritmi vengono usati per manipolare il dibattito, il danno va oltre la singola elezione o l’immagine di un leader. Si tratta di una crisi sistemica: la fiducia nelle piattaforme, nei processi democratici e nell’informazione è compromessa.

Elon Musk con il suo social X si proclamava (e si proclama) difensore della libertà. Ora i numeri parlano chiaro: la libertà che il miliardario ritiene urgente preservare è principalmente una, la sua. E chissà che succederà quando non sarà più convergente con quella di Trump. 

L’articolo Disinformazione sui Social, ecco lo studio che prova la manipolazione di X. E che smentisce Elon Musk sembra essere il primo su LA NOTIZIA.

L’articolo proviene da lanotiziagiornale.it qui

Marattin lancia Orizzonti Liberali e il tassista Redsox lascia subito a piedi il nuovo movimento centrista

Luigi Marattin ci riprova. Dopo una stagione segnata dai fallimenti di un “piccolo centro” dilaniato dai personalismi, il deputato ex renziano ha deciso di lanciare Orizzonti Liberali, un nuovo soggetto politico che si propone di salvare l’Italia dal “bipopulismo” di destra e sinistra. Lo slogan è ambizioso e piuttosto usurato, ma l’operazione di marketing rischia di non bastare per distinguersi in un panorama dove liberali e liberisti già abbondano. Tra Forza Italia e i cespugli di Italia Viva e Azione, il mercato del centro sembra saturo e continua ad avere più eletti che elettori. Eppure Marattin è convinto che serva un’ulteriore dose di “mercato e concorrenza” per risollevare il Paese. 

Il tassista smentisce Marattin

Il debutto ufficiale avverrà questo fine settimana, con una convention che si annuncia già affollata di nomi noti. Nel parterre spiccano figure già protagoniste – o comparse – della politica italiana: da Andrea Marcucci, ex capogruppo Pd ai tempi d’oro del renzismo, a Oscar Giannino, meteora politica del 2013 con “Fare per Fermare il Declino”, passando per Carlo Cottarelli, che si era già rivelato una “punta di diamante” spuntata nella campagna elettorale di Enrico Letta. Si aggiungono nomi come Roberto Burioni, Chicco Testa, Anna Paola Concia e Simone Lenzi.

Un altro “colpo” mediatico doveva essere “Roberto Redsox”, valente tassista bolognese diventato un simbolo della lotta contro le furberie della categoria. Per Marattin Redsox “è il simbolo di quanto abbiamo bisogno di mercato e concorrenza. E il partito dei liberal-democratici italiani non avrà paura – aveva scritto trionfante sui suoi social – di chiedere i voti sulla base della promessa di maggiore libertà, più mercato più concorrenza”. Un colpo narrativo studiato a tavolino, se non fosse per un piccolo problema: Redsox non ci sarà. Il tassista ha prontamente smentito la sua adesione, liquidando Marattin con un comunicato in cui prende le distanze dal nuovo progetto politico.

“Ai suoi collaboratori che gentilmente mi hanno invitato – scrive su X il tassista – ho risposto che io sabato 23 lavorerò e non interverrò da voi. Parlatevi però eh!  Come ho già spiegato a esponenti di vari partiti io non faccio parte di nessun partito, non ho tessere, non partecipo per nessuno perché la mia azione è TRASVERSALE”. Con una piccola nota finale: “gentilmente non ho dato a nessuno il permesso di utilizzare la mia foto”. A proposito di mercato e di regole. 

Annunciare la presenza di un ospite senza avere la sua conferma ufficiale è un errore che non si addice a chi si candida a rappresentare il “rigore” e la “meritocrazia”. Redsox, con il suo comunicato, ha inflitto un primo colpo a quella che avrebbe voluto essere una narrazione pulita e ben confezionata.

Vecchie glorie e slogan usurati: il difficile debutto di Orizzonti Liberali

Nel frattempo, l’associazione lanciata da Marattin raccoglie attorno a sé vecchie conoscenze del panorama centrista, alcune delle quali sembrano essere tornate in campo più per mancanza di alternative che per reale convinzione politica. Andrea Marcucci, ad esempio, ha vagato nell’orbita renziana fino a perdere la bussola, per poi approdare a questa nuova avventura con l’entusiasmo di chi non ha nulla da perdere. Oscar Giannino, dal canto suo, porta in dote il ricordo di un fallimento politico divenuto proverbiale, mentre Cottarelli sembra destinato a rimanere un eterno “tecnico prestato alla politica” senza mai riuscire a lasciare un segno tangibile, sia nella tecnica che nella politica. 

