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Dall’arresto al CPR: l’odissea dei palestinesi ingiustamente accusati di terrorismo

A marzo di quest’anno aveva fatto molto rumore l’arresto di tre palestinesi residenti in Italia. Secondo il gip distrettuale de L’Aquila Anan Kamal Afif Yaeesh, Ali Saji Ribhi Irar e Mansour Doghmosh stavano progettando un’azione terroristica da compiersi nell’insediamento israeliano di Avnei Hefetz, in Cisgiordania mediante l’utilizzo di un’autobomba. L’ordinanza di custodia cautelare in carcere era stata emessa dal gip, su richiesta della Procura – Direzione distrettuale Antimafia e Antiterrorismo del capoluogo abruzzese in coordinamento con la Procura nazionale Antiterrorismo.

“Soddisfazione per la cattura all’Aquila di tre pericolosi terroristi, operazione che conferma il continuo impegno e la grande capacità investigativa delle nostre Forze dell’ordine”, diceva l’11 marzo il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, definendoli “membri di una cellula militare legata alle Brigate dei Martiri di Al-Aqsa, che pianificavano attentati, pure suicidari, verso obiettivi civili e militari anche di Stati esteri”.

A luglio la Cassazione aveva deciso di annullare la richiesta del mandato di cattura, pur rimandando l’ultima decisione per la loro scarcerazione allo stesso Tribunale del Riesame che si è pronunciato due giorni fa annullando il provvedimento cautelare e ordinando l’immediata liberazione per due di loro Ali Irar e Mansour Doghmosh. Non erano terroristi.

Da ‘pericolosi terroristi’ a liberi cittadini: il ribaltamento giudiziario

“Tutto quello che possono dire sui miei assistiti – ha spiegato l’avvocato Flavio Rossi Albertini – è che ‘forse’ hanno qualche ruolo nella resistenza in Cisgiordania ma questo non è reato in Italia. Diventa reato solo se è configurato come terrorismo, così come definito dalla convenzione di New York del 1999. O riescono a dimostrare che hanno travalicato quei limiti posti dal diritto internazionale, oppure, in assenza di altre prove, non possono trattenerli”.

Con Mansour Doghmosh ed Ali Irar, sempre con l’accusa di terrorismo, in marzo a L’Aquila, anche un terzo cittadino palestinese, Anan Yaeesh – già in carcere da fine gennaio – era stato raggiunto da un ulteriore analogo provvedimento di custodia cautelare. La Corte d’Appello dell’Aquila aveva però respinto la richiesta di estradizione avanzata per lui dalle autorità israeliane. Richiesta poi ritirata da Israele a fine aprile con una nota inviata al ministero della Giustizia. Yaeesh è l’unico per il quale, fin da questa estate con l’udienza in Corte di Cassazione, era stata confermata la misura della detenzione.

Per il comitato ‘Palestina L’Aquila’ i due appena scarcerati erano “stati accusati ingiustamente a causa di una vera e propria montatura politica. Il loro arresto è avvenuto a distanza di un paio di settimane da quello di Yaeesh con il quale hanno legami di amicizia, conoscenza. Quest’ultimo è stato arrestato su procura di Israele per il suo attivismo pro-Palestina mentre, in quanto rifugiato politico, godeva della protezione internazionale”.

Il limbo dei ‘non terroristi’: tra scarcerazione e rischio rimpatrio

Dopo l’udienza di scarcerazione Mansour Doghmosh però è stato trasferito immediatamente in un Centro di permanenza per i rimpatri (CPR) e quindi la domanda è fin troppo facile: dove vorrebbero rimpatriare Doghmosh? In Palestina dove da 11 mesi si sta consumando una guerra che conta 40 mila vittime? Oppure da detenuto politico in un carcere israeliano dove per la stessa Corte d’Appello de L’Aquila si consumano “torture e trattamenti inumani e degradanti”?

Il Comitato per la liberazione di Anan Yaeesh chiede alle forze politiche di intervenire. Il ministro (e il governo) per ora tace. La moglie e i tre figli di Mansour Doghmosh attendono di conoscere il loro futuro.

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