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In Corte d’Appello giustizia più… lontana

Nonostante le decisioni dei Tribunali e il rinvio della questione al vaglio della Corte di giustizia Ue, il governo e la maggioranza non demordono. E con gli emendamenti al decreto-legge n. 145/2024, il cosiddetto “decreto flussi”, va in scena l’ennesimo tentativo di arginare l’ostacolo del diritto e della giurisprudenza Ue. Come? Trasferendo la competenza sulla convalida dei trattenimenti delle persone migranti dalle sezioni specializzate dei tribunali ordinari direttamente alle Corti d’Appello.

Una giustizia più distante

Un dettaglio tecnico, si potrebbe pensare. Ma come spesso accade, il diavolo si nasconde nei dettagli, e qui non c’è nemmeno bisogno di scavare troppo. “Così si stravolge il sistema giudiziario”, ha denunciato senza mezzi termini l’Associazione nazionale magistrati.

L’Anm è preoccupata per l’inevitabile carico di lavoro che andrà a colpire le Corti d’Appello, già stremate da arretrati che non fanno che aumentare. “La modifica – spiegano i magistrati – rischia di paralizzare ulteriormente il sistema, aggravando i ritardi e compromettendo l’efficienza della giustizia”. Ma c’è di più, perché dietro ai numeri dei fascicoli che si accumulano si intravede il profilo di chi paga davvero il prezzo: le persone migranti. “Un attacco al diritto di difesa”, ha dichiarato l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi), che parla di un disegno politico preciso. Più alto è il tribunale, più lontano è il diritto.

Le Corti d’Appello sono poche, sparse in modo disomogeneo sul territorio, e molte persone rischiano di trovarsi impossibilitate a partecipare ai propri procedimenti per i costi e le difficoltà logistiche. E senza la presenza diretta dell’interessato, il rischio di una giustizia sommaria diventa quasi certezza. Dietro l’apparente tecnicismo, c’è una manovra di controllo che non sfugge nemmeno ai giuristi più prudenti. Scoraggiando e rendendo più difficoltosi i ricorsi. C’è chi arriva a spingersi anche oltre. “Un tentativo di scegliere i magistrati più allineati” (ma fino a che punto quando in ballo c’è l’applicazione del diritto? ndr), si legge su Pressenza in un articolo firmato da Antonio Mazzeo, che parla di “una lesione del principio di separazione dei poteri”.

E poi c’è il principio del giusto processo che rischia a sua volta di essere compresso. “Le sezioni specializzate dei tribunali ordinari hanno esperienza e competenza specifica”, sottolinea ancora l’Asgi. Spostare tutto alle Corti d’Appello significa perdere quella sensibilità maturata negli anni, sostituendola con la freddezza burocratica di un’istituzione pensata per il secondo grado di giudizio, non per i primi accertamenti. Risultato: compressione dei diritti, ricorsi più difficili.

Diritti compressi

La strategia è quella di alzare barriere, non solo fisiche ma anche giuridiche. È una partita a scacchi giocata sulla pelle delle persone migranti, che si vedono allontanare sempre di più da una giustizia accessibile. Una giustizia che, quando funziona, è una delle poche difese contro il potere. Il tutto in un clima di silenzio assordante.

Il dibattito parlamentare è svuotato, ridotto a una corsa per blindare un decreto senza ascoltare chi lavora sul campo, chi conosce i meccanismi della giustizia e chi vive sulla propria pelle queste decisioni. Ma la verità è che questo silenzio è voluto: più è forte la barriera tra cittadini e giustizia, più il potere resta intoccabile. E se le sezioni specializzate dei tribunali civili sono troppo “scomode”, meglio trasferire tutto altrove, magari in un ufficio distante, anche fisicamente.

Questo è il nuovo volto della giustizia italiana: lontana, più difficile da attivare, selettiva. “Un accerchiamento dei diritti fondamentali”, lo ha definito Giovanni Tizian su Domani. In questa logica il decreto flussi, dietro al nome innocuo, non è che l’ennesimo tassello di una politica che sta trasformando i diritti in un lusso per pochi.