L’idea di Marattin – salvare l’Italia da un presunto dualismo populista – si scontra con una realtà più complessa. Da un lato, i partiti maggiori come Fratelli d’Italia e il Pd hanno già occupato la maggior parte del terreno politico, lasciando ai piccoli centristi uno spazio sempre più esiguo. Dall’altro, l’elettorato italiano appare disilluso verso progetti che promettono “nuovi inizi” ma si affidano ai soliti volti noti.

Ora resta da capire se il grande centro di Marattin riuscirà a fare breccia nell’elettorato o se finirà per affollare ulteriormente il già confuso panorama centrista. Ma il debutto, con questa partenza traballante, lascia parecchi dubbi. 

L’articolo Marattin lancia Orizzonti Liberali e il tassista Redsox lascia subito a piedi il nuovo movimento centrista sembra essere il primo su LA NOTIZIA.

L’articolo proviene da lanotiziagiornale.it qui

“La prossima alluvione se lo ricorderanno”

“La prossima alluvione se lo ricorderanno”. L’epigrafe per analizzare il voto in Emilia Romagna, dove il centrosinistra ha vinto le elezioni regionali, è firmata da Rita Dalla Chiesa che risponde così su X a un post del suo collega di maggioranza, il leghista Claudio Borghi, che lamentava i preparativi “per la fanfara”. 

Forse la deputata di Forza Italia non lo sa ma in poche parole è riuscita a esprimere il vulnus della destra di cui fa parte: la vendetta, sempre, ad ogni costo. Le elezioni politiche di qualsiasi rango per i partiti di governo sono l’occasione di accendere una sarabanda di umiliazione degli avversari (in caso di vittoria) oppure come in questo caso di malaugurio e disprezzo in caso di sconfitta. 

La politica per molti di loro è semplicemente uno strumento di prevaricazione, fine ultimo del raggiungimento del potere. Per questo quando il risultato non conviene ai loro desiderata non resta che tingere foschi futuri evocando ed evocare tragiche conseguenze. 

In fondo non è nient’altro che complottismo radicale, quello che lucra su ciò che potrebbe accadere per non prendersi la responsabilità di analizzare il presente con tutte le sue responsabilità. 

Rita Dalla Chiesa non è, come erroneamente molti pensano, una parvenu televisiva in gita per un quinquennio in Parlamento. Dalla Chiesa  è vicecapogruppo di Forza Italia alla Camera dei deputati. È quindi classe dirigente del partito che Tajani vorrebbe presentare come diverso e illuminato nella fronda di maggioranza. 

«Parlo con il cuore. Speravo che gli emiliani capissero che era il momento di cambiare», si giustifica Dalla Chiesa. E anche il cuore come metafora altro non è che sensazionalismo applicato alla politica: populismo, tecnicamente. 

Buon martedì. 

L’articolo proviene da Left.it qui

Tra giustizia e vendetta, Delmastro supera il confine

C’è qualcosa di poeticamente nostalgico nella “gioia” di Andrea Delmastro. Non quella gioia banale dei comuni mortali – un tramonto, un abbraccio, una vittoria della nazionale. No, la gioia del nostro sottosegretario alla Giustizia è più selettiva: si accende quando può vantarsi di “non far respirare” i detenuti nelle auto della penitenziaria. Del resto, cosa c’è di più eccitante per un uomo di governo che poter togliere il fiato a qualcuno? È la versione ministeriale del bullo di quartiere, solo che invece della giacchetta firmata ha la delega alla Giustizia. E mentre nelle carceri si muore (ottanta suicidi quest’anno, ma chi li conta più?), lui si crogiola nel sua esibizione muscolare.

La verità è che Delmastro non ha confuso solo il ministero della Giustizia con quello della Vendetta di Stato. Ha proprio sbagliato secolo. Si è svegliato una mattina convinto di essere nel 1924, quando certi metodi erano non solo tollerati ma applauditi. Peccato che nel frattempo sia passata una Costituzione, qualche convenzione sui diritti umani, e persino l’abolizione della pena di morte. E mentre l’Anpi parla di “deliri da macellaio sadico” e molti chiedono le dimissioni, il nostro continua imperterrito e ben protetto. Ma forse dovremmo ringraziarlo. In un governo che cerca disperatamente di darsi una verniciata di rispettabilità, Delmastro ci ricorda chi sono davvero. Quella “gioia” nel far soffrire vale più di mille analisi politiche. È la fotografia perfetta di chi confonde la forza con la violenza, la giustizia con la vendetta, il dovere istituzionale con il sadismo da quattro soldi.

L’articolo Tra giustizia e vendetta, Delmastro supera il confine sembra essere il primo su LA NOTIZIA.

