Eccoci qui, come ogni anno. Gli studenti protestano, nei licei cominciano le occupazioni e sui giornali i commentatori imbiancati rilanciano gli stereotipi. L’eterna lotta tra generazioni segue sempre lo stesso copione: “Manifestano per non studiare”, “fannulloni”, quei giovani che non rispettano le autorità.
Un Paese che non investe nel futuro
Come ogni anno i dati parlano d’altro, dell’altro per cui protestano docenti e studenti ma che sempre sfugge ai commentatori. Il rapporto Openpolis di quest’anno dice che in Italia, la spesa pubblica per l’istruzione si attesta al 4% del Pil, contro una media europea del 4,7%. Questa percentuale ci colloca tra i Paesi che investono meno nel settore educativo, un dato che, pur stabile nell’ultimo decennio, non mostra segni di miglioramento. Se comparato con la Danimarca, che destina il 6,4% del Pil all’istruzione, viene più facile capire le proporzioni.
Questo sottodimensionamento della spesa non è privo di conseguenze. I dati Istat evidenziano come il livello di istruzione incida direttamente sulla condizione economica delle famiglie. Nel 2022, il tasso di povertà assoluta per le famiglie in cui la persona di riferimento ha conseguito al massimo la licenza media era del 12,3%, mentre scendeva al 4,6% per quelle con almeno un diploma di scuola superiore. È un’indicazione chiara: l’istruzione non è solo uno strumento di emancipazione individuale ma una leva economica e sociale che determina la qualità della vita di intere generazioni.
Il costo dell’abbandono degli studenti: divari e povertà educativa
Sul fronte delle competenze, i dati del programma Ocse-Pisa sono eloquenti. Gli studenti quindicenni italiani continuano a ottenere risultati inferiori rispetto alla media Ocse in lettura, matematica e scienze. Nel dettaglio, mentre Paesi come la Finlandia, che investe il 5,5% del Pil nell’istruzione, ottengono punteggi mediamente superiori del 20%, l’Italia si trova costretta a inseguire. Le regioni del Mezzogiorno sono particolarmente colpite: gli studenti del Sud e delle Isole registrano risultati che, in alcuni casi, equivalgono a un anno scolastico in meno rispetto ai coetanei del Nord.
Il divario educativo riflette e amplifica le disuguaglianze territoriali. Openpolis sottolinea come il contesto infrastrutturale sia un fattore determinante. Ad esempio, la percentuale di edifici scolastici che necessitano di manutenzione straordinaria è molto più alta nelle regioni del Sud, dove spesso mancano anche spazi adeguati per attività extrascolastiche. È una realtà che penalizza chi già parte da condizioni svantaggiate, consolidando un ciclo di esclusione.
L’abbandono scolastico rappresenta un ulteriore campanello d’allarme. Nel 2022, il 12,7% dei giovani italiani tra i 18 e i 24 anni ha lasciato la scuola senza completare il ciclo secondario superiore, rispetto a una media europea del 9,6%. Questo dato, pur in calo rispetto al passato, rimane tra i più alti dell’Unione europea. È una perdita che si ripercuote non solo sulla vita dei singoli ma sull’intero sistema economico e sociale. Secondo il Centro Studi Confindustria ogni punto percentuale di abbandono scolastico si traduce in una riduzione dello 0,2% del Pil a lungo termine.
Non meno preoccupante è la spesa per studente, un indicatore che riflette la qualità e l’accessibilità dei servizi educativi. In Italia, la spesa annuale per alunno nella scuola primaria è di circa 6.000 euro, contro i 10.000 euro della Germania e i 14.000 della Danimarca. Questi numeri non sono semplici statistiche: rappresentano il divario nelle risorse che ogni bambino può sfruttare per costruire il proprio futuro.
Il confronto europeo mette in evidenza un punto chiave: i Paesi che investono maggiormente in istruzione registrano benefici a lungo termine in termini di crescita economica e coesione sociale. Openpolis ricorda che l’educazione è uno degli strumenti più efficaci per spezzare il ciclo della povertà intergenerazionale. Eppure, in Italia, le scelte di bilancio sembrano andare in direzione opposta.
Colmare i divari per ridurre le diseguaglianze
L’Italia, con le sue profonde disuguaglianze territoriali, non potrebbe permettersi di considerare l’istruzione come una priorità secondaria. Colmare i divari non è solo una questione di giustizia sociale ma un investimento per garantire un futuro più stabile e competitivo. È il solito monito di tutti gli anni: continuare a ignorare l’importanza dell’istruzione rischia di compromettere non solo le possibilità di crescita dei giovani ma la capacità stessa del Paese di affrontare le sfide globali.
Siamo al solito fine anno. La manovra finanziaria è alle porte, i collettivi studenteschi richiamano l’attenzione sul declino della scuola. Gli studiosi preparano i numeri, le analisi e i confronti che indicano l’Italia come un Paese scolasticamente in decadenza. Decadono i muri delle scuole e decade la loro incidenza come motore di uguaglianza sociale e di opportunità. I giornali e le trasmissioni televisive rilanciano la litania: colpa degli studenti che dovrebbero solo studiare, dicono.
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