Scorrendo Twitter – che ora si chiama X – ci si può imbattere nel post di un giornalista. Non è un giornalista di primo pelo, tutt’altro: è stato un cronista parlamentare e in giro qualcuno lo indica come «uno di massimi esperti» del centrosinistra. Il giornalista, come un adolescente incazzato che twitta durante la lezione, riprende un tweet di una consigliera Rai che pubblica la foto della manifestazione a Roma per la pace e chiede il cessate il fuoco tra Israele e Hamas. «Abbiamo una consigliera della Rai su queste posizioni. È pure vicina al Partito democratico!», scrive indignato il nostro censore. E di corsa arriva un altro consumato editorialista di primo piano che rilancia: «Ma poi chi è? Che meriti ha? Perché dobbiamo pagare il canone Rai?». La scena è uno spaccato del Paese che diventiamo ogni volta che le guerre degli altri diventano un martello per sistemare piccole, stupide e inutili questioni domestiche.
Tanto a morire sono gli altri, qui al massimo si rischia una querela
La guerra è il viagra dei social. Non c’è niente di meglio di un conflitto (sempre rigorosamente sulla pelle degli altri) per trasformare i social network in un Colosseo dove ci si sfida a suon di mistificazioni, arguzie per niente argute e vendette trasversali. Se mille morti israeliani (o palestinesi o ucraini o armeni o russi o yemeniti) tornano utili per giustiziare il collega inviso o l’avversario politico, nessuno ci pensa due volte. Senza scrupoli si banchetta sull’amplificazione delle divergenze. Tanto a morire sono quegli altri e qui, male che vada, al massimo si rischia una querela.
Giornalismo che fa da cassa di risonanza dell’irresponsabilità
Un pezzo di giornalismo italiano baldanzoso decide di essere cassa di risonanza dell’irresponsabilità. E così si vede di tutto. In prima pagine di un quotidiano che fu progressista si accusa il segretario dell’Onu di avere pronunciato parole messe tra virgolette che non sono mai state pronunciate. Sarebbe un errore da bocciatura all’esame da giornalista e invece qui diventa addirittura un tema di dibattito. Attenzione, si dibatte del falso come se fosse vero, mica della condanna del falso. Nel tempo in cui serve responsabilità per controllare un’epoca già smisurata c’è il quotidiano che regala la bandiera, come un chiosco nei pressi dello stadio. Si lapida Patrick Zaki in prima pagina perché esprime le stesse riflessione di molti editorialisti israeliani ma a questi non interessa nulla di Zaki, nemmeno di Israele o della Palestina: è tutto un adolescenziale gioco di sponda per arrivare al proprio personalissimo fine.
Ogni minuzia ridicola diventa una difesa «dei valori dell’Occidente»
Giornalisti che apparivano autorevoli nei loro editoriali e nelle loro compassate apparizioni televisive, con la guerra e con i social si trasformano in petulanti bulli di quartiere. Ogni minuzia, anche la più ridicola cazzata, diventa una difesa «dei valori dell’Occidente» dove l’Occidente è la compagnia di giro del bar sotto la redazione. La guerra svilita al ruolo di trappola nel proprio cortile, sperando che la preda ci capiti sopra. Gente che scrive libri con cui vorrebbe insegnarci la vita e il mondo molesta colleghi sui social chiedendo «perché non vedo condanne a Hamas?», oppure «perché non hai scritto le stesse cose per quella malefatta di Israele?».
Salottini che sovrappongono le faccende di corte alle vicende internazionali
Potete metterci Vladimir Putin o Volodymyr Zelensky, il metodo è sempre lo stesso. Il giornalismo italiano è un arcipelago di salotti che sovrappone le faccende di corte alle vicende internazionali. I morti sono solo l’occhiello delle loro baruffe chiozzotte. E così mentre il mondo si infiamma il giornalismo da mezzo di comprensione diventa un acceleratore dell’odio: hater che scrivono libri sull’odio online e populisti che analizzano il populismo degli altri. Le conseguenza purtroppo invece sono serissime. Il crollo della credibilità dei giornali è una cosmesi linguistica, per non dire del crollo della credibilità dei giornalisti. Il lettore medio pensa: «Perché dovrei leggere le opinioni di qualcuno che scoreggia sui social esattamente come me e che so esattamente che parte prenderà immaginando gli interessi della sua cerchia?».
Alla fine per cercare informazioni ci si rivolge agli influencer
Chiedere la pace significa essere amici di Hamas (come di Putin). Giornalisti presi sul serio che accusano l’Anpi di fascismo, Amnesty di razzismo e intere redazioni di antisemitismo. I giornalisti che sono sul campo, sotto le bombe, che scompaiono nel dibattito generale. E alla fine inevitabilmente è più rincuorante affidarsi agli influencer per cercare informazioni, in un cortocircuito – quello sì – populista che impoverisce tutto il resto. La senatrice a vita Liliana Segre qualche giorno fa si chiedeva (e ci chiedeva) come ci potesse essere «tanto odio» in Medio Oriente. Forse era una domanda retorica.
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