Per sapere come è andata e come andrà bisogna partire dalla fine. L’intervento in Senato di ieri del presidente della Commissione dell’Unione Africana, Moussa Faki rompe l’incantesimo di una giornata che sembrava perfetta nelle apparenze, con le delegazioni di oltre 41 paesi africane a Palazzo Madama per il vertice “Italia-Africa: un ponte per una crescita comune” che Giorgia Meloni ha tirato in piedi per il suo “Piano Mattei”.
Senza il supporto di tutti i Paesi europei il Piano Mattei è senza speranze. E gli africani non hanno l’anello al naso
“L’Africa è pronta a discutere i contorni e le modalità dell’attuazione del Piano Mattei, sul quale avremmo auspicato essere consultati”, ha detto Faki, invitando a “passare dalle parole ai fatti”. “Capirete bene – ha sottolineato Faki – che non ci possiamo più accontentare di semplici promesse che spesso non sono mantenute”. In quel momento affiora il non detto. Il “Piano Mattei” di Giorgia Meloni di primo acchito potrebbe essere un capolavoro politico. Promettere di aiutare l’Africa la leva dal fastidioso cassetto degli xenofobi e della destra sinistra europea, aggiungendole quel lustro istituzionale che la presidente del Consiglio insegue fin dal primo giorno del suo mandato.
La nuova Giorgia agli occhi del mondo vuole segnare le distanze dal securitario alleato di governo Salvini che vorrebbe risolvere tutto chiudendo porti che non si possono chiudere. Sono lontani i tempi in cui Meloni desiderava ad alta voce l’affondamento delle navi delle Ong. Il “piano Mattei” è la promessa di “aiutarli a casa loro” che ritorna in voga dopo i tempi di Matteo Renzi segretario del Pd. “5,5 miliardi di euro” ha annunciato ieri la capa del governo italiano di fronte alla platea internazionale, convinta che i capi africani si sarebbero sciolti di fronte al frusciare di soldi. La promessa di soldi che per ora non ci sono.
Il dem Boccia fa notare che a bilancio ci sono 2,8 milioni di euro, basteranno per i viaggi e per il catering del personale di missione. Siamo ancora qui. Ma la “crescita economica” di cui parla il governo ha l’aria di essere lo stesso colonialismo di sempre, con un fondotinta umanitario. Le parole di ieri del ministro all’Economia Giancarlo Giorgietti (“i Paesi africani hanno un enorme potenziale e hanno bisogno di accedere alle catene del valore regionali e globali”) sono la bella copia della visione del presidente dell’Eni Claudio Descalzi, Caronte della presidente del Consiglio nei suoi ultimi viaggi nel continente africano.
“Noi non abbiamo energia, loro hanno energia. Abbiamo una grande industria, devono svilupparla… C’è una forte complementarità”, ha detto lo scorso 5 gennaio Descalzi intervistato dal Financial Times. Peccato che la visione sia diametralmente opposta a quella del presidente della Commissione dell’Unione Africana che ieri ha perorato un “cambiamento di paradigma per un nuovo modello di partenariato che possa aprire la strada verso un mondo più giusto, se vogliamo costruire pace e prosperità attraverso l’amicizia, e non attraverso barriere securitarie che sono barriere di ostilità”. Per Moussa Fati “questa è l’unica via per una partnership reciprocamente rispettata e vantaggiosa e il nostro auspicio – spiega – è che l’Italia sia sempre più coinvolta insieme a noi in questa ottica”.
Detta banalmente: quale accordo potrebbero trovare un continente che chiede uguaglianza economica e sociale con coloro che vorrebbero lucrare sulla disparità? Convincere Stellantis o Volkswagen a spostare le proprie fabbriche in Marocco o in Algeria è partenariato? Oppure, puntare a scalzare gli altri stati europei nello sfruttamento delle terre e dell’energia è rinnovata amicizia o semplice scalata della concorrenza L’Africa portata a Palazzo Madama da Moussa Faki non ha bisogno del suono dei soldi e non ha voglia di brindare alla cerimonia delle promesse. L’Africa è un continente addolorato dove il cambiamento climatico brucia le terre e sposta le persone.
L’intervento in Senato del presidente dell’Unione Africana Faki ha rotto l’incantesimo di una giornata che sembrava perfetta
L’Ue dalla faccia gentile con l’Italia in prima linea e la presidente della Commissione Ursula von Der Leyen nella parte della vestale per racimolare voti in vista del secondo giro sono gli stessi che hanno trasformato la Libia in un lager a cielo aperto in mano ai trafficanti travestiti da soldati e sono gli stessi che hanno firmato un accordo con la Tunisia che si è spento ancor prima che terminassero le celebrazioni. La giornata di ieri sta tutta nell’inversione di visione e di visuale nel discorso di Faki.
Meloni aveva aperto le danze spiegando ai capi di governo africani quale fosse la sua visione dell’Africa, con la postura paternalistica dell’Occidente che vuole decidere per altri. I suoi ministri si sono prestati nella parte dei cerimonieri. Ma l’Africa ha ancora la presunzione di voler decidere per sé e, appunto, considerare “i contorni e le modalità”, come dice Faki. Il punto è che di contorni e di modalità ieri non se ne sono visti semplicemente perché non ce ne sono. Così il quasi capolavoro di Meloni è un guscio vuoto, un altro, che durerà il tempo che ingialliscono le pagine dei quotidiani di questi giorni.
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