L’articolo proviene da lanotiziagiornale.it qui

Effetto Trump sull’Ucraina: l’Unione europea resta senza alibi

La diplomazia, si sa, è una parola che può riempire la bocca o svuotare il senso. Ora, con Donald Trump che si prepara a fare il suo ingresso trionfale alla Casa Bianca, l’Unione europea si ritrova di fronte alla più grande delle sue ipocrisie: quella di aver raccontato per anni che la guerra in Ucraina si poteva vincere. Una vittoria netta, dicono i documenti ufficiali. Una vittoria totale, suggeriva la retorica. E invece ora, senza più il paracadute statunitense, l’Europa deve scegliere tra due parole che fanno tremare Bruxelles: trattare o mollare.

Joe Biden, con il tempismo incerto che lo ha contraddistinto, lascia la scena con un “regalo d’addio” che somiglia più a un contentino: via libera ai missili a lungo raggio, giusto in tempo per Zelensky e i suoi a tentare di fermare la nuova alleanza tra Mosca e Pyongyang. Ma la mossa non cambia i termini della questione: Trump lo ha detto e lo farà. Basta armi. Basta soldi. Basta Ucraina. L’America torna a casa, e il resto del mondo si arrangi.

L’addio di Biden e l’incognita Trump: chi sosterrà l’Ucraina

Il resto del mondo, però, è l’Unione europea, che nel frattempo gioca con se stessa una partita tragicomica. C’è Olaf Scholz che telefona a Putin – primo contatto diretto in due anni – come a dire “proviamo a vedere se lo convinciamo”. Lo fa da solo, senza nemmeno avvisare Macron, gli inglesi o i polacchi, e il risultato è una linea di propaganda che si scrive da sé: la Germania, accusata di essere lenta, pavida e indecisa, decide di agire, ma senza coordinarsi. Zelensky, dal canto suo, liquida Scholz con poche parole: “Un vaso di Pandora”. Donald Tusk, premier polacco, ci mette il carico: “Putin non lo fermi con una telefonata”.

Nel frattempo, a Varsavia si riuniscono i ministri europei in un “Weimar Plus” che dovrebbe stabilire una linea comune sul futuro dell’Ucraina. Ma la verità è che nessuno vuole dirlo ad alta voce: se Trump taglierà i fondi americani, la macchina bellica ucraina resterà senza benzina. Josep Borrell, l’alto rappresentante per la politica estera Ue, è forse l’unico a osare qualche verità: senza gli Stati Uniti, l’Europa dovrà mettere mano al portafogli in modo mai visto prima. Non solo per armi, ma per la ricostruzione di un paese devastato, un progetto che secondo alcune stime costerà fino a mille miliardi di euro.

E allora, dove sono le decisioni forti? La Germania aumenta le sue spese militari, certo, ma dal ridicolo 1,15% al timido 1,3% del Pil. Si promettono missili, ma non quelli decisivi. Si parla di sanzioni, ma il gas naturale liquefatto russo continua a riempire i depositi europei. Intanto, a Kyiv, l’inverno arriva accompagnato da 120 missili e 90 droni che Putin usa per bucare il sistema energetico ucraino. Una delle peggiori offensive aeree dall’inizio della guerra. Ma Olaf Scholz vuole parlare.

Un’Europa divisa tra diplomazia e debolezza strategica

La verità, velenosa ma evidente, è che l’Europa non è pronta. Lo dice Borrell, lo dicono i numeri, lo sussurrano persino i diplomatici a microfoni spenti. Per anni, l’UE ha nascosto sotto la coperta della Nato la propria incapacità di agire in autonomia. Ora quella coperta si ritira, e l’Europa si scopre nuda, divisa e spaventata.

Ci sarà tempo per i bilanci, ma una cosa è chiara: l’Unione Europea ha una sola opzione rimasta. Non sarà più sufficiente sostenere l’Ucraina con il briciolo di coraggio necessario per non irritare Putin. Se davvero si crede a quel mantra europeo, “niente Ucraina senza Ucraina”, è ora di metterlo in pratica. E questo significa accettare il costo, la responsabilità e il rischio. Trump o non Trump.

L’invasione russa del febbraio 2022 due anni e mezzo dopo torna al punto di partenza. Le strategie di chi urlava “à la guerre comme à la guerre” si sono rivelate sbagliate. Ora si comincia da capo, C’è in più qualche milioni di sfollati, ci sono in più un milione di vittime tra morti e feriti. 

L’articolo Effetto Trump sull’Ucraina: l’Unione europea resta senza alibi sembra essere il primo su LA NOTIZIA.

