C’è sempre qualcuno più a sud. C’è sempre qualcuno capace di fare la voce più grossa e c’è sempre qualcuno che può comprare (più e meglio) una prepotenza efficace. Il Ticino che esprime diffidenza e fastidio per i frontalieri italiani è un nodo della storia che si ripete circolarmente, quasi ogni giorni in ogni angolo del mondo. A volte, come in questo caso, è solo una diatriba politica che mette di fronte una forza politica come la Lega Nord (del presidente della Regione Lombardia, Roberto Maroni) alla stessa miope xenofobia nazionalista che opera con gli altri ma se è vero che fa sorridere vedere Salvini costretto a difendersi da una salvinata il ricorso è ampio e terribilmente serio.
Viviamo in un tempo in cui la solidarietà è considerata una debolezza che mette a rischio la nostra sicurezza; normale che accada dopo un lungo periodo di benessere diffuso che ha concesso a molti di poter serenamente essere individualisti senza troppe remore. Quando un Paese riesce a garantire buoni margini di stabilità economica ai suoi cittadini la politica si riduce all’idea di semplice amministrazione delle risorse, produzione di servizi e regolatrice di infrastrutture. In Italia negli ultimi vent’anni (esclusi ovviamente i tempi recenti) la propaganda politica si fondava su una narrazione ottimistica del futuro dove sicuramente si sarebbe cresciuti di più, si sarebbe stati ancora meglio. I bisogni erano semplicemente il dazio da pagare da parte di chi non aveva problemi verso la periferia sociale che faticava a stare al passo. Un dazio, non un dovere: la solidarietà esercitata nell’Italia che funzionava era semplicemente un balzello, l’ennesima tassa, niente a che vedere con il dovere sancito dalla Costituzione.
Così è bastato che i tempi fossero più magri per premiare chi ci aizzava contro le fragilità dei deboli che frenano il nostro stare bene: fannulloni, criminali, fancazzisti, terroni, ladroni, negri, albanesi. Il nome non conta, il trucco è riuscire a dividere nell’immaginario dell’elettori un “noi” dagli “altri”. E il modello era semplice: “noi” siamo quelli che senza “gli altri” staremmo meglio perché “noi” ci bastiamo, “noi”. E così il nemico di turno è semplicemente il carburante per tenere su di giri un individualismo travestito da federalismo. Se è federalismo, questo, allora è soprattutto un federalismo delle responsabilità: siamo cresciuti in un momento storico in cui ci dicono che l’importante è occuparsi di noi stessi, stare bene nella nostra città anzi basta che sia tranquillo il nostro quartiere, il nostro condominio, che non ci siano problemi sul nostro pianerottolo. La responsabilità si riduce al cerchio magico di ognuno; quelli fuori possono aspettare. Anzi, quelli fuori devono aspettare. E se ci assale la paura devono quelli fuori devono semplicemente restare fuori.
Certo, funziona un modello sociale così altamente deresponsabilizzante: vuoi mettere la comodità di fottersene di tutto ciò che non ti è vicino? Niente di meglio per l’agiatissimo ozio dei diritti. C’è guerra in Siria? Beh, poveri siriani, se la saranno cercata, mandiamogli gli alpini. C’è un’alluvione in Campania? Per forza, sono ladri. C’è un arresto in Regione Lombardia? Meglio, sono tutti uguali. C’è un’emergenza umanitaria in qualche sperduto in qualche angolo del mondo? Beh, non possiamo mica occuparci di tutti. Con il “non possiamo occuparci di tutti” abbiamo gettato le fondamenta dei muri. Muri per delimitare, il più stretto possibile, lo spazio di cui vogliamo occuparci.
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