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Greenwashing a processo, riflettori puntati sull’Australia: colosso petrolifero alla sbarra

La storia del primo processo al greenwashing del mondo inizia in un’aula di tribunale australiana, dove le parole “zero netto” rimbalzano tra le pareti di marmo e le coscienze dei presenti. È iniziato così, in una mattina d’ottobre che sa di storia, il processo che vede protagonista il colosso petrolifero Santos, chiamato a rispondere delle sue promesse verdi davanti alla giustizia federale.

Il caso Santos: l’accusa di greenwashing

Non è un processo qualunque: è il primo vagito di una nuova era in cui le parole potrebbero finalmente avere un peso specifico misurabile, dove le promesse ambientali non possono più essere lanciate come coriandoli. L’Australasian Centre for Corporate Responsibility (ACCR), azionista della stessa Santos, ha deciso di chiamare in giudizio il gigante dei combustibili fossili per quelle che definisce “speculazioni incastonate insieme nel giro di poche settimane”, spacciandole per un piano climatico credibile.

Il cuore della questione sono le promesse di Santos: ridurre le emissioni del 26-30% entro il 2030 e raggiungere lo zero netto entro il 2040. Promesse che, secondo l’ACCR, sono poco più che un castello di carte costruito sul terreno instabile delle buone intenzioni. Ma in un’epoca in cui il termometro del pianeta non perdona le buone intenzioni non bastano più.

L’avvocato Noel Hutley SC, voce dell’Accr nell’aula di tribunale, ha dipinto un quadro impietoso della strategia di Santos: non un piano concreto, ma una collezione di “speculazioni” assemblate frettolosamente. Santos, secondo l’accusa, avrebbe fatto promesse grandiose senza avere gli strumenti per mantenerle.

La questione si fa ancora più intricata quando si parla di idrogeno blu, presentato da Santos come “pulito” e a “zero emissioni”. Una definizione che, secondo l’accusa, nasconde una verità scomoda: i documenti interni dell’azienda mostravano che la produzione del presunto salvatore verde avrebbe in realtà aumentato le emissioni dirette. Un dettaglio non proprio marginale, omesso nelle comunicazioni pubbliche e nella tanto sbandierata tabella di marcia verso lo zero netto.

La difesa di Santos, affidata a Neil Young KC, suona come una variazione sul tema del “ci avete frainteso”: gli investitori, sostiene, avrebbero dovuto capire che non tutto ciò che era incluso nella tabella di marcia era un progetto consolidato. Come dire: le promesse erano più aspirazioni che impegni concreti, più poesia che prosa aziendale.

Ma in un mondo che brucia, dove ogni decimo di grado conta e ogni tonnellata di CO2 pesa sul futuro del pianeta, le sfumature semantiche rischiano di diventare lussi che non possiamo permetterci. Il processo potrebbe segnare un punto di svolta: il momento in cui il greenwashing da pratica diffusa diventa responsabilità legale, in cui le promesse verdi devono essere sostenute da piani concreti e non da vaghe speranze.

Un nuovo standard di responsabilità

Se l’ACCR dovesse vincere questa battaglia legale le onde d’urto si propagherebbero ben oltre le coste australiane. Potrebbe essere l’inizio di una nuova era di responsabilità ambientale in cui le aziende dovranno pensare due volte prima di dipingersi di verde senza avere i colori giusti nella tavolozza.

Il processo, che si concluderà il 15 novembre, non è solo questione di semantica legale o di interpretazione di documenti aziendali. È un processo al futuro stesso: alla nostra capacità di distinguere tra azioni concrete e promesse vuote, tra impegno reale e marketing ambientale. È un processo che ci ricorda che, nell’era della crisi climatica, le parole devono pesare quanto le azioni che promettono di descrivere.

Quanto tempo ancora potremo permetterci il lusso di promesse verdi che si sciolgono come neve al sole della realtà? La risposta, forse, la troveremo nelle pagine di questa sentenza storica, che potrebbe diventare il primo mattone di un nuovo edificio di giustizia climatica.

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