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Respingimenti e frontiere chiuse, l’Unione europea in tilt dopo la caduta di Assad

La caduta del regime di Bashar al-Assad, un evento che avrebbe dovuto generare speranza per il popolo siriano, sta invece svelando l’ennesimo fallimento dell’Europa nel difendere i principi che proclama a ogni tavolo internazionale. Non appena la notizia è arrivata, il riflesso istintivo di molti Stati membri non è stato quello di prepararsi a sostenere una transizione complessa o garantire protezione a chi fugge da anni di conflitto, ma di chiudere porte e sospendere vite.

Austria, Germania, Belgio e Grecia hanno rapidamente congelato le richieste d’asilo dei siriani, citando la necessità di rivalutare la situazione sul campo. L’Italia, che mai si lascia sfuggire l’occasione di allinearsi al blocco più conservatore, ha dichiarato di non accettare più nuove domande d’asilo dai cittadini siriani. La Siria, per l’Unione, diventa ora un paradosso: troppo instabile per garantire rimpatri sicuri, ma improvvisamente non abbastanza per offrire rifugio a chi continua a rischiare la vita.

La “Siria sicura”: un’invenzione politica

La narrazione della “Siria sicura” è un costrutto artificiale, una comoda giustificazione per rispondere alla pressione dei partiti di destra che soffiano sul fuoco dell’ostilità verso le persone migranti. Ma la realtà sul terreno racconta una storia ben diversa: città rase al suolo, infrastrutture inesistenti, una società frammentata da oltre un decennio di guerra civile. È un teatro di macerie in cui i rimpatri non solo sarebbero inumani, ma violerebbero apertamente il principio di non-refoulement, che vieta di restituire qualcuno a un luogo dove potrebbe subire persecuzioni, torture o morte.

Eppure, questa contraddizione non sembra frenare l’entusiasmo con cui alcuni Stati membri procedono verso politiche che, al di là del linguaggio diplomatico, consistono nell’espulsione delle responsabilità. L’Austria, che ha esplicitamente annunciato il proprio intento di deportare i siriani, si fa portavoce di un approccio che sempre più Stati sono pronti ad abbracciare, sacrificando il rispetto dei diritti umani sull’altare della politica interna.

L’Unione che si sgretola

Di fronte a questa crisi, l’Unione europea si dimostra ancora una volta incapace di agire come un corpo unico, preferendo la frammentazione alla solidarietà. La Commissione europea ha invitato gli Stati membri alla cautela, ma il richiamo non ha avuto alcun peso. Le risposte sono discordanti: mentre la Spagna adotta un approccio cauto e caso per caso, altri Paesi, come quelli del blocco centrale, si muovono con fretta e durezza.

Il risultato è una catena di decisioni che non solo tradiscono i diritti dei rifugiati, ma espongono l’intero progetto europeo a un grave rischio di credibilità. L’Unione si presenta come paladina dei diritti umani nei consessi internazionali, ma poi tradisce quei principi non appena le circostanze interne lo richiedono. È una retorica che si svuota di significato ogni volta che l’Europa gira le spalle a chi ne ha più bisogno.

La lunga ombra del passato

La scelta dell’Europa di sospendere le domande d’asilo per i siriani non è un caso isolato. È parte di un trend che già si era manifestato nell’accordo con la Turchia del 2016, quando l’Ue delegò ad Ankara la gestione dei rifugiati in cambio di fondi e silenzio. È il modello di una politica estera che si affida alla delega e alla negazione, piuttosto che alla responsabilità diretta. Ma se allora era la Turchia a fare il lavoro sporco, oggi l’Europa sembra pronta a farlo da sé.

Un futuro in frantumi

In questa vicenda, l’Unione europea si gioca molto di più della sua politica migratoria. Si gioca la sua identità. Continuare a sacrificare vite umane per inseguire l’effimero consenso elettorale significa accettare una trasformazione in cui i diritti umani diventano flessibili, negoziabili, sacrificabili. È un percorso che non porta solo all’abbandono di chi fugge dalla Siria, ma a una lenta e inesorabile erosione di ciò che l’Europa dovrebbe essere.

La “Siria sicura” è una bugia, e l’Unione lo sa. Il problema non è la mancanza di informazioni o di strumenti per affrontare la crisi. Il problema è la volontà politica. Ma ogni porta chiusa oggi costruisce un muro che sarà impossibile abbattere domani. E il prezzo, come sempre, sarà pagato da chi non ha voce.

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