Oggi in Consiglio dei ministri arriva il premierato che vuole la presidente del Consiglio Giorgia Meloni insieme ai suoi alleati. Lo chiamano “premieratino” perché non è un presidenzialismo e non è un semi presidenzialismo. Così la riforma nasce con il nomignolo diminutivo che ne certifica la portata e le aspirazioni.
L’aspirazione – una, solo una – è semplicemente l’auto preservazione, come sempre. Si vorrebbe vincolare il voto degli elettori sulla scheda elettorale ancora meno al programma della coalizione, ancora meno a una reale alleanza politica e sempre di più al marketing di un nome: il “nome forte”, il sogno di tutti i politici che vivono la sensazione della cresta dell’onda. Il testo vuole inserire in Costituzione anche la formula per l’elezione di candidati e liste di partiti, assicurando un premio di maggioranza del 55 per cento dei seggi alla coalizione vincente.
Il “nome forte” non corre più il rischio di vedersi revocato qualche ministro del suo governo dal presidente della Repubblica, il “nome forte” si garantisce di fatto cinque anni di governo e il “nome forte” pensa con questa riforma di non correre più il rischio di essere travolto da un rimpasto di governo, ancor di più da un governo tecnico.
Il mito della “governabilità” ottenuta da grimaldelli costituzionali e non dal radicamento dei partiti, dall’autorevolezza degli eletti e dal faticoso lavoro di mediazione che richiede governare è un ulteriore colpo al Parlamento (nella sua funzione di “cuore” di un governo) e degli elettori che sarebbero chiamati a esprimere un governo indifferente alla volatilità del consenso.
La potrebbe chiamare la riforma del “posto fisso”, per il premier, nell’epoca precarietà per tutti gli altri.
Buon venerdì.
Nella foto: la presidente del Consiglio Meloni al Senato, 25 ottobre 2023 (governo.it)