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Stipendi da fame. Una lezione per l’Italia

Nell’indifferenza generale i sindacati statunitensi hanno ottenuto per i lavoratori della Ford un aumento di retribuzione di almeno il 30% dopo 50 giorni di sciopero sostenuto con fondi di solidarietà messo a disposizione dal sindacato dei lavoratori dell’auto statunitensi (Uaw). Poco dopo anche il gruppo Stellantis ha ceduto con un aumento di almeno il 25% delle buste paga mentre ieri è stata General Motors a ritoccare gli stipendi.

Negli ultimi dieci anni le tre principali aziende automobilistiche degli Usa hanno intascato 250 miliardi di dollari di profitti

Negli ultimi dieci anni le tre principali aziende automobilistiche degli Usa hanno intascato 250 miliardi di dollari di profitti. Gli stipendi dei manager erano aumentati del 40% mentre quelli degli operai erano rimasti bloccati. La disuguaglianza di trattamento ha spinto il sindacato a promuovere un’azione coordinata che ha coinvolto 150mila lavoratori, iniziando a colpire le fasi più delicate della produzione per poi allargarsi in veri e proprio picchetti. Da quelle parti è accaduto che la politica non si è limitata a rilasciare interviste in cui si accusavano i lavoratori di voler boicottare i poveri imprenditori appoggiata da qualche sfrenato editorialista liberale.

Joe Biden si è presentato personalmente a un picchetto per sostenere le ragioni della protesta e anche il suo prossimo sfidante, l’ex presidente Donald Trump, ha fatto lo stesso. Immaginare uno scenario del genere in Italia oggi sarebbe quasi impossibile. Sarebbe sicuramente impossibile che tutte le parti politiche sostengano una stessa causa rinunciando al mero calcolo dei posizionamenti. Sarebbe impossibile non ascoltare i “manager” frignare gridando all’esproprio proletario. Ma soprattutto sarebbe impossibile far notare che l’uguaglianza non si predica, si pratica. Soprattutto i sindacati.

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