di Gabriele Ottaviani (fonte)
E via. Quel pomeriggio partecipai a un convegno sull’evoluzione della figura del clown nell’impegno civile. Tairo non si reggeva in piedi e non venne nemmeno portato alla scrivania dei relatori. Io dissi dell’importanza di credere in se stessi e della forza della risata contro il potere precostituito e i prepotenti. Mi scappò anche un cenno sull’incompatibilità tra il personaggio e la persona. Cerchiamo sempre di arrivare alle persone ma poi ci lecchiamo subito il personaggio che abbiamo fatto di noi stessi, così dissi. Grandi complimenti per l’umiltà, scrissero i giornali. Il rettore dell’università di cui eravamo ospiti mi offrì di tenere un corso di sociologia e poi, preso dall’entusiasmo, mi offrì anche una laurea ad honorem. No grazie, gli risposi, senza sorriso, al massimo mi servirebbe un diploma in pianoforte, se vi avanza, da regalare a mio padre per il suo compleanno. Mi guardarono perplessi. Che matto che è Gatti. Che matto. Per forza, è un clown. Mentre autografo i libri un ragazzo in coda mi chiese che lavoro facessi. “Ora, in questo momento, lei, che lavoro fa?”, mi chiese. Non era una domanda astiosa, era proprio una curiosità. I tendini mi si fecero legno, mi sanguinava cuore dai denti. Fu qualcosa di simile a uno svenimento. “Tranquillo, signor Gatti, è una crisi di panico. Tranquillo. È normale, visto lo stress e poi la notizia della morte di Corleone, la paura. Normale crisi di panico. Senta, Gatti, mi firma anche questa copia per mia nipote? Non ci crede che lei è un mio paziente.”
Santamamma, Giulio Cavalli, Fandango. Giulio Cavalli nasce a Milano il ventisei di giugno del millenovecentosettantasette. Per brevità chiamato artista è l’enneasillabo, a voler considerare la sinalefe, che ne sottotitola il nome e ne definisce in maniera a dir poco perfetta la poliedrica personalità sin dalla homepage del suo interessantissimo sito, www.giuliocavalli.net, aggiornato con grande frequenza e attraverso il quale, persino per il tramite di una newsletter – un diario di bordo, per usare le sue parole – molto curata ed efficace, è possibile avere immediatamente una panoramica completa, ritrovarsi immersi e coinvolti nel suo mondo dai mille colori, dalle infinite sfaccettature. Un mondo nel quale rivestono un ruolo fondamentale la coscienza e la consapevolezza, nonché il concetto stesso di testimonianza, di esempio come veicolo di formazione, di educazione, di condivisione con la comunità di appartenenza, simbolo coerente di continuità fra parole e azioni. La sensibilità. La sensibilizzazione. Che è cosa simile ma non identica. L’impegno civile. La convinzione che la politica – non esistono atti umani che non siano politici, ogni azione ricade anche sugli altri – sia un alto ideale e uno strumento prezioso per il bene comune (l’uomo non è fatto per la solitudine), per la giustizia sociale, per l’equità, per la costruzione di un mondo migliore, cosicché, quando sarà il momento, possa essere riconsegnato ai suoi veri proprietari, i nostri posteri che ce l’hanno generosamente affidato in prestito in attesa del loro momento, in condizioni almeno adeguate. La certezza che attraverso l’arte e la bellezza, salvifica per antonomasia, sia possibile far sbocciare il bene, che toglie ossigeno al male. Tutte le molteplici attività di Cavalli sono connotate in maniera decisiva dalle conseguenze determinate da questa Weltanschauung propugnata con vibrante e ammirevole passione, che ha a sua volta effetti sostanziali sull’esistenza dell’attore, scrittore, regista e politico. Scrive per Left, Fanpage, L’Espresso: ha collaborato anche con Il fatto quotidiano. Sedici anni fa, giovanissimo, Cavalli, che nel giugno del duemilanove debutta addirittura al Teatro Augusteo di Napoli con L’Apocalisse rimandata Ovvero benvenuta catastrofe di Dario Fo e Franca Rame, coprodotto dal Napoli Teatro Festival Italia e con il sostegno di Next, fonda la compagnia Bottega dei Mestieri