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Il Quotidiano di Puglia intervista Giulio Cavalli su “I mangiafemmine”

Un anziano che uccide la moglie? Niente di eclatante. E allora: se anche i femminicidi come i profughi annegati davanti alle coste del Sud, con migliaia di storie di vita e di sogni affogati, vengono percepiti come fatti “normali”, perché non immaginare un mondo in cui uccidere le donne diventa legale? Giulio Cavalli, scrittore, giornalista e drammaturgo, nel suo libro che presenta oggi a Taranto e martedì a Sannicandro, racconta questo mondo al contrario.

Cavalli, cos’è “I Mangiafemmine”?

«Rientra nella trilogia pensata con Fandango che si chiude dopo “Carnaio” e “Nuovissimo Testamento” e racconta un mondo immaginario. L’iperrealismo mi aiuta a dimostrare quanto sia pericolosa una comunità che sposta ogni giorno la propria etica qualche centimetro più in là. Nei tre romanzi c’è sempre una riflessione sull’orrore, ossessivamente ripetuto, che rischia di diventare normalità. I Mangiafemmine è un libro che racconta anche di femminicidi, perché credo che sappiano meglio parlarne le donne, non solo in quanto vittime, ma perché associazioni e collettivi femminili sono molto più preparati a farlo. Io volevo fare invece un libro sui maschi e sulla mancata reazione, anzi direi normalizzazione del femminicidio che segue quei pelosi meccanismi antropologici che normalizzano tragedie: i bambini affogati nel Mediterraneo, i suicidi in carcere, i migranti congelati nelle rotte balcaniche. Penso sia la stessa dinamica bestiale».

Ma l’idea di raccontare un mondo in cui il femminicidio è legalizzato, com’è nata?

«Durante una riunione di redazione si parlava di un femminicidio tra anziani: un 80enne aveva sparato alla moglie in Puglia. Mi venne detto che era un caso troppo “normale” e mi si è accesa una lampadina: se in un posto in cui si lavora con le parole si pensa una cosa del genere perché non immaginare un paese in cui si arriva alla legalizzazione del femminicidio? Volevo parlarne perché a mia generazione è l’ultima, spero, nutrita di atteggiamenti patriarcali, e poi con il mio lavoro tra editoria, spettacolo e giornalismo, frequento ambienti in cui sono molto diffuse le molestie…».

Il dibattito pubblico aggressivo e una politica a trazione “muscolare”, sono riconducibili alla diffusione dei femminicidi? C’è un machismo diffuso, non solo tra uomini.

«Sì, il maschilismo che era passato di moda è tornato in auge, perché la prepotenza è considerata forza, il comandare è sinonimo di governare, il femminile è considerato sinonimo di femminista. A capo del governo c’è una donna col piglio del maschio».

La legge non protegge le donne che denunciano, quindi da dove si deve cominciare?

«I grandi progressi e le evoluzioni passano sempre da far diventare fuori moda certi atteggiamenti, penso che letteratura e giornalismo, e tutti coloro che vengono ascoltati, hanno un’enorme responsabilità. Mi capita ora che nelle discussioni tra maschi si facciano notare frasi indelicate o irresponsabili. Ma il tema della parità di genere che viene prima della violenza ha dei costi enormi, in termini economici anche. Parità nel lavoro significa che parecchi maschi dovrebbero rinunciare a presiedere i consigli di amministrazione: l’ambiente maschile è terrorizzato».

La violenza spesso è rivolta anche ai poveri con disinvoltura e un disprezzo nuovo rispetto alla nostra storia.

«L’aporofobia di solito emerge in momenti storici in cui il dibattito pubblico e politico è scarso. Gli intellettuali sono pochi o poco popolari, il vocabolario delle persone si restringe e alla fine, quando non si sanno esprimere le cose, subentra la paura, ed essa genera disprezzo come attività di allontanamento. I fragili vengono odiati perché sono lo specchio di ciò che siamo noi. L’uomo che arriva senza niente sulla battigia misura la temperatura democratica di chi lo accoglie, racconta più degli altri che di se stesso. E la politica travestita da pro loco nasconde le cose sotto il tappeto».

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