(da il manifesto, 29 novembre 2016)
Siamo alle ultime cartucce della lunghissima campagna elettorale referendaria. Considerati i suoi scarsi argomenti di merito, lo schieramento del Sì fa affidamento su un terrorismo psicologico sulla paura del dopo, in particolare per le sorti economiche del paese. La strategia renziana, ispirata dai suoi consulenti americani – per la verità fin qui assai poco efficaci – punta a fare leva sulle tasche di quei cittadini che non le hanno del tutto vuote. Il suo target è quella che Renzi ha definito la «maggioranza silenziosa».
Del resto che il referendum si vinca a destra è sempre stata una sua convinzione. E non solo sua, visto la generosa mano d’aiuto che riceve da vari endorsement – last but non the least, quello dell’Ocse – e da molteplici e ben mirate campagne giornalistiche internazionali.
Il Financial Times è tornato a gamba tesa sull’argomento, profetizzando il fallimento di ben otto banche in caso di sconfitta del Sì. The Daily Telegraph insiste sul ridicolo argomento di un pericolo dell’uscita dell’Italia dall’euro. Sulla stessa linea si posiziona The Sunday Times Business. Figaro Economie racconta dell’inquietudine dei mercati finanziari, comparando la Brexit alla possibile vittoria del No. Nei pastoni economici nostrani si aggiunge anche il temuto fallimento dell’imminente vertice di Vienna sui tagli alla produzione petrolifera. Non c’entra ma fa gioco.
In realtà nulla di tutto ciò ha un qualche fondamento reale.
Certamente i mercati finanziari non resteranno immobili come statue di sale a fronte degli esiti del voto italiano. Ma non è certo quest’ultimo a determinare grandi sommovimenti. Lo aveva già detto la stessa Standard&Poor’s, lo ribadiscono gli analisti di Goldman Sachs affermando che, come sanno tutti gli operatori del settore, il «rischio» referendum è già stato introiettato, cioè «prezzato», per evitare scossoni nei prossimi giorni. È altrove che bisogna guardare per comprendere cosa accade veramente nei mercati finanziari.
La vittoria di Donald Trump, ad esempio, ha scatenato uno dei più grandi trasferimenti tra attività finanziarie della storia, con lo spostamento di circa 500 miliardi didollari in 48 ore dalle obbligazioni verso il comparto azionario mandando i paradiso Wall Street.
E buona parte di quei capitali sono stati disinvestiti dall’Europa – a cominciare dai paesi meno promettenti come il nostro – per raggiungere le sponde d’oltreatlantico.
L’ala protettrice del prolungamento del quantitative easing di Draghi avrà il suo da fare.
Lo stesso Wolfgang Munchau riaggiusta il tiro rispetto a qualche giorno fa e invita i governanti europei (lo sguardo è rivolto ai prossimi appuntamenti elettorali in Austria, in Francia, in Olanda e in Germania) a risolvere i problemi di un sistema finanziario fuori controllo, anziché «insultare gli elettori».
Il Financial Times fa il nome delle otto banche italiane a rischio, e ovviamente si tratta di quelle già notoriamente in grave difficoltà. Rispetto alle quali tanto gli organismi di vigilanza, quanto il governo hanno più che pesanti responsabilità. Sintomatica la vicenda del Monte dei Paschi di Siena, ove emerge l’avventurismo spregiudicato di Renzi. Il suo mancato salvataggio potrebbe, questo sì, provocare contagi nell’intero sistema europeo. Ma per paura di reazioni da parte dei risparmiatori sul modello di quelle viste in occasione dell’intervento su Banca Etruria e le altre tre sorelle di sventura, il Presidente del Consiglio ha preferito la soluzione privata. Consigliato – rivelano fonti bene informate – da Vittorio Grilli, ex ministro di Monti e ora dirigente europeo di JP Morgan, sulla base di assicurazioni ricevute in prima persona da Jamie Dimon, Ceo del colosso bancario Usa, nonché possibile segretario al Tesoro con Trump. Da lì è nata la macchinosa operazione in tandem fra JP Morgan e Mediobanca.
Eppure Soros glielo aveva detto: per vincere il referendum devi prima risolvere il problema bancario, ma Renzi ha capito il contrario. E ora sono dolori. Ma la colpa non è del No.