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Una Ceo per l’Europa, Von der Leyen rischia il tutto per tutto

La riorganizzazione interna della Commissione europea orchestrata da Ursula von der Leyen è tutt’altro che un passaggio burocratico: è un banco di prova per la sua leadership e, soprattutto, per la tenuta di un’Unione sempre più fragile. L’obiettivo dichiarato è consolidare il controllo sul bilancio comunitario da 1,2 trilioni di euro, un’enormità che la presidente intende gestire accentrando potere nelle sue mani. L’idea sembra chiara: più comandi e meno negoziazioni. Tradotto, meno democrazia interna, più efficienza. Almeno così sperano a Bruxelles. 

Cash-for-reforms: un modello che divide l’Unione

La mossa si materializza con il trasferimento di quasi 200 funzionari del dipartimento per le riforme, che confluiranno in quello del Recovery Fund, sotto un’unica struttura. Una fusione che mira a estendere il modello “cash-for-reforms” del Recovery Fund anche al prossimo bilancio settennale 2028-2034: gli Stati membri dovranno mettere sul tavolo riforme concrete per ricevere i fondi europei. Più facile a dirsi che a farsi, specie in un’Unione dove ogni governo ha la sua agenda, spesso in contrasto con quella di Bruxelles.

Ma è qui che emerge il lato politico della questione. Von der Leyen ha bisogno di presentarsi come la leader di un’Europa compatta, capace di rispondere alle sfide globali con un’unica voce. Peccato che dietro il sipario questa compattezza somigli più a un castello di carte. Se l’idea è che per governare meglio si debba avere più potere, allora significa che la maggioranza che sostiene von der Leyen è tutto fuorché salda. Del resto, anche le critiche interne parlano chiaro: questa riorganizzazione rischia di mettere in evidenza più i difetti che i pregi del suo mandato. 

L’ambizione di von der Leyen: accentramento o fragilità?

E non è solo una questione di efficienza. Secondo molti funzionari, accorpare due dipartimenti con culture e obiettivi così diversi potrebbe generare più tensioni che soluzioni. Inoltre, la concentrazione del potere decisionale rischia di ridurre la trasparenza, una qualità che Bruxelles fatica già a mantenere in tempi normali. Non sorprende, quindi, che molti vedano in questa mossa un tentativo di “managerializzare” l’Europa, trasformando la Commissione in una sorta di consiglio di amministrazione con von der Leyen nel ruolo di Ceo. Sarà davvero questa la strada giusta

Poi c’è il capitolo Fitto, uno dei protagonisti italiani di questa partita. Il ministro per gli Affari Europei pare destinato a vedere ridimensionato il proprio ruolo. Per rendere il piano di von der Leyen digeribile, infatti, si ipotizza un modello in cui i poteri nazionali come quelli di Fitto vengano ulteriormente indeboliti. Un paradosso tutto italiano: se il nostro governo voleva meno Europa invadente, ora potrebbe trovarsi con un’Europa ancora più intraprendente e con meno leve nazionali da manovrare.

Non è finita qui. L’approvazione del piano richiede l’unanimità degli Stati membri, un traguardo quasi utopico. I paesi del Nord potrebbero appoggiare la condizionalità dei fondi a rigide riforme, ma quelli del Sud e dell’Est non sono altrettanto entusiasti. E c’è da capirli: chi accetterebbe volentieri ulteriori vincoli in un contesto già complicato?

L’incognita sovranista sul cammino di von der Leyen

Il tempismo non aiuta. Con il voto sulla Commissione europea alle porte, ogni mossa di von der Leyen diventa un bersaglio per i partiti sovranisti, pronti a dipingere Bruxelles come un mostro tecnocratico lontano dai bisogni dei cittadini. E von der Leyen si gioca molto più di una riorganizzazione interna: il suo futuro politico potrebbe dipendere da come sarà percepita questa operazione. Se fallisce, le possibilità di un secondo mandato rischiano di svanire.

La verità, però, è che questa riforma racconta un’Europa spaventata, che tenta di blindarsi attraverso l’accentramento del potere. Forse von der Leyen dovrebbe chiedersi se governare meglio significhi davvero avere più controllo o, piuttosto, saper dialogare con quelle parti dell’Unione che si sentono lasciate indietro. Per ora, resta l’impressione di una Commissione che si racconta forte, ma che nella sostanza appare debole e divisa. Un’Europa con il pugno di ferro, ma i nervi scoperti.

