Fermi tutti. La “privata cittadina” Arianna Meloni, sorella della presidente del Consiglio Giorgia nonché moglie del ministro all’Agricoltura Francesco Lollobrigida, ora si dichiara “militante da quando aveva 17 anni” e rivendica il proprio ruolo di responsabile della segreteria politica di Fratelli d’Italia (di cui è segretaria la sorella) e del tesseramento.
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Si sgretolano in una battito di ciglia le ripetute doglianze della cittadina che lamentava incursioni nella sua vita privata solo “perché sorella di Giorgia Meloni”. Si era sbagliata: essere sorella di Giorgia Meloni ora è il primo punto sul suo curriculum e si dice pronta a candidarsi per le prossime elezioni europee perché è “un soldato” a disposizione del partito. Ovvero della sorella.
Il familismo nella politica italiana non è una novità. Il marchio di fabbrica del “cognome che funziona” è una tentazione in cui sono caduti in molti e l’acquolina nella bocca di Pier Silvio Berlusconi sta a lì a dimostrarlo. Ma una leader di partito che guida anche un governo e che decide di scegliere una sorella per vigilare all’interno della sua compagine politica ha un solo precedente: Kim Jong-un, leader supremo della Corea del Nord. Non proprio un’ispirazione di cui andare fieri.
Nemmeno Silvio Berlusconi, il più grande interprete della politica e del partito come proprietà privata, si era spinto a tanto. Le sorelle d’Italia, cognati annessi, sono un unicum internazionale che svela almeno un particolare: Meloni è ossessionata dal controllo e si fida solo del sangue del suo sangue. Anche questo non è un precedente fortunato.
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