Mi capita di parlarne spesso. La lettera del magistrato Marco Patarnello mi pare che centri perfettamente il punto:
«Caro direttore,
l’opinione pubblica sembra stanca di interventi in favore delle banche e ci chiediamo perché. La deflagrazione che il fallimento di una banca, magari dell’importanza di Mps, creerebbe nel tessuto economico costringe lo Stato ad un intervento. Ma quale? Faccio il magistrato al Tribunale di Roma e ho dedicato gli ultimi tre anni della mia vita professionale alle misure di prevenzione patrimoniali: sequestro e confisca di patrimoni mafiosi o costruiti illecitamente, un’attività svolta mettendo sotto la lente di ingrandimento gli ultimi venti o trent’anni di vita imprenditoriale, economica, lecita e illecita di malavitosi, corrotti e criminali. Patrimoni di decine o centinaia di milioni di euro accumulati illecitamente.
In ognuno di questi processi abbiamo sempre trovato un grosso mutuo, un finanziamento o un prestito concesso da istituti bancari. Prestiti spesso concessi in evidente malafede, senza le garanzie minime, in situazioni in cui nessun cittadino “normale” avrebbe avuto accesso al credito. Con la conseguenza che spesso il Tribunale esclude tali crediti delle banche dal novero di quelli che devono essere soddisfatti con il denaro confiscato ai malavitosi. Una mole di attività bancaria svolta chiaramente facendo affari spregiudicati, prestando denaro a chi non dava nessuna garanzia, se non quella di entrate illecite. Negando, invece, i prestiti a chi non aveva garanzie fantasmagoriche, come ha potuto constatare chiunque, da persona comune, abbia chiesto un finanziamento o un mutuo in questi anni. E, si badi, questo non da parte delle sole banche di serie B o di provincia.
Non sono in condizione di fare un’analisi statistica o completa, ma poche banche mi sono parse estranee a questo modo spregiudicato e rischioso di fare impresa. Ora che la situazione economica è più difficile si scopre che i crediti di molte banche sono in sofferenza, non sono garantiti e si prende in considerazione di risolvere il grave pericolo insito nel fallimento di queste imprese mettendo denaro pubblico. Quando si guadagna ci si ricorda di essere un’impresa, quando si perde si socializzano le perdite. Non può funzionare così. Il fallimento di una banca è senza dubbio un rischio grosso per l’economia di un territorio o anche dell’intero paese, se la banca è grande. È ragionevole impedire che ciò accada. Ma non a qualsiasi costo e non regalando, sostanzialmente, il denaro ad un’impresa, anche se si trattasse di denaro dell’Europa o parzialmente dello stesso sistema bancario. Perché il patto sociale regga, investire denaro pubblico non può essere un regalo. Se una banca non ce la fa con le sue forze si nazionalizza, si risana e si rivende. Questo ha un senso per la collettività. E non è una bestemmia anticapitalista e antimoderna più di quanto non lo sia regalare denaro pubblico ad un imprenditore, che per di più ha dimostrato di farne cattivo uso.»
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*In magistratura dal 1989, è stato vicesegretario del Csm. Ora si occupa al Tribunale di Roma di misure di prevenzione antimafia, sequestro e confisca di patrimoni illeciti.