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Ucraini fregati due volte, ora dicono basta guerra

La guerra in Ucraina sta mostrando il suo volto più cinico: quello della stanchezza. Non quella dei soldati in trincea, ma quella ben più insidiosa dei salotti occidentali, dove i calcoli politici hanno iniziato a prevalere sugli impegni presi. I numeri dell’ultimo sondaggio Gallup sono impietosi quanto rivelatori: il 52% degli ucraini ora chiede una pace negoziata. Una resa mascherata da pragmatismo? No, il risultato di un doppio tradimento. Il primo tradimento è evidente: viene da una Russia che ha violato ogni principio del diritto internazionale, invadendo un paese sovrano con la scusa della “denazificazione”. Un’invasione che ha trasformato città in macerie e vite in statistiche. Ma il secondo tradimento, più sottile e forse più doloroso, viene da quell’Occidente che aveva promesso vittoria totale, protezione, integrazione, un futuro europeo.

Guardate i numeri: nel 2022, il 73% degli ucraini era pronto a combattere fino alla vittoria. Una determinazione granitica, alimentata dalle promesse di sostegno “incondizionato” dell’Occidente. Oggi quel numero si è dimezzato. Non è solo la stanchezza della guerra: è la delusione di chi ha creduto nelle parole altisonanti pronunciate nei palazzi di Bruxelles e Washington. La verità è che qualcuno ha venduto agli ucraini un sogno che non erano pronti a difendere fino in fondo. Ora il 52% di coloro che vogliono negoziare è disposto anche a cedere territorio per la pace. Un prezzo altissimo per chi aveva creduto nelle promesse di sostegno “incondizionato” sventolato da certi politici ora in ritirata. Zelensky dice che la fine della guerra è più vicina di quanto pensiamo. Ha ragione, ma non nel modo in cui sperava. Chissà se qualcuno ci spiegherà che anche gli ucraini sono solo “pacifinti”.

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Alla Cop29 l’Italia predica ma non pratica

Alla COP29 di Baku, l’Italia si è presentata al mondo come sempre, avvolta nella retorica: il governo si proclama all’avanguardia nella lotta al cambiamento climatico ma i numeri la smentiscono con fragore. Il 43° posto nel Climate Change Performance Index (CCPI), elaborato da Germanwatch, CAN e NewClimate Institute, è impietoso. È il simbolo di una politica climatica che non funziona. Un leggero miglioramento rispetto al 44° posto dello scorso anno, ma ben lontano dalle prime posizioni occupate da Danimarca, Paesi Bassi e Regno Unito. L’Italia è ferma, mentre gli altri corrono.

Il 43° posto: una condanna alle politiche italiane

Non mancano, però, i proclami. La presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, non ha esitato a dichiarare che l’Italia è in prima linea nella lotta ai cambiamenti climatici. Il ministro dell’Ambiente, Gilberto Pichetto Fratin, le ha fatto eco affermando che l’Italia sta mantenendo gli impegni climatici internazionali. Dichiarazioni, però, che cozzano contro i dati del rapporto: l’Italia si colloca al 55° posto per la politica climatica, un segnale inequivocabile di un impegno più raccontato che reale.

L’analisi è impietosa. L’Italia arranca al 38° posto per la riduzione delle emissioni climalteranti, mostrando un trend che definire timido sarebbe generoso. La transizione verso le energie rinnovabili e l’efficienza energetica avanza con lentezza, mentre i ritardi nei processi autorizzativi continuano a soffocare ogni slancio verso la sostenibilità. “Il nostro Paese continua ad avere una visione miope che non riduce le bollette, crea nuove dipendenze energetiche e rallenta la transizione ecologica”, ha dichiarato Stefano Ciafani, presidente nazionale di Legambiente. Parole dure, che fotografano un immobilismo non solo politico, ma anche culturale.

I numeri non mentono: mentre la Danimarca brilla al 4° posto grazie alla significativa riduzione delle emissioni e allo sviluppo delle rinnovabili, l’Italia rimane ancorata a una strategia che sembra uscita dagli anni ’90. Lo stesso Green deal europeo, che potrebbe rappresentare una guida per uscire dall’impasse, viene trattato più come una seccatura che come un’opportunità.

COP29: tante parole, pochi fatti. Non solo dall’Italia

E la realtà, in Italia, si manifesta con eventi meteo estremi sempre più frequenti e devastanti. Alluvioni, siccità, ondate di calore: fenomeni che colpiscono duro l’agricoltura, l’economia e le comunità. Ogni anno si moltiplicano le occasioni per dimostrare di aver capito la lezione ma si continua a temporeggiare, ricorrendo ad ogni disastro al solito scaricabarile che offre al mondo uno spettacolo di immobilismo. Alla COP29, il nostro Paese ha ribadito un triste copione: si parla molto e si fa molto poco.

