Stamattina ho pensato che con questa figura di merda colossale degli analisti, degli editorialisti, dei sondaggisti e dei millemilioni di esperti di elezioni americane almeno ci saremmo risparmiati per qualche ora il profluvio di analisi. E mi sbagliavo. E in fondo ho anche ringraziato la mia buona stella di avere colleghi nelle redazioni in cui lavoro che si sono dovuti prendere la patata bollente della sfida americana lasciando a me la sola incombenza di scrivere su questo mio personalissimo blog che Trump non mi piace. E anch’io, del resto, sono in minoranza e me ne farò una ragione.
Ma alcuni pensieri sparsi oggi li vorrei appoggiare qui perché ancora una volta ho la sensazione che ci sia da parte di una certa classe giornalistica (e di intellettuali, anche se solo a scriverlo mi si anchilosano le dita) una supponenza che nemmeno il tonfo Trump abbia messo in discussione: la gente la pensa diversamente dalla gran parte dei cosiddetti influencer. In sostanza chi è pagato per scrivere opinioni sul mondo ne è piuttosto scollegato. E questa è un prima notizia. Non buonissima.
Poi c’è la democrazia ad personam: una nuova formula politica per cui l’ideale sarebbe vivere in un Paese in cui abbia diritto di voto solo chi la pensa come noi altrimenti il “suffragio universale” è uno schifo (oggi l’hanno detto diversi autorevoli esponenti). Gli analisti fallimentari al posto di chiedere scusa per avere sbagliato l’analisi sui candidati spostano le proprie energie sull’analisi degli elettori. Peccato che mettere in dubbio la dignità di voto sia la peggior riforma costituzionale che si possa provare a iniettare nel dibattito pubblico. Molto peggio della pessima riforma a cui ci stiamo opponendo in questi giorni: contestiamo l’autoritarismo degli altri e poi ci lanciamo in pareri che sono l’esplosione del nostro ego. Anche questa non mi pare una buona notizia, sinceramente.
Francesco Piccinini, direttore di Fanpage, nel suo articolo lo scrive chiaro e tondo:
«Trump è stato eletto perché ha parlato – anche – a quella “massa silenziosa” che non risponde ai sondaggi, a quelle “legioni di imbecilli” che Eco non riusciva a comprendere. Quel popolo di Jersey Shore al quale l’intellighenzia democratica non ama più parlare. Perché le “legioni di imbecilli” non sono i commentatori da tastiera ma i giornalisti, gli scrittori, i politici che restano chiusi nelle proprie stanze. Legioni di imbecilli che credono di essere migliori dei propri lettori, dei propri elettori. Così tanto “migliori” da non riuscire a trovare le parole per parlargli. Le legioni di imbecilli non si nascondono dietro Facebook ma siedono ogni giorno dentro le redazioni dei giornali, nelle sedi di partito, nei salotti che fanno tanto ‘900 ma che nulla hanno a che vedere con la modernità. Quelli che sanno solo ripetere “l’America di 8 anni fa non avrebbe mai votato Trump”. Come se la modernità dovesse chiedere permesso. Come se la modernità non fosse davvero qualcosa che “non si ferma davvero davanti a un portone”.»
Poi c’è questo partito democratico USA che assomiglia terribilmente agli smunti democratici de’ noantri: «Non deve spaccare il partito» dicevano a Sanders. La voce che circolava tra i maggiorenti democratici era che la candidatura di Sanders fosse contro il “bene del partito” oltre che contro la Clinton. Vi ricorda qualcosa? Bene, forse sarebbe il caso appuntarsi che dello stato di salute dei partiti non se ne preoccupano in molti. Un candidato non ha il compito di preservare l’apparato politico che lo sostiene: i risultati politici in giro per il mondo premiano chi alza la voce contro le disfunzioni e i loro responsabili. Il Partito Democratico non è riuscito a proporre un candidato migliore di un Segretario di Stato da tempo sulla scena politica. Ha funzionato? A voi il giudizio. Su questo ne ho scritto stamattina, proprio per Fanpage, qui.
A proposito di sinistra: ma davvero c’è ancora qualcuno che crede che travestire da sinistra un liberismo turbospinto da lobby finanziarie funzioni? Ma davvero non è chiaro che la gente si sia frantumata le palle, un po’ dappertutto in giro per il mondo, dell’establishment in tutte le sue forme? Come scrive Pippo Civati qui:
«A un certo punto bisogna decidere cosa costa di più, se rinunciare ai grandi finanziatori o rischiare di perdere le elezioni perché si passa per essere al loro servizio. Penso, da anni, che il problema della disuguaglianza e dell’arroccamento del sistema sia il pericolo più grande. E, se siamo tutti d’accordo sull’analisi e sul quel malessere, il messaggio non può essere che non c’è alternativa: si può fare di meglio. Temo invece che, come spesso accade, negli stessi di cui sopra scatterà l’irresistibile tentazione non della ricerca di un’alternativa, cosa molto difficile, ma all’imitazione, che è decisamente più semplice. Così al prossimo giro vincerà un candidato che farà apparire Trump moderato, e così via all’infinito.»
Poi ci sono tutte le ricadute: quelli che strumentalizzano la vittoria di Trump per il prossimo referendum sulla riforma costituzionale (da entrambe le parti), quelli che “oddio adesso gli USA bombarderanno il mondo” (come se finora avessero esportato pace per davvero) e quelli del mal comune mezzo gaudio che siccome ci prendevano in giro per Berlusconi ora li perculiamo noi per Trump.
Ah, e poi c’è la Clinton che è sparita senza riconoscere pubblicamente la sconfitta. Proprio quello che gli analisti ci hanno detto che avrebbe fatto Trump.