“Non ci farete venire i sensi di colpa” (un distinto signore rivolto a un funzionario dell’ufficio immigrazione del ministero dell’interno).
Assisto, inquieto e tuttavia ammirato, al trionfo finale del Cattivismo. Ma cosa intendo con questo termine? Il Cattivismo nasce come rovesciamento materiale di un presunto sentimento trasformato in una retorica che si vorrebbe dominante: il Buonismo.
Dico materiale perché all’origine si tratta semplicemente di una sorta di declamazione della fermezza: mezzi forti e metodi spicci in contrapposizione a mezzi considerati “molli” e a metodi ritenuti inconcludenti, che sarebbero connotati qualificanti del Buonismo.
Dopodiché, quest’ultimo – criticato e stigmatizzato per ogni dove e assurto al rango di vizio capitale della sinistra – si è rivelato per quel che era: un’invenzione di comodo, utilizzata come ingiuria politica, per squalificare valori e programmi osteggiati dalla destra.
Di conseguenza, quell’invenzione di comodo ha rappresentato il bersaglio ideale in un ambiente sociale e in un clima ideologico segnato da ansie collettive e da paure sotterranee. Ansie e paure che pretendevano di essere sedate non con formule ispirate a una fragrante solidarietà e alle buone virtù sociali di una volta, bensì con strategie aggressive e maschie. Ed è andata proprio così.
Il Buonismo si è rivelato qualcosa di simile al vapore acqueo o, al massimo, un residuo evocativo di sparute minoranze religiose e/o comunistiche. Ma dietro al paravento di questa offensiva antisolidaristica e antivirtuosa, si è affermato un pesante apparato repressivo.
Se solo si osservano con un minimo di attenzione le normative in materia di immigrazione, di rom e sinti, di istituti penitenziari e ospedali psichiatrici giudiziari e più in generale quelle relative alle marginalità e alle povertà, si vedrà che l’insieme di provvedimenti di legge e di ordinanze municipali, di misure per l’ordine pubblico e di politiche per le minoranze risulta connotato da un orientamento sostanzialmente di controllo, di esclusione e di discriminazione. In altre altre parole, è il Cattivismo che domina non solo nel governo del disordine sociale, ma anche nel senso comune diffuso.
Il Buonismo, ridotto a quel che è sempre stato – una esile espressione retorica, propria di piccoli gruppi – è in rotta. Dunque, ecco il fiero affermarsi del crudelismo sociale e ideologico. Ed esso, come avviene in tutte le rivoluzioni vittoriose, aspira a prolungarsi e a riprodursi nella forma di una egemonia ideologica e fin morale.
Un racconto per anime belle
Dunque, il Cattivismo, diffusosi largamente, e diventato bandiera e promessa del nuovo potere, ambisce ad assumere i tratti di un vero e proprio sistema di valori. E a dotarsi di una sua base morale.
Ciò può accadere perché la nostra società ha conosciuto profonde trasformazioni. L’imporsi della cultura dell’individualismo come egotismo autosufficiente ha reso friabili le grandi idee, quali uguaglianza e giustizia, le ha espunte dal sistema dei diritti e delle garanzie, le ha ridotte a manifestazioni di sentimentalismo.
In questo scenario, sembra che quei concetti abbiano perso qualunque fondamento razionale e qualunque riferimento all’utilitarismo sociale, per assumere la forma, evanescente e impalpabile, di espressioni umorali e, nel migliore dei casi, di categorie dello spirito.
In un simile quadro, solo il Cattivismo è apparso come concreto, efficace e utile. E il Buonismo è risultato un racconto per anime belle. Poco importa che la verifica scientifica della remuneratività del Cattivismo riveli tutta la fallacia di quella strategia e proprio rispetto ai fini che dice di perseguire.
La vita sociale sembra involvere in una spirale avvitata su se stessa e in un progressivo accorciamento della misura dei rapporti di comunità
Un esempio solo: esiste in Europa un solo stratega militare o un polemologo o un ingegnere navale o, accontentiamoci, un marinaio che confermi l’utilità di “bombardare i barconi”, “attuare il blocco navale”, “affondare scafi e scafisti”? In altri termini, il crudelismo sociale e ideologico si rivela un’utopia regressiva e fosca (espellere i rom? Ma se, al 52 per cento, sono cittadini italiani!).
E, tuttavia, quel processo di torva regressione non si arresta. La vita sociale sembra involvere in una spirale avvitata su se stessa e in un progressivo accorciamento della misura dei rapporti di comunità: così che la “dimensione umana” si restringe vieppiù, fino a coincidere con quella del nucleo familiare.
Non è più solo la crisi dell’universalismo: è, piuttosto, la manifestazione ultima ed estrema di quella stessa crisi. E non è nemmeno più l’esaltazione della società liquida: in suo luogo, si delinea una società di “nicchie”, compartimentate e, nelle aspirazioni , autosufficienti e indipendenti.
Ne discende che non regge più alcuna solidarietà più lunga del perimetro della propria abitazione privata. Lo stesso localismo – metro politico di misura degli ultimi due decenni – risulta troppo “largo”: imporre una qualsivoglia integrazione comunitaria è un’impresa ardua da realizzare in un tempo di così acuta crisi sociale e di così esasperata frammentazione.
È in questo quadro che il senso di responsabilità – come reciproco farsi carico dell’altro – rovina. Io mi faccio carico di me stesso, dei miei cari e, al più, dei miei simili più simili. Il legame sociale, fondamento di ogni comunità organizzata, si riduce al vincolo familiare e, eventualmente, a quello di famiglia estesa e di parentela allargata.
La sequenza successiva è fatale: se non mi assumo responsabilità per quanti si trovano al di fuori di questa cerchia ristretta e saldamente presidiata, non proverò senso di colpa per la mancata assunzione di responsabilità. Tutto qui. La cancellazione del senso di colpa ha questa origine e segue questa dinamica.
Una interpretazione frettolosa, sulla scorta di letture superficiali potrebbe considerarlo un progresso, ovvero il segno di una acquisita maturità. Ma, se nella sfera della psiche individuale il superamento del complesso di colpa può rappresentare l’emancipazione da un pesante apparato di ansie e fobie di punizione, nella vita sociale e nelle comunità organizzate il sottrarsi al senso di colpa corrisponde irreparabilmente a una dichiarazione di irresponsabilità. Dunque, a una fuga senza fine.