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Pd, Elly Schlein e il rinnovamento disinnescato

La speranza di rinnovamento è un’aspettativa sempre difficile da “mettere a terra”, come si usa orrendamente dire in questi tempi di Pnrr e di incapacità di dare forma a progetti la cui realizzazione è diventata una fastidiosa fase due. Il capitale di speranza ha soffiato forte su Elly Schlein, catapultata alla segreteria del Partito Democratico perché ci si augura intercetti voti (non sono i voti le certificazioni più tangibili delle speranze?) che non sarebbero mai passati da quelle parti se non avessero trovato lei come interlocutrice. Utilizzare la leva del rinnovamento all’interno del Partito democratico funziona. Ha funzionato, eccome, quando Matteo Renzi divenne segretario chiamandolo spigolosamente “rottamazione”. A Renzi, piaccia o meno, non si può non riconoscere di avere cambiato i connotati dirigenziali dei dem (che poi li abbia sostituiti con dirigenti ancora più reazionari nonostante la nomea di riformisti è tutt’altro discorso). Sulla modifica della “facciata” del suo partito Schlein ha un precedente non da poco.

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Elly Schlein e Stefano Bonaccini (Twitter)

Il Pd può bastarsi? Per Schlein la risposta è no

Qui si inserisce “l’unità del partito”, esigenza reale che viene sventolata come scure dagli avversari interni. Che il Pd contenga molte anime e abbia bisogno di un continuo processo di sintesi è un suo ingrediente fondativo. C’è differenza però tra anime politiche – sensibilità diverse che possono coabitare per elaborare una lettura complessa del presente – e bande perennemente impegnate nel logoramento dell’area avversaria. Nel primo caso saremmo di fronte al partito a vocazione maggioritaria pensato dai fondatori, nel secondo invece ci ritroviamo – come ora – di fronte a un partito ben lontano dal non avere bisogno di un’alleanza più ampia possibile. Il primo nodo di Schlein è questo: il Pd può bastarsi? Secondo la segretaria (e i suoi) la risposta è no. Il Pd viene sempre immaginato come “perno” di un’area che prima di ogni elezione assume etichette diverse (l’ultima di Enrico Letta era “il campo largo”) ma che sostanzialmente è sempre la stessa cosa: una coalizione che punta a raccogliere i partiti a sinistra e quelli al centro. Lo scopo era allargarsi il più possibile, anche mettendone a rischio la tenuta e l’affidabilità. Vale la pena quindi sculettare da partito con aspirazione maggioritaria o conviene una volta per tutte prendere coscienza che il Pd non può pensare di vincere le elezioni senza una coalizione? Perché, pensateci, questo cambierebbe tutto.

L’unità del partito passa in secondo piano rispetto all’identità

Nel secondo caso “l’unità del partito” è un aspetto secondario rispetto all’identità e alle chiare prese di posizione che occorrono per avere una precisa collocazione (e per rispettare i voti presi alle primarie dalla segretaria). Chi ha votato Schlein non ha nessun interesse per le rimostranze dei Fioroni di turno (nonostante l’umano dispiacere per le loro eventuali dipartite) semplicemente perché il progetto è altro. Se i riformisti vogliono trasformare il Pd nel cosiddetto Terzo polo non hanno altro da fare che impacchettare le valigie e traslocare. Prima delle prossime elezioni si siederanno con i loro ex compagni di partito per valutare se i punti di intesa siano tali da poter correre insieme. La tragedia sventolata continuamente non esiste: si chiama politica, si fa politica.

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Elly Schlein (Getty)

Se la segretaria si siede al tavolo coi capibastone sa di legittimare la nomenclatura correntista

Arriviamo dunque a queste prime settimane del “nuovo Pd” di Elly Schlein. Le correnti che avrebbero dovuto cessare di esistere si sono moltiplicate. Non basta essere “contro le correnti” se gran parte delle energie e delle parole sono state spese per soddisfare maggioranze, minoranze delle maggioranze, maggioranze delle minoranze, minoranze delle minoranze e correnti dell’ultima ora. Era un passo necessario, certo. Nessuno poteva credere che la segretaria provocasse un bailamme talmente fragoroso da spezzare le antiche connessioni. Schlein sa però che sedersi al tavolo con i capibastone significa legittimare la nomenclatura correntista. È un capitale di speranza consumato. L’ha fatto consapevolmente e l’ha dovuto fare, certo, ma è l’ennesimo tributo alla partitocrazia che molti suoi elettori vivono come un fardello di cui liberarsi il prima possibile. Il fardello, appunto. L’opposizione interna (che si oppone a sua volta anche al proprio interno, un’opposizione al quadrato) sa bene che sfidare Elly Schlein oggi è impossibile. Per logorarla le basterebbe continuare a irrorare il fardello. Come accaduto per la composizione della segreteria: mostrare Schlein immersa in trattative che avrebbe dovuto estirpare è il modo migliore per renderla uguale tra gli uguali. E quindi disinnescarla.

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