Il caos su Roma, anche se spiacerà agli squali del PD, non tanto il fallimento di Virginia Raggi (che deve ancora iniziare a amministrare, persa e incartata tra brutti giochi di poteri ostili e correnti amiche) ma è soprattutto il doloroso ritorno sulla terra di Luigi Di Maio. Il democristiano grillino, bravissimo a indossare il grigio pur con movenze populiste, ha giocato in tutti questi mesi a fare il geneticamente diverso rispetto ai suoi compagni di partito. Di Maio il moderato, Di Maio il dialogante, Di Maio con le stigmate dello statista: il secchione grillino che avrebbe dovuto insegnarci la rettitudine cade sulla mancata comprensione di una mail che l’avrebbe avvisato dell’indagine in corso sull’assessore Muraro.
Ma lui, andreottiano nell’emulazione, ha finto la solita calma olimpica quando gli hanno chiesto di dare la sua opinione. «Non rispondo sui se» ha dichiarato alla festa de Il Fatto Quotidiano con quel suo solito piglio saccente da destrorso capacissimo di fare il moderato. Ed è proprio questa risposta che, speriamo, lo taglia fuori dal gioco grande dei papabili candidati alla presidenza del Consiglio: troppo bravo a fingere di non sapere, troppo svelto nel far sapere di non sapere e troppo pronto a raccontare balle.
L’essere fortemente politico nel partito dell’antipolitica è un rischio che andrebbe calcolato con cura e Di Maio, invece, ha dimostrato un mestiere che non può certo piacere alla sua base. «Ho sbagliato in buonafede» ha dichiarato Di Maio ieri sera sul palco con Grillo. Noi gli crediamo, per carità.
(il mio buongiorno per Left continua qui)