Il fallimento italiano non è isolato, certo. Il rapporto evidenzia che nemmeno le prime tre posizioni della classifica sono state assegnate, poiché nessun Paese ha raggiunto una performance in linea con l’obiettivo di contenere il riscaldamento globale entro 1,5°C. Ma mentre altri, come Regno Unito e Olanda, scalano posizioni grazie a politiche innovative e coraggiose, l’Italia si limita a inseguire un modello energetico superato, fondato su fossili e confuse ipotesi di ritorno al nucleare.

Legambiente parla di obiettivi chiari: ridurre le emissioni del 65% entro il 2030, in coerenza con l’Accordo di Parigi. Ma per farlo serve una visione che il governo attuale sembra incapace di fornire. Servono investimenti massicci in rinnovabili, efficienza energetica e infrastrutture sostenibili. Bisogna semplificare gli iter burocratici e abbandonare le fonti fossili una volta per tutte.

Nel 2023 l’Italia era crollata nell’indice delle performance ambientali al 44° posto perdendo ben 15 posizioni. Un anno dopo si può tranquillamente dire che non è stato un caso. 

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Cop29 come se fosse un hobby

A Baku, la Cop29 non smette di ricordarci che il cambiamento climatico è il convitato di pietra della politica globale. Le promesse scivolano sui tavoli come un rituale stanco: l’Unione Europea confessa il ritardo nei contributi nazionali (gli Ndc), le nazioni più inquinanti continuano a litigare sul “chi paga” e i Paesi vulnerabili attendono un fondo promesso da anni, mai veramente realizzato.  

I leader mondiali parlano di “svolta” ma guardano altrove. Il Commissario europeo Wopke Hoekstra ammette che l’obiettivo di aggiornare gli impegni climatici entro il 2025 potrebbe essere disatteso. Intanto, le emissioni globali toccano nuovi record, e ogni parola pronunciata nelle aule di Baku sembra galleggiare in un vuoto di credibilità.  

Il finanziamento climatico – il cuore del problema – è ancora una favola a cui nessuno sembra credere davvero. La roadmap proposta per garantire i 100 miliardi di dollari annuali resta un elenco di buone intenzioni, mentre chi avrebbe bisogno di risposte concrete continua a soccombere a eventi estremi e devastazioni.  

La questione climatica, relegata ai margini delle priorità globali, viene affrontata con lo stesso entusiasmo di un’incombenza amministrativa. E mentre i negoziati arrancano, il tempo si accorcia. Se il clima è il termometro del nostro futuro, allora il mondo, con il suo immobilismo, sembra scegliere di ignorare la febbre. E la stampa continua a relegare la questione nelle pagine dei lettori affezionati, come se fosse un hobby quello di preoccuparsi della fine del mondo. 

Buon mercoledì.

Nella foto: l’ecoattivista Greta Thunberg protesta davanti all’ufficio delle Nazioni Unite a Yerevan, Armenia, contro la Cop29 in corso a Baku, 16 novembre 2024

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Tre bimbi morti al giorno, una strage silenziosa

Tre bambini al giorno. Non è una statistica, è una conta macabra che si consuma nel silenzio generale mentre noi beviamo il nostro caffè mattutino. In Libano, mentre il mondo è distratto da altro, si sta consumando una tragedia che ha il volto dell’infanzia perduta. I numeri sono impietosi: più di 200 bambini uccisi in due mesi. Ma dietro i numeri ci sono storie, come quella di Celine Haidar, giovane promessa del calcio libanese, ora in coma per una scheggia alla testa. O come quei sette bambini di un’unica famiglia, spazzati via mentre cercavano rifugio sul Monte Libano. Fuggivano dalla morte e la morte li ha raggiunti comunque. La comunità internazionale? Assiste con la stessa indifferenza con cui si guarda un temporale dalla finestra. L’Unicef fa quello che può, con un budget ridicolo – finanziato per meno del 20% del necessario – mentre gli operatori sanitari cadono come soldati in prima linea: 200 morti, 300 feriti. Le scuole? Chiuse. Gli ospedali? Sotto attacco.