L’articolo proviene da lanotiziagiornale.it qui

Un grammo di propaganda di Salvini, ogni giorno

I colleghi di Pagella Politica, il sito che smonta le falsità nelle dichiarazioni dei politici, li immagino seduti di fronte al rullo delle agenzie di stampa, sorseggiando un tè caldo con già pronta la bozza del prossimo articolo su Matteo Salvini.

«Un giudice questa settimana non è stato in grado di tenere in carcere un cittadino straniero trovato con 11 chili di cocaina in macchina, a Brescia, per un errore formale di traduzione. Questo tizio è fuori [dal carcere, ndr]». Così tuona il vicepresidente del Consiglio mentre è ospite della trasmissione Agorà su Rai3.

È una storia che sta particolarmente a cuore al leader leghista. Due giorni prima, intervenendo a Otto e mezzo su La7, aveva sbandierato un articolo de Il Giornale dal titolo: “Brescia: “Non capisce l’italiano”. E il giudice libera il pusher albanese trovato con 11 chili di cocaina in macchina”. Per Salvini, la vicenda dimostrerebbe la volontà dei giudici italiani di piegare le leggi e quindi «fare politica». Secondo lui, i giudici sarebbero interessati a «andare contro il governo», liberando presunti spacciatori albanesi.

Peccato che l’articolo dica tutt’altro. Al suo interno si legge che un cittadino albanese è stato sottoposto all’interrogatorio di garanzia avvalendosi di un interprete pescato tra i detenuti, e non di un professionista come sancisce la legge. Inoltre, l’ordinanza non era stata tradotta correttamente.

Il ricorso è stato accolto, ma il presunto spacciatore non è stato scarcerato. È stata semplicemente disposta una nuova ordinanza, questa volta tradotta come previsto dalla normativa.

«Se un giudice – insiste Salvini – non riesce a tenere in carcere un tizio con 11 chili di cocaina in macchina, è colpa di Salvini o di quel giudice che non riesce a fare il suo mestiere?».

La risposta è chiara: è colpa di Salvini.

Buon lunedì.

L’articolo proviene da Left.it qui

Sulla libertà della Rete si gioca la credibilità delle democrazie – Lettera43

Il rapporto Freedom on the Net 2024 traccia un quadro preoccupante. E non solo nei regimi autocratici, visto che la civilissima Europa sta adottando misure restrittive con la scusa di combattere la disinformazione o garantire la sicurezza nazionale. In Italia preoccupa anche il divario digitale che amplifica le disuguaglianze sociali ed economiche. Senza un accesso a internet equo e sicuro, rischiamo di trasformare il web in un’altra arena di repressioni.

Sulla libertà della Rete si gioca la credibilità delle democrazie

C’è un’immagine che il rapporto Freedom on the Net 2024 disegna con chirurgica precisione: una Rete sempre meno libera, dove la promessa dell’accesso universale e della democrazia digitale si sgretola sotto il peso della censura, della manipolazione politica e della sorveglianza di Stato. Internet è diventato il riflesso delle fratture del mondo: chiuso, oppresso e stratificato. Il dato più inquietante? Per il 14esimo anno consecutivo, la libertà online registra un declino globale. Questo significa che, per milioni di persone, il web non è più uno spazio neutrale, ma un campo di battaglia dove si gioca il controllo delle informazioni, della narrazione e, in ultima istanza, della verità.

Sulla libertà della Rete si gioca la credibilità delle democrazie
Un internet caffè a San Francisco (Getty Images).

La censura e il controllo non riguardano solo i regimi autocratici ma anche le democrazie avanzate

La Cina, con il suo modello iper-repressivo, e il Myanmar, schiacciato sotto il regime militare, sono i due peggiori esempi di come il digitale possa diventare un’arma contro la popolazione. In Myanmar, nuove tecnologie di censura hanno tagliato l’accesso alla Vpn e a strumenti che garantivano un minimo di libertà; in Cina, le multe per chi aggira i blocchi online raggiungono cifre che trasformano la ribellione in un lusso per pochi. Ma non è solo una questione di regimi autocratici: il rapporto evidenzia come anche molte democrazie avanzate stiano adottando misure che riducono spazi di libertà con la scusa di combattere la disinformazione o garantire la sicurezza nazionale. Ci sono numeri che spaventano. Il 79 per cento degli utenti globali vive in Paesi dove esprimere un’opinione politica online può portare all’arresto. In 43 Stati, documenta Freedom House, si è arrivati al picco dell’orrore: violenze fisiche, omicidi e repressioni mirate contro chi osa parlare, anche in contesti non conflittuali. Il web non è più una piazza, ma un’arena in cui i più deboli vengono schiacciati dal peso di legislazioni repressive e dalla manipolazione sistematica delle informazioni.

