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Povera Cop29, poveri noi

La Cop29, l’annuale vertice sul clima delle Nazioni Unite, è terminata dopo due settimane di negoziati. La cronaca delle trattative ha meritato poca attenzione sulla stampa, qui dalle nostre parti. Ormai l’ambientalismo è diventato un tema per gli affezionati, una di quelle cose di cui non ti puoi permettere di non parlare, ma che puoi benissimo inserire nelle rubriche fisse: motori, risultati delle partite, meteo, lettere dei lettori e infine anche l’ambientalismo.

Nemmeno i 300 miliardi all’anno fino al 2035 per aiutare i Paesi in via di sviluppo ad affrontare la crisi climatica hanno fatto notizia. Del resto, viviamo in un Paese governato da un ministro dei Trasporti che capeggia un’orda di maschi fieri di inquinare il più possibile. Lo smog come prolungamento del pene.

Il gran capo dei maschi, Donald Trump, alla Cop29 ha deciso di non volgere uno sguardo e di non sprecare nemmeno una parola. Per lui le auto interessanti, così come i missili, sono quelle del suo padrone Elon Musk.

Non aiuta nemmeno che, mentre le Cop aumentano di numero, anno dopo anno, le promesse degli anni precedenti vengano sempre smentite. Così tutto appare come una lunghissima analisi della sconfitta, a puntate, con un finale nero per tutti.

I Paesi colpiti da disastri climatici hanno fatto notare sommessamente che forse l’impegno profuso fin qui non basta. Gli altri hanno promesso soldi, ancora soldi. C’è qualcuno talmente stupido da pensare che risarcire possa essere risolutivo per annullare le cause.

Dicono che la crisi dell’attenzione verso l’ambientalismo corrisponda alla crisi del progressismo in giro per il mondo. Ma qui non si perdono le elezioni.

Buon lunedì.

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Musk, la vicenda José Garza e il pericoloso intreccio tra denaro e politica – Lettera43

Mr Tesla non si limita a plasmare il futuro delle imprese spaziali o delle auto elettriche. Le sue mani sono immerse nella politica americana, e non solo perché farà parte dell’Amministrazione Trump. L’ingerenza nelle elezioni locali per rovesciare inutilmente il procuratore distrettuale di Austin, simbolo del movimento per la riforma della giustizia penale Usa, dovrebbe metterci tutti in allarme.

Musk, la vicenda José Garza e il pericoloso intreccio tra denaro e politica

Chi si stupisce che il miliardario Elon Musk si occupi dei giudici italiani, meritandosi un rimprovero anche dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, non conosce il suo passato recente. Da poco nominato nella nuova Amministrazione di Donald Trump, dove guiderà il nuovo dipartimento per l’efficienza governativa, Musk non si limita a plasmare il futuro delle imprese spaziali o delle auto elettriche. Le sue mani sono anche immerse nella politica americana, con un’operazione emblematica: la sua ingerenza nelle elezioni locali per cercare di rovesciare José Garza, procuratore distrettuale di Austin, Texas, simbolo della cosiddetta “riforma della giustizia penale”.

Elon Musk contro il cancelliere Scholz su X «Olaf è uno stupido»
Elon Musk (Getty Images).

I procuratori che sulla giustizia penale sfidano la destra Usa

Negli Stati Uniti, la giustizia penale è storicamente basata su un modello punitivo: alti tassi di incarcerazione, lunghe pene detentive e politiche che raramente affrontano le cause profonde della criminalità, come povertà, dipendenze e disagio sociale. Questo approccio ha trasformato il Paese nella democrazia con il più alto numero di detenuti al mondo. Da un decennio, però, si è sviluppato un movimento per riformare questo sistema. I procuratori eletti in città come Austin, Los Angeles e Philadelphia stanno introducendo politiche innovative: riduzione delle pene per reati minori, eliminazione della cauzione in contanti (che colpisce in modo sproporzionato i poveri), investimenti in programmi di riabilitazione e prevenzione. Si tratta di una visione che punta a diminuire il numero di detenuti e a concentrarsi su alternative più efficaci e umane al carcere. José Garza incarna questa filosofia. Da quando è stato eletto procuratore distrettuale di Austin, ha ridotto la detenzione preventiva per reati non violenti, avviato programmi per affrontare le dipendenze e cancellato i precedenti penali di chi non è mai stato condannato. Politiche che rappresentano una sfida diretta alla narrativa dominante della destra americana, secondo cui solo il carcere garantisce sicurezza. A marzo 2024, Musk ha versato 700 mila dollari nella campagna elettorale contro Garza, tentando di far eleggere un procuratore favorevole a un approccio più punitivo. Gli spot televisivi finanziati dal miliardario erano spudorati: immagini di orsacchiotti insanguinati e messaggi apocalittici, come «Garza riempie le strade di pedofili e assassini».

Musk e il pericoloso intreccio tra denaro e politica
José Garza (Getty Images).

