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Tagli al lavoro in carcere, altro che rieducazione

Da quando è diventato ministro della giustizia Carlo Nordio ha ripetuto che il lavoro in carcere è fondamentale per il reinserimento sociale delle persone detenute e per abbassare il tasso di recidiva. Essendo ministro ci si aspetterebbe quindi che nel corso del suo mandato abbia agito alla stregua delle sue parole. Dovrebbe accadere così: chi governa illustra le sue priorità e poi agisce di conseguenza. Dovrebbe essere semplice, lineare. E invece no. In una nota del Provveditorato Regionale del Piemonte, Liguria e Valle D’Aosta si legge infatti come il fabbisogno rilevato per mantenere i tassi di occupazione fosse di 2 milioni di euro, mentre dal Ministero della Giustizia è stato erogato meno del 50% di questo fabbisogno. Per questo, il Prap, ha invitato le direzioni degli istituti a tagliare il numero di persone lavoranti o comunque di ridurre le ore di lavoro che le stesse svolgono.

Questi tagli potranno colpire peraltro categorie specifiche di lavoratori: quelli che prestano assistenza ad altri detenuti disabili o non pienamente autosufficienti, o quelli a supporto dell’area pedagogica (bibliotecari e scrivani). A lavorare in carcere è solo circa il 30% delle persone detenute e la maggior parte di esse lavora alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria, peraltro in molti casi già per pochi giorni o poche ore alla settimana. Il guadagno che si ottiene serve a garantire un ritorno in libertà dove si abbiano a disposizione un minimo di risorse per far fronte alle spese, comprese quelle del mantenimento che ogni persona detenuta deve versare allo Stato a fine pena. Quelli dell’associazione Antigone si chiedono come il ministro possa smentirsi facendo tutto da solo. È una buona domanda.

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