L’acqua potabile è diventata un lusso per 450.000 persone. E i bambini sopravvissuti portano cicatrici che nessun cerotto potrà mai coprire: il trauma psicologico di chi cresce tra le bombe diventa la normalità di una generazione perduta. Ma ciò che fa più male è il silenzio. Un silenzio che pesa come piombo sulla coscienza di chi potrebbe fare qualcosa e sceglie di non farlo. La morte dei bambini in Libano è diventata una notizia di sottofondo, come il ronzio di un televisore dimenticato acceso. E mentre scriviamo editoriali indignati, altri tre bambini moriranno oggi. Altri tre domani. In un crescendo di orrore che si è trasformato in routine. L’orrore, quando diventa quotidiano, rischia di perdere il suo potere di sconvolgere. E sullo sfondo c’è Gaza, con donne e bambini uccisi in un anno come mai in nessun altro conflitto.

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Povertà e solitudine Giornata mondiale (ma nera) dell’infanzia

Rosa ha diciassette anni. Ha smesso di contare i giorni nel momento esatto in cui il lockdown si è insediato dentro di lei, trasformando le mura di casa in una trincea e le giornate in un rituale sempre uguale. Esce raramente, e quando lo fa, il mondo le sembra meno reale di una chat su Telegram. Ha un sogno – visitare Londra con la sua migliore amica – ma per ora rimane una fantasia, una scintilla che si accende e si spegne con il tremore delle sue mani. ADHD, disturbo dell’umore, ansia sociale: le diagnosi si accumulano, come pezzi di una storia che non è solo sua.  

La povertà che scolpisce il futuro

Rosa è un simbolo. Un volto tra i tanti raccontati dal rapporto *Non sono emergenza*, promosso dall’impresa sociale *Con i Bambini* e dalla Fondazione Openpolis per la Giornata mondiale dell’infanzia e dell’adolescenza che cade il 20 novembre, che fotografa l’infanzia e l’adolescenza nell’Italia del post-pandemia. È una fotografia cruda, fatta di numeri che pesano come macigni. Nel 2023, il 13,8% dei minori viveva in povertà assoluta: quasi 1,3 milioni di bambini e ragazzi intrappolati in un presente che non fa sconti. È il dato più alto mai registrato dal 2014, segno che la pandemia non ha solo amplificato le disuguaglianze, ma le ha scolpite nel tessuto sociale del Paese.  

La povertà materiale è solo la punta dell’iceberg. Il rapporto evidenzia come il disagio minorile abbia radici più profonde: culturali, educative, relazionali. Durante la pandemia, la dispersione scolastica implicita – ragazzi che frequentano ma non imparano – ha raggiunto livelli allarmanti. Nel 2022, il 12% degli studenti provenienti da famiglie svantaggiate ha completato il percorso di studi senza acquisire competenze di base. Nonostante un leggero miglioramento, nel 2024 il 44% dei maturandi non raggiunge standard adeguati in italiano e il 47,5% in matematica. Dati che, come sottolinea il rapporto, rivelano “una crisi educativa di lungo periodo, legata non solo alla pandemia, ma a disuguaglianze strutturali”.  

Solitudine e resilienza: il peso di crescere oggi

Ma è la solitudine, forse, la ferita più profonda. Nel 2023, meno di un terzo dei ragazzi tra 11 e 17 anni dichiarava di vedere i propri amici ogni giorno. Una generazione fa erano il 70%. L’emergenza sanitaria ha solo accelerato un declino già in atto: le relazioni si sono trasferite online, gli abbracci sono diventati emojii. Tra gli 11-17enni, il 2,5% presenta dipendenza da social media, mentre quasi 66 mila ragazzi hanno manifestato una tendenza all’isolamento sociale, il fenomeno degli *hikikomori*.  

Poi ci sono le ragazze. Sono loro, spesso, a pagare il prezzo più alto. Il 9,3% dei giovani tra 11 e 17 anni è a rischio grave di dipendenza da cibo: 373 mila adolescenti, per la maggior parte ragazze, che combattono contro un’immagine di sé che non sentono mai adeguata. Gli accessi al pronto soccorso per disturbi alimentari sono aumentati del 10,5% rispetto al 2019, un dato che il rapporto definisce “indicativo di un malessere sistemico”.  

Eppure, in questo scenario fatto di ombre, c’è anche una luce. Come nota il rapporto, “i giovani non sono solo vittime di un sistema disfunzionale, ma protagonisti di un cambiamento possibile”. Il 6,8% dei ragazzi tra 14 e 17 anni nel 2023 ha partecipato ad attività di volontariato, un dato in crescita rispetto al 2021. Tra i 15 e i 24 anni, quasi due giovani su tre si dichiarano molto preoccupati per il cambiamento climatico, più della media della popolazione adulta.  

