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Di una panchina rossa e di una notizia data male

Sfogliando le pagine romane del Corriere della Sera vi può capitare di imbattervi nel titolo “Alla Sapienza inaugurata e subito distrutta da collettivo femminista la panchina rossa contro la violenza sulle donne”. In un Paese in cui la gente non compra i giornali e legge solo i titoli di quelli che incrocia sul tavolino del bar sarà facile pensare che per l’ennesima volta qualche nemico delle donne o qualche negazionista fanfarone dei femminicidi abbia pensato di distruggere un simbolo per rimuovere un tema. 

Non è proprio così. Quella panchina è stata smontata (e non “distrutta”) dal collettivo Zaum Sapienza (Zone Autonome Università e Metropoli) con una motivazione chiarissima: “Non vogliamo panchine rosse ma azioni concrete, che vadano a colpire la causa e non a piangere la conseguenza” – spiegano in un post su Instagram Collettivo medicina Sapienza e Non una di meno Roma – Le panchine rosse sono erette come mausolei a ricordo di “vittime cadute a causa di eventi straordinari e inevitabili”. Sono il simbolo di staticità, rassegnazione, impotenza e dolore morboso. Non solo chi agisce violenza non viene minimamente scalfito da questo tipo di simboli, ma questi possono diventare una violenza reiterata per le persone che la hanno vissuta. La panchina rossa è un diversivo con cui Ateneo e istituzioni “assolvono” il loro impegno nell’anti-violenza, cavandosela con un lavoro a basso costo e senza impegno”. 

La notizia avrebbe dovuto essere che le istituzioni si sono sottratte al confronto e che quelle che la rettrice ha definito “un manipolo di pochi facinorosi” (chissà perché al maschile) che sono state spintonate dalla Digos erano lì a chiedere cosa ci fosse oltre alla panchina. 

Buon martedì. 

La panchina rossa de La Sapienza prima che fosse smontata, frame video

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