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Legge sull’aborto, la relazione è in ritardo ma non è una svista

Il governo Meloni continua ad avere una relazione complicata con l’aborto. Il ritardo accumulato sulla relazione annuale relativa all’applicazione della legge 194 del 1978 appare emblematico. La legge stabilisce che ogni anno, entro febbraio, il Ministero della Salute presenti al Parlamento un quadro aggiornato sull’interruzione volontaria di gravidanza (IVG) in Italia. Quest’anno, la relazione è arrivata con nove mesi di ritardo e priva di dati essenziali. Non un semplice errore tecnico, ma una scelta che alimenta dubbi sulla volontà politica di affrontare seriamente il tema.

Una legge sotto attacco per via burocratica

La relazione è l’unico strumento istituzionale che permette di monitorare l’applicazione della legge. Omettere tabelle fondamentali come quelle sugli obiettori di coscienza e sui centri in cui si pratica l’interruzione volontaria di gravidanza (Ivg) equivale a occultare la realtà. Eppure, sappiamo che in alcune regioni il personale sanitario obiettore supera l’80%. Lazio, Campania e Molise sono l’emblema di questa realtà: in quest’ultima regione, un solo medico garantisce il diritto all’aborto pubblico. Le donne che vivono in queste aree sono costrette a migrare verso altre regioni o a rivolgersi al mercato privato, un lusso non accessibile a tutte.

Cifre incomplete e territori invisibili

Nel 2021, secondo i dati ufficiali, si sono registrate circa 66 mila Ivg, un calo costante dal 1983, ma le percentuali di obiettori rendono questi numeri fuorvianti. La realtà è che l’accesso al diritto dipende sempre più dal codice postale. Nella relazione mancano aggiornamenti chiave, come quelli sull’accessibilità ai farmaci abortivi. La RU486, che dovrebbe facilitare l’accesso all’Ivg, è disponibile in regime ambulatoriale solo in alcune regioni, un diritto trasformato in lotteria territoriale.

Un ritardo che non è mai neutrale

Giustificare questo ritardo con presunte difficoltà tecniche significa ignorare il messaggio politico che si cela dietro questa disattenzione. La legge 194 è stata concepita per garantire la salute e la libertà di scelta delle donne, ma non è mai stata al riparo dagli attacchi di chi vorrebbe relegarla a un guscio vuoto. I nove mesi di ritardo non sono un dettaglio: rinviare la pubblicazione significa rimandare la discussione, annullando ogni possibilità di confronto politico e pubblico.

Le parole del silenzio

Nel testo della relazione, il governo non menziona mai la necessità di ridurre l’obiezione di coscienza né propone soluzioni per colmare i divari regionali. Un vuoto che sa di strategia. Chi dovrebbe occuparsi della tutela dei diritti sembra invece concentrato sull’indebolirli, celandosi dietro tecnicismi che fanno apparire tutto come una casualità.

Una risposta necessaria

Il quadro è chiaro: il governo Meloni sta normalizzando l’erosione dei diritti fondamentali. Ma le responsabilità non sono solo del governo centrale. Le regioni giocano un ruolo cruciale nella raccolta dei dati e nell’implementazione della 194. L’assenza di trasparenza è condivisa, ma non è giustificabile.

La relazione sull’applicazione della legge 194 è un documento tecnico solo in apparenza: è un termometro della democrazia. Ritardi e omissioni non sono mai neutri. Sono scelte politiche mascherate da inefficienze. In Italia, nel 2024, il diritto delle donne all’aborto non è garantito allo stesso modo ovunque, e chi governa sembra preferire che non si parli di questo. Forse perché il silenzio, spesso, è l’arma più efficace per cancellare un diritto.

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