C’è un messaggio che emerge, potente, dal rapporto: il disagio minorile non si risolve con soluzioni emergenziali o paternalistiche. Serve un cambiamento di prospettiva. Serve, come sottolineano gli autori, “una narrazione che parta dai giovani, dai loro bisogni e dalle loro esperienze, coinvolgendoli attivamente nelle politiche che li riguardano”.  

Rosa, con il suo biglietto per Londra, non è solo un caso. È una storia, una voce, un futuro che ci riguarda tutti. La sua vita, come quella di tanti altri, ci chiede una cosa: ascolto. E l’ascolto, come la cura, non è mai un atto emergenziale. È un progetto. Un impegno. Un modo di dire che sì, ci importa.  

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Migranti, Trump rilancia le deportazioni forzate

L’idea non è nuova, ma questa volta porta con sé il peso di un’ambizione spietata: Donald Trump annuncia il programma di rimpatri forzati più grande della storia americana. “Forced Deportation Program”: un nome che suona come un proclama da tempi bui, un’operazione che promette di deportare milioni di persone migranti irregolari, con costi stimati fino a 960 miliardi di dollari. Non è solo una questione di numeri, è una dichiarazione politica: deportare vite per un ritorno all’America che Trump sogna.

Un piano senza precedenti: costi, numeri e macabra logistica

A guidare la macchina di espulsione c’è Thomas Homan, ex capo dell’Immigration and Customs Enforcement (ICE, il servizio federale responsabile della gestione dei flussi migratori e del controllo delle frontiere interne). Homan è già noto per le politiche aggressive contro l’immigrazione durante il primo mandato di Trump. “Il nostro piano è semplice: cacciare via chi non appartiene a questo Paese”, ha dichiarato Homan in un’intervista a Fox News. È la visione di un’America che non si limita a erigere muri, ma che usa il sistema federale come un’arma per cancellare presenze indesiderate.

Il piano è talmente massiccio che richiederebbe una rete logistica senza precedenti: nuove strutture di detenzione, personale triplicato per l’ICE e una campagna di identificazione che ricorda tristemente altri momenti storici. Gli attivisti per i diritti civili, come l’Unione Americana per le Libertà Civili (ACLU), hanno già definito il programma una “pulizia etnica legalizzata”.

I numeri dipingono il ritratto di una follia economica. Un rapporto del Center for American Progress calcola che deportare dieci milioni di persone costerebbe oltre 900 miliardi di dollari in un decennio, senza contare il crollo dei settori economici più dipendenti dalla manodopera migrante. Agricoltura, edilizia e turismo rischiano un tracollo immediato: il 73% dei lavoratori agricoli negli Stati Uniti sono nati all’estero, secondo i dati del Dipartimento dell’Agricoltura. Cosa succederà quando i campi rimarranno vuoti e i raccolti marciranno?

Famiglie spezzate e un prezzo morale incalcolabile

E poi c’è l’ombra delle famiglie spezzate. Durante il primo mandato di Trump, la separazione forzata di genitori e figli ai confini degli Stati Uniti ha sconvolto il mondo: 5.500 bambini, secondo l’ACLU, furono strappati ai loro genitori tra il 2017 e il 2018. Molti di loro non hanno ancora ritrovato le proprie famiglie. Ora, l’idea di replicare questa strategia su scala ancora più ampia evoca un’immagine agghiacciante di file di bambini soli, rinchiusi in strutture governative, mentre i genitori vengono espulsi.

Ma l’aspetto più inquietante non sono i numeri o i costi. È il silenzio complice che accompagna questo piano. Trump promette deportazioni e milioni applaudono. Non si interrogano sulle conseguenze morali, sull’immagine di un paese che si trasforma in un carcere per chi ha cercato rifugio. Un’America in cui l’ICE pattuglia le città, entra nelle case, preleva persone in piena notte.

Chi è il prossimo? La domanda è sempre la stessa, ma le risposte continuano a tacere. La retorica dell’espulsione si alimenta del timore, del sospetto, di quella paura insita nella società americana, dove il confine tra “noi” e “loro” è sempre più sfocato.