Sulla libertà della Rete si gioca la credibilità delle democrazie
Un server (Getty Images).

In Europa il Digital Services Act è già finito sotto accusa

Guardare all’Europa potrebbe far pensare che almeno qui la situazione sia sotto controllo, che il continente delle libertà possa rappresentare un’eccezione. Ma il rapporto racconta un’Europa meno virtuosa di quanto ci piaccia credere. È vero, non ci sono repressioni brutali come in Myanmar, ma il confine tra regolamentazione e controllo si fa ogni giorno più sottile. Il Digital Services Act (Dsa), celebrato come un passo avanti per disciplinare le piattaforme digitali, è già finito sotto accusa. La sua applicazione, pensata per garantire trasparenza e limitare la disinformazione, ha aperto spazi di ambiguità che potrebbero trasformarlo in uno strumento di censura. L’Unione europea ha avviato procedimenti contro Meta e X (ex Twitter) per non aver rispettato le regole sulla trasparenza delle campagne elettorali. Apparentemente una misura giusta, ma che solleva dubbi sull’equilibrio tra la necessità di regolare e il diritto alla libertà di espressione. Meta, ad esempio, ha denunciato l’impossibilità di rispettare le richieste senza compromettere il funzionamento delle sue piattaforme, un argomento che mette in evidenza le complessità di questa regolamentazione. In Francia, nel territorio della Nuova Caledonia, il governo ha bloccato TikTok per reprimere le proteste della comunità indigena Kanak. Una decisione che mostra il lato più inquietante delle democrazie europee: quando il dissenso si fa difficile da gestire, anche la libertà digitale diventa un bersaglio. Il rapporto documenta come misure simili siano sempre più frequenti, e trasformino l’Europa in un continente che, pur vantando un quadro normativo avanzato, non è immune da contraddizioni.

Sulla libertà della Rete si gioca la credibilità delle democrazie
Il logo di Google (Getty Images).

In Italia preoccupa il divario digitale che amplifica le disuguaglianze sociali ed economiche

L’Italia è uno dei Paesi europei dove la libertà online assume connotazioni ambigue. Se da un lato le normative europee garantiscono una certa protezione, dall’altro il contesto politico solleva preoccupazioni crescenti. Il governo Meloni ha mostrato una particolare attenzione al controllo dell’informazione digitale, tra tentativi di limitare il dissenso online e un uso selettivo delle leggi contro la disinformazione. Il rapporto evidenzia come il nostro rientri tra i Paesi dove il rischio di censura tecnica – come il blocco di siti web o la rimozione di contenuti critici – sia in aumento. Ma c’è un’altra faccia della medaglia, forse più drammatica: il divario digitale. In un’epoca in cui l’accesso alla Rete dovrebbe essere un diritto universale, l’Italia è spaccata in due. Nel Sud, intere aree soffrono di connessioni lente, costose e inadeguate. Qui, l’esclusione digitale non è solo una questione tecnica, ma un fattore che amplifica le disuguaglianze sociali ed economiche. Mentre si parla di innovazione, di intelligenza artificiale e di smart city, ci sono comunità che non possono nemmeno accedere a una connessione stabile per studiare, lavorare o partecipare al dibattito pubblico.

In gioco c’è la credibilità stessa delle democrazie che si dicono pronte a difendere la libertà digitale

Il rapporto Freedom on the Net 2024 chiama l’Occidente a un confronto scomodo con le proprie contraddizioni. La libertà digitale, da promessa di emancipazione, rischia di diventare un privilegio per pochi. Le democrazie, che avrebbero dovuto proteggere internet come uno spazio libero e pluralista, si trovano invischiate in dinamiche di controllo e restrizione che le avvicinano più di quanto vorrebbero ai modelli autoritari. Il futuro di internet è in bilico. La scelta non riguarda solo la tecnologia, ma la capacità di difendere i valori fondamentali su cui si basa la democrazia. L’Europa, e con essa l’Italia, possono ancora invertire la rotta, ma servono coraggio e visione. Senza un impegno concreto per garantire un accesso equo, libero e sicuro, rischiamo di trasformare la Rete in un’altra arena di disuguaglianze e repressioni. E il prezzo da pagare sarà non solo la perdita di libertà digitale, ma la credibilità stessa delle democrazie che si dicono pronte a difenderla.

L’articolo proviene da Lettera43 qui https://www.lettera43.it/liberta-rete-rapporto-freedom-on-the-net-2024-italia-divario-digitale/