Sul rifiuto di Nino Di Matteo alla proposta avanzata dal CSM di essere trasferito alla Procura Nazionale Antimafia per garantire una maggiore sicurezza pendono due questioni: una umana (ne ho scritto stamattina qui nel mio editoriale per Left) e una strettamente politica.
La scelta di Di Matteo è un segnale alla politica. L’ennesimo di un magistrato che da troppi anni si ritrova nel limbo in cui in Italia si è soliti mettere coloro che non accettano di piegarsi alla cortesia istituzionale che pretenderebbero in molti.
«Non sono disponibile al trasferimento d’ufficio – ha detto il magistrato -. Accettare un trasferimento con una procedura straordinaria connessa solo a ragioni di sicurezza costituirebbe a mio avviso un segnale di resa personale ed istituzionale che non intendo dare».
Un trasferimento d’ufficio come extrema ratio per garantire sicurezza a un magistrato è una sconfitta di Stato. Su questo, una volta per tutte, forse vale la pena essere chiari: è l’identico discorso che si applica ai testimoni di giustizia che pretendono, a buon ragione, di rimanere nella propria città pretendendo che sia la mafia a dover scappare e scomparire. Per questo sono inutili, patetiche e strumentali le polemiche di chi in queste ore sta sottolineando che lo stesso Di Matteo aveva già chiesto di essere trasferito alla DNA: un riconoscimento del proprio spessore professionale è cosa ben diversa da una fuga di Stato.
Anzi, rinunciare a una posizione gradita per amore della forma, non so voi, io lo trovo rassicurante da parte di qualcuno che si occupa del rispetto della legge. No? Del resto non era difficile prevedere le insidie del caso: il nostro comunicato del 12 ottobre è la prova dei nostri timori fin da tempi non sospetti.
Ne ho scritto sui quaderni di Possibile qui.