Trump non sta solo deportando persone migranti. Sta rimandando indietro il tempo, verso un’America dove il sogno era riservato ai pochi e dove la legge era un martello per i più deboli. Non è il piano di un leader; è la sceneggiatura di un impero che implode. E il costo vero, quello che nessuna stima economica può calcolare, sarà pagato da chi guarda tutto questo e non fa nulla per fermarlo.

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Disinformazione sui Social, ecco lo studio che prova la manipolazione di X. E che smentisce Elon Musk

Non c’è sorpresa, solo conferma. Uno studio dell’Università del Queensland ha dimostrato ciò che molti sospettavano: Elon Musk, proprietario di X (ex Twitter), ha manipolato l’algoritmo della piattaforma per favorire contenuti a sostegno di Donald Trump e dell’agenda repubblicana. La ricerca, condotta da Timothy Graham e Mark Andrejevic, ha analizzato 56mila post pubblicati tra gennaio e settembre 2024. I risultati sono inequivocabili: le pubblicazioni di Musk e delle figure repubblicane hanno ottenuto un incremento anomalo di visibilità e interazioni rispetto al passato.

I numeri che svelano la manipolazione del Social di Musk

Numeri parlano chiaro: i post di Musk, dopo il suo sostegno dichiarato a Trump, hanno registrato un aumento del 138% nelle visualizzazioni e del 238% nei retweet. Non si tratta di semplici coincidenze o di dinamiche organiche. Gli studiosi hanno rilevato un pattern sistematico: mentre le voci critiche verso il partito repubblicano o lo stesso Musk venivano rese meno visibili, i contenuti provenienti da figure come Trump o altri esponenti conservatori venivano amplificati, raggiungendo una platea significativamente maggiore.

Dal sospetto alla prova: le conseguenze etiche e politiche

La questione è politica, ma non solo. È anche tecnica e, soprattutto, etica. Musk, dal suo acquisto della piattaforma, ha spesso proclamato la volontà di “liberare” X da censure e manipolazioni, promuovendo la libertà di espressione. Eppure, quello che emerge è il contrario: una manipolazione intenzionale dell’algoritmo per piegarlo a fini propagandistici. Il proprietario di X non si è limitato a condividere le sue opinioni; ha usato il potere della tecnologia per alterare il flusso dell’informazione e orientare il dibattito pubblico.

La manipolazione degli algoritmi sui social media non è nuova, ma il caso di Musk rappresenta un ulteriore passo nella pericolosa convergenza tra tecnologia e politica. Quando una piattaforma con milioni di utenti attivi quotidianamente diventa il megafono di una sola parte, la democrazia subisce un duro colpo. Le piattaforme social non sono più semplici spazi di confronto; diventano strumenti di influenza, capaci di orientare opinioni e decisioni su scala globale.

Ci sono precedenti? Certo. Facebook, Cambridge Analytica, la Brexit, le elezioni americane del 2016. Ma con Musk si passa a un livello successivo: qui non si tratta di un’azienda terza che sfrutta i dati, ma del proprietario stesso che usa la piattaforma per i propri scopi. È un abuso di potere che pone interrogativi profondi sulla regolamentazione delle piattaforme digitali e sulla responsabilità dei loro leader.

La gestione di Musk ha già portato a un aumento di disinformazione e discorsi d’odio sulla piattaforma. Con l’eliminazione dei team di moderazione e la scelta di monetizzare i contenuti, X è diventata terreno fertile per teorie complottiste, fake news e polarizzazione politica. Ma la manipolazione dell’algoritmo aggiunge una nuova dimensione al problema: non è solo una questione di cosa viene pubblicato, ma di chi ha il privilegio di essere ascoltato.

La democrazia richiede trasparenza e pluralismo. Le piattaforme sociali, pur essendo aziende private, svolgono un ruolo pubblico cruciale. Quando i loro algoritmi vengono usati per manipolare il dibattito, il danno va oltre la singola elezione o l’immagine di un leader. Si tratta di una crisi sistemica: la fiducia nelle piattaforme, nei processi democratici e nell’informazione è compromessa.

Elon Musk con il suo social X si proclamava (e si proclama) difensore della libertà. Ora i numeri parlano chiaro: la libertà che il miliardario ritiene urgente preservare è principalmente una, la sua. E chissà che succederà quando non sarà più convergente con quella di Trump. 