Neppure il patrimonio di Musk non è bastato a fermare Garza  

Musk ha potuto permettersi questo intervento non solo grazie al suo patrimonio personale, ma anche al suo nuovo status di attivista politico. Con la rielezione di Donald Trump, Mr Tesla è diventato una figura chiave del governo, rafforzando il legame tra potere economico e decisioni politiche. Ma il denaro, in questo caso, non è bastato. Garza ha vinto con il 66 per cento dei voti, dimostrando che un movimento radicato nella comunità può resistere anche agli attacchi di chi dispone di risorse quasi illimitate. Una vittoria che però non cancella certo tutti gli ostacoli sulla strada della  riforma della giustizia penale. Procuratori come George Gascón, a Los Angeles, hanno perso elezioni cruciali, schiacciati da campagne che sfruttano il timore del crimine per delegittimare le politiche progressiste. Eppure, i successi sono significativi. Monique Worrell, procuratrice della Florida sospesa dal governatore Ron DeSantis, è stata rieletta grazie a una campagna centrata sulla responsabilità della polizia. Shayla Favor, in Ohio, ha introdotto politiche contro la pena di morte. A Savannah, in Georgia, Shalena Cook Jones ha avviato un programma per rivedere le condanne ingiuste. Questi procuratori non rappresentano solo un approccio diverso al crimine. Mostrano che l’alternativa è praticabile. Studi del Vera Institute dimostrano che programmi di riabilitazione e prevenzione riducono del 50 per cento i tassi di recidiva rispetto al carcere.

Donald Trump e Elon Musk hanno assistito al sesto test di lancio di Starship, navicella di SpaceX, con il booster Super Heavy.
Elon Musk con Donald Trump (Getty Images).

Se il denaro diventa strumento di controllo politico

La vicenda, pur essendo americana, solleva interrogativi universali. Quanto è vulnerabile la democrazia di fronte al potere economico? E quanto siamo disposti a mettere in discussione un sistema di giustizia punitivo che spesso colpisce i più deboli? Elon Musk, con il suo intervento contro Garza, non ha solo cercato di influenzare un’elezione locale. Ha mostrato come il denaro possa diventare uno strumento di controllo politico. E se questo accade nella patria della democrazia, quali sono le garanzie per gli altri Paesi, Italia compresa? Le parole di Garza, dopo la sua vittoria, suonano come un avvertimento: «Ci vorrà organizzazione e coerenza per resistere». Un miliardario che scuce una enorme quantità di denaro per rimuovere un giudice che non gli piace e che ora si ritrova in un ruolo di rilievo governativo è l’alba della plutocrazia.

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Ma che si è messo in… Tesla Musk? Sulla Cina è scontro con Trump

Ecco il primo scontro tra i due grandi ego americani. Musk, il visionario delle auto elettriche, dipende dalla Cina per il successo della sua Tesla. Trump, il presidente del “Make America Great Again”, usa la Cina come nemico ideale per consolidare la sua narrativa politica. Tra queste forze opposte, c’è una verità che emerge chiara: finita la propaganda ora la Cina è già terreno di scontro tra i due grandi alleati. 

La prigione dorata di Tesla: dipendenza da Pechino

La Tesla di Musk è legata a doppio filo al mercato cinese. La Gigafactory di Shanghai, inaugurata nel 2019, è una delle gemme dell’impero Tesla. Non solo è stata costruita in tempi record – meno di un anno – ma è diventata rapidamente il cuore pulsante della produzione globale dell’azienda. Oggi, più della metà dei veicoli Tesla venduti nel mondo proviene da quella fabbrica. Una percentuale significativa, circa il 40%, è destinata all’esportazione verso mercati in espansione. Il governo cinese, consapevole del ruolo strategico dell’industria dei veicoli elettrici, ha spalancato le porte a Musk, offrendo incentivi fiscali e un trattamento preferenziale raro per un’azienda straniera.

Ma il paradiso produttivo cinese è anche una prigione dorata. Tesla dipende da Pechino più di quanto Musk sia disposto ad ammettere. Le tensioni commerciali tra Stati Uniti e Cina, esplose durante la presidenza Trump, hanno messo a dura prova questa relazione. Nel 2018, Trump ha lanciato una guerra commerciale contro la Cina, imponendo dazi su centinaia di miliardi di dollari di merci cinesi. La strategia mirava a ridurre il deficit commerciale americano, ma ha finito per colpire anche le aziende statunitensi che operavano in Cina, Tesla inclusa.

In questo contesto, Musk si è trovato a dover giocare su due tavoli. Da un lato, ha cercato di mantenere buoni rapporti con l’amministrazione Trump, elogiando le sue politiche industriali quando necessario. Dall’altro, ha fatto il possibile per non incrinare la sua posizione in Cina, dove Tesla è vista come un simbolo di innovazione occidentale. Una dicotomia che ha messo in luce il vero volto del capitalismo moderno: nessuna ideologia, solo pragmatismo.

