Qui intorno una volta era tutto un filosofare sulla precarietà poi improvvisamente abbiamo smesso. Solo che i precari sono aumentati, eccome, e il processo di normalizzazione sembra essere perfettamente riuscito.
Dice l’Istat che sono 3 milioni gli occupati a termine in Italia e sono impiegati in tutti i settori, nel privato come nel pubblico, al Nord come al Sud e al Centro. Secondo le rilevazioni Inps per il settore privato, la retribuzione media annua di una persone con contratto a tempo determinato è di 10.400 euro, il numero di giornate retribuite 155, pari a circa 6 mesi. Sono soprattutto giovani under 35 (il 48,9 per cento), più uomini che donne (52,4 contro 47,6), tra i settori spiccano noleggio, agenzie di viaggio, supporto alle imprese (21 per cento) e alloggio e ristorazione (15 per cento).
Nel settore pubblico i numeri sono spaventosi. 500 mila dipendenti a termine, di cui più di 100 mila nella pubblica amministrazione, dalla sanità alle funzioni locali, 205 mila docenti nella scuola, altri 200 mila lavoratori del settore della conoscenza (scuola, ricerca, università alta formazione). I numeri sono la faccia del disinvestimento nel settore pubblico a discapito dei servizi che andrebbero offerti.
In cambio ci offrono un’ampia letteratura secondo cui essere precari significherebbe essere smart, imprenditori di sé stessi, perennemente in sfida. La precarietà è bella – vorrebbero convincerci – perché ci permette di rimanere vigili. Così accade che la sanità pubblica preconizzata non riesca a offrire servizi stabili a lavoratori precari che non hanno comunque soldi per affidarsi alle cure private. Bello, no?
Buon venerdì.