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Marattin lancia Orizzonti Liberali e il tassista Redsox lascia subito a piedi il nuovo movimento centrista

Luigi Marattin ci riprova. Dopo una stagione segnata dai fallimenti di un “piccolo centro” dilaniato dai personalismi, il deputato ex renziano ha deciso di lanciare Orizzonti Liberali, un nuovo soggetto politico che si propone di salvare l’Italia dal “bipopulismo” di destra e sinistra. Lo slogan è ambizioso e piuttosto usurato, ma l’operazione di marketing rischia di non bastare per distinguersi in un panorama dove liberali e liberisti già abbondano. Tra Forza Italia e i cespugli di Italia Viva e Azione, il mercato del centro sembra saturo e continua ad avere più eletti che elettori. Eppure Marattin è convinto che serva un’ulteriore dose di “mercato e concorrenza” per risollevare il Paese. 

Il tassista smentisce Marattin

Il debutto ufficiale avverrà questo fine settimana, con una convention che si annuncia già affollata di nomi noti. Nel parterre spiccano figure già protagoniste – o comparse – della politica italiana: da Andrea Marcucci, ex capogruppo Pd ai tempi d’oro del renzismo, a Oscar Giannino, meteora politica del 2013 con “Fare per Fermare il Declino”, passando per Carlo Cottarelli, che si era già rivelato una “punta di diamante” spuntata nella campagna elettorale di Enrico Letta. Si aggiungono nomi come Roberto Burioni, Chicco Testa, Anna Paola Concia e Simone Lenzi.

Un altro “colpo” mediatico doveva essere “Roberto Redsox”, valente tassista bolognese diventato un simbolo della lotta contro le furberie della categoria. Per Marattin Redsox “è il simbolo di quanto abbiamo bisogno di mercato e concorrenza. E il partito dei liberal-democratici italiani non avrà paura – aveva scritto trionfante sui suoi social – di chiedere i voti sulla base della promessa di maggiore libertà, più mercato più concorrenza”. Un colpo narrativo studiato a tavolino, se non fosse per un piccolo problema: Redsox non ci sarà. Il tassista ha prontamente smentito la sua adesione, liquidando Marattin con un comunicato in cui prende le distanze dal nuovo progetto politico.

“Ai suoi collaboratori che gentilmente mi hanno invitato – scrive su X il tassista – ho risposto che io sabato 23 lavorerò e non interverrò da voi. Parlatevi però eh!  Come ho già spiegato a esponenti di vari partiti io non faccio parte di nessun partito, non ho tessere, non partecipo per nessuno perché la mia azione è TRASVERSALE”. Con una piccola nota finale: “gentilmente non ho dato a nessuno il permesso di utilizzare la mia foto”. A proposito di mercato e di regole. 

Annunciare la presenza di un ospite senza avere la sua conferma ufficiale è un errore che non si addice a chi si candida a rappresentare il “rigore” e la “meritocrazia”. Redsox, con il suo comunicato, ha inflitto un primo colpo a quella che avrebbe voluto essere una narrazione pulita e ben confezionata.

Vecchie glorie e slogan usurati: il difficile debutto di Orizzonti Liberali

Nel frattempo, l’associazione lanciata da Marattin raccoglie attorno a sé vecchie conoscenze del panorama centrista, alcune delle quali sembrano essere tornate in campo più per mancanza di alternative che per reale convinzione politica. Andrea Marcucci, ad esempio, ha vagato nell’orbita renziana fino a perdere la bussola, per poi approdare a questa nuova avventura con l’entusiasmo di chi non ha nulla da perdere. Oscar Giannino, dal canto suo, porta in dote il ricordo di un fallimento politico divenuto proverbiale, mentre Cottarelli sembra destinato a rimanere un eterno “tecnico prestato alla politica” senza mai riuscire a lasciare un segno tangibile, sia nella tecnica che nella politica. 

L’idea di Marattin – salvare l’Italia da un presunto dualismo populista – si scontra con una realtà più complessa. Da un lato, i partiti maggiori come Fratelli d’Italia e il Pd hanno già occupato la maggior parte del terreno politico, lasciando ai piccoli centristi uno spazio sempre più esiguo. Dall’altro, l’elettorato italiano appare disilluso verso progetti che promettono “nuovi inizi” ma si affidano ai soliti volti noti.

Ora resta da capire se il grande centro di Marattin riuscirà a fare breccia nell’elettorato o se finirà per affollare ulteriormente il già confuso panorama centrista. Ma il debutto, con questa partenza traballante, lascia parecchi dubbi. 

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