Teatrali: nel corso del tempo con i suoi spettacoli parla al suo pubblico, via via sempre più numeroso e coinvolto, della Resistenza, del G8 di Genova del duemilauno, durante il quale, in conseguenza dei violenti scontri che ebbero luogo nel capoluogo ligure, perse la vita Carlo Giuliani, dell’incidente aereo che nello stesso anno del summit dei potenti succitato, a Linate, costò la vita a centodiciotto persone, di turismo sessuale infantile. Soprattutto, di criminalità organizzata, del processo al senatore Giulio Andreotti per i suoi rapporti con la mafia ma non solo: prima ancora è Do ut Des, spettacolo teatrale su riti e conviti mafiosi, prodotto insieme dai comuni di Lodi e Gela, con la collaborazione della casa memoria “Felicia e Peppino Impastato” e del Centro Siciliano di Documentazione “Giuseppe Impastato”, che vede Cavalli collaborare con Rosario Crocetta e Antonio Ingroia, a renderlo bersaglio delle cosche, in particolare di quelle che sono infiltrate da tempo nel settentrione d’Italia dove lui vive e lavora, che lo minacciano e lo costringono da anni a essere sotto scorta. Candidato come consigliere regionale indipendente nelle liste dell’Italia dei Valori – che poi lascia per SEL – per la Lombardia, viene eletto con migliaia di preferenze. Santamamma non è semplicemente un racconto in cui la dimensione narrativa si fa veicolo di istanze civili, sociali, culturali, politiche, è una narrazione solida, compiuta, compatta, intensa, emotivamente trascinante e a tratti finanche destabilizzante per la spregiudicatezza della sincerità con cui le parole non solo si manifestano con la concretezza di fatti che balzano subito dinnanzi agli occhi di chi osserva e legge, e non può nemmeno volendo ignorarli, ma instaurano immediatamente una comunione con l’altro, con chi fruisce dell’opera. E se ogni opera porta certamente in sé tracce inequivocabili del suo artefice, perché ogni prodotto umano, proprio perché umano, anche qualora sia edificato con il massimo distacco in realtà non può non testimoniare la firma del suo creatore, che ne ordina demiurgicamente a suo modo e in ossequio al suo gusto e al suo credo la materia costituente, Santamamma si spinge oltre, trascendendo la vacua tassonomia del genere, e alimentendo con nuove acque il letto dell’autobiografismo, mai in questo caso specifico retorico, egoriferito o agiografico, fornendo al lettore un compendio di temi e suggestioni che non possono lasciare indifferenti. Eppure tutto prende le mosse da qualcosa di apparentemente innocuo e insignificante, un foglio lercio che custodisce una verità, quella sulle origini di Carlo Gatti, il protagonista, che nasce con un buco e che cresce amatissimo a Tarrazza, nel Lodigiano. Carlo è un bambino adottato, lo sa, non ha foto da neonato, lo dice subito a chi legge, e chi legge si sente d’improvviso come di fronte a un bivio, senza avere la possibilità di scegliere tra le opzioni perché non conosce in merito a nessuna alcuna indicazione che possa indirizzarlo. Lo spaesamento di fronte al candore di Carlo è lo stesso che hanno la maestra e la bidella, imbrigliate nelle loro frasi di circostanza e nei loro sorrisi ricolmi di buona fede e vacuità, nello splendido e potentissimo incipit, perfettamente coerente con l’intero ritmo, preconizzato sin dalle prime battute, di un tessuto narrativo che somiglia a un’onda che si fa secondo dopo secondo più forte, più piena d’acqua prima di esplodere contro la scogliera. Carlo nel frattempo diviene pianista: ha talento, ma poi molla tutto e si fa clown, prima di assurgere, suo malgrado, quasi, mutatis mutandis, come un novello Zeno che inconsapevole fa la cosa giusta, alla notorietà e al grado d’eroe. Ma non basta ancora: è una nuova agnizione a rivelargli una volta di più quale sia la fondamentale importanza della condivisione, l’unica materia viva capace di colmare quel buco con cui è venuto al mondo, l’unica strada per tornare davvero a casa. Straordinario.