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La storia del piccolo Enea e l’ennesima violenza sul corpo delle donne

Avete notato? È stata l’Eneide più breve nella storia del mondo. Del piccolo Enea, neonato affidato ma raccontato come abbandonato, non rimane più niente sule pagine dei giornali, nel cuore degli addolorati, nei cassetti dei perbenisti. Enea del resto è stato solo l’ultima roncola tra tante da sferrare contro le donne che non sanno tenersi i mariti, i figli e il loro dovuto dolore. Domani mattina si troverà altro, una cosa qualsiasi, un bambino o un marito o un errore da cattiva madre, per fare politica e moralismo sui corpi delle donne.

A guadagnarci sono stati solo il padre di Enea ed Ezio Greggio 

È andata meglio al padre di Enea – perché Enea, si può presumere senza troppa investigazione avrà anche un padre – che ha potuto godere del millenario indulto riservato ai maschi. È andata bene anche a Ezio Greggio che si è conquistato qualche spazio su giornali e televisioni. Sì, è vero, ha dovuto chiedere scusa ma con la fatica che occorre per meritarsi uno spicchio di visibilità in questi tempi forsennati di esibizionismi una scusa val bene una messa. È passata sotto traccia, tra l’altro, la risposta più ferrata al suo patetico mettersi a disposizione per la «vera madre» di Enea. L’ha scritta Paolo Cosseddu su Ossigeno: «A tutti loro, dal profondo del cuore, ci sentiamo di dire che se vogliono davvero aiutare chi sta male, chi è in difficoltà, invece di creare associazioni e raccogliere soldi ognuno per conto proprio, dovrebbero fare una cosa semplicissima, e che sarebbe utile davvero, per tutti: pagare le tasse».

Ezio Greggio ha lanciato un appello per il piccolo Enea abbandonato dai genitori ma ora il suo annuncio diventa un caso.
Ezio Greggio (Facebook)

Così è stato calpestato il diritto di partorire in modalità anonima

Spiace che Enea quando sarà abbastanza grande per cercarsi su Google non potrà togliersi lo sfizio di denunciare chi ha contravvenuto la legge 2000 (DPR 396/2000 art. 3, comma 2) che sancisce il diritto di partorire in modalità anonima, per garantire la sicurezza della mamma e del bambino. Per quella legge il nome della madre rimane segreto e nell’atto di nascita viene scritto “nato da donna che non consente di essere nominata”. Il bambino rimane in ospedale e gli vengono garantite tutte le cure e l’assistenza giuridica. La dichiarazione di nascita in questo caso può essere effettuata dall’ostetrica che ha assistito al parto o dal medico. Da qui nasce l’installazione delle cosiddette “culle per la vita” (si parla in Italia di circa 400 bambini affidati). La culla è un ambiente protetto, in un punto senza telecamere (ma evidentemente con molta bava degli opinionisti) per poter garantire l’anonimato alla madre e l’accoglienza in totale sicurezza del bambino. Premendo un pulsante si apre una serranda che consente l’accesso a un’incubatrice riscaldata dove si può lasciare il neonato; dopo pochi secondi la serranda si abbassa e attraverso un segnale acustico viene avvisato il reparto della presenza del neonato. Trascorsi 10 giorni, termine ultimo per il riconoscimento, il Tribunale per i minorenni inizia a gestire la pratica inserendo il neonato nelle liste per l’adozione.

La storia del piccolo Enea e l'ennesima violenza sul corpo delle donne
Neonati in incubatrice (Getty Images).

Ancora una volta una violenza contro una donna può essere sminuita con un “l’abbiamo fatto per lei”

Qualsiasi informazione sulla madre, sulle motivazioni del suo affidare il figlio, sul bambino noi non avremmo mai dovuto averla. Mai. Chi ha dato notizie sulla lettera lasciata dalla madre, sul colore della tutina e sullo stato di salute del bambino, sul suo peso, avrebbe dovuto professionalmente solo prendersene cura. L’effetto provocato dalla pubblicità di informazioni riservate è sempre lo stesso: acuire il gesto della madre, infondere un senso di colpa generalizzato che probabilmente renderà ancora più difficile l’accesso alle “culle della vita”, tirare una spallata di sponda al diritto all’aborto, concimare la materfilia di un Paese che giudica le donne in base alla produttività del loro utero, scalfire per l’ennesima volta il loro diritto all’autodeterminazione. Una storia vecchia che si ripete con una frequenza violentissima in un Paese in cui i figli diventano talenti delle loro madri, come una riga da aggiungere al curriculum. Così ancora una volta una violenza contro una donna può essere sminuita con un “l’abbiamo fatto per lei”. Chissà che ne penserà Enea.

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