Trump, dal canto suo, ha utilizzato la Cina come un capro espiatorio perfetto per alimentare la sua base elettorale. La narrativa dell’America minacciata dall’espansione economica cinese è stata un pilastro del suo discorso politico alle ultime elezioni. Tuttavia, le sue politiche commerciali raccontano una storia diversa. I dazi imposti hanno avuto effetti limitati sul deficit commerciale e hanno spesso danneggiato le aziende americane più di quanto abbiano colpito la Cina. Trump, pur predicando il nazionalismo economico, ha sempre mantenuto un occhio attento sui numeri. E in quei numeri, il fatturato – sia esso politico o economico – ha sempre avuto la priorità.

Il bivio per Trump e Musk: propaganda o compromesso?

Ora la presidenza Trump – e Musk nella sua veste politica – si trovano di fronte a un bivio: tenere fede alle promesse elettorali sanzionando la Cina (e l’Unione europea) per rendere “grande l’America” oppure rimangiarsi gli slogan e concedere a Tesla di lucrare sulle facilitazioni politiche e salariali cinesi. Trasformarsi in una tecnocrazia del resto era il rischio evidente dell’alleanza Musk-Trump. Il presidente Usa si accorge che farsi strafinanziare da uno stramiliardario ha degli evidenti costi politici. 

Ma c’è un elemento di ironia in questa storia. Mentre Trump e Musk combattono le loro battaglie, la Cina si rafforza. La Gigafactory di Shanghai non è solo una fabbrica: è una prova tangibile del potere di attrazione cinese. Pechino non ha bisogno di guerre commerciali o sanzioni per esercitare la sua influenza. Basta la sua capacità di offrire opportunità, rendendo le aziende occidentali dipendenti dal suo mercato. E Trump e Musk sono in quella tela. 

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Mediterraneo, la frontiera del silenzio

Nel Mediterraneo, ogni onda è un atto di accusa. Ogni barca che affonda, un processo sommario contro un’umanità che ha dimenticato sé stessa. Il report “Violenze, Resistenze e Memorie tra le due rive del Mediterraneo” di Memoria Mediterranea è un urlo straziante che cerca di rompere il muro del silenzio. Non ci sono eufemismi per raccontare quello che succede tra le coste africane e quelle europee: è una strage sistematica, voluta e alimentata con denaro pubblico.

Esternalizzare la crudeltà

Non bastavano le fosse comuni in Libia. Non bastavano i lager finanziati con la complicità europea. Ora c’è una nuova zona SAR tunisina, che estende il controllo della Guardia Costiera di Tunisi fino a lambire la Sicilia occidentale. Qui non si tratta di “ricerca e soccorso”, ma di respingimenti travestiti da diplomazia. Sotto l’etichetta dell’efficienza, le vite delle persone migranti sono affidate a forze che agiscono come milizie. Abusi, respingimenti nel deserto, violenze: è questa la politica migratoria europea, dove il diritto è una parola che si scioglie tra le onde.

L’accordo Italia-Albania è l’altro volto della stessa medaglia. Un centro di trattenimento a Gjader, una struttura penitenziaria travestita da hotspot: un altro laboratorio di violazione dei diritti umani. Persone private del nome, delle tutele, della speranza. E mentre le famiglie attendono risposte, il protocollo viene difeso come “necessario”. Necessario a cosa Al progetto di un’Europa sempre più murata, cieca, muta.

Mediterraneo: Mare nostrum, cimitero comune

Il Mediterraneo centrale è il più mortale, ma anche il più invisibile. Il naufragio di Roccella Jonica, nella notte tra il 16 e il 17 giugno, ha portato via almeno 35 vite. Minori, donne, uomini. Solo numeri, per chi resta indifferente. Memoria Mediterranea racconta l’orrore: le autorità ignorano gli allarmi, il mare inghiotte vite e sogni. Ma i morti, si sa, non votano. E così, le salme vengono sepolte senza nome, perché nemmeno nella morte c’è dignità per chi osa attraversare i confini.

Le storie che emergono dal report sono ferite aperte. Aissatou Aisha Barry, giovane guineana di 23 anni, è morta durante uno sbarco a Lampedusa. La sua famiglia ha dovuto combattere mesi per identificarla, per strapparla all’oblio. Ogni foto, ogni carta, ogni dettaglio è stato un atto di resistenza contro un sistema che cancella le persone. Lo stesso è accaduto con Ishtiaq Hassan, ragazzo bengalese morto nella stiva di una “carretta del mare”. Anche lui, come tanti altri, è stato ridotto a un numero.

La repressione della solidarietà

Non c’è limite alla disumanità di chi governa. Salvare vite è diventato un reato. Le Ong vengono bloccate, multate, isolate. Le navi, costrette a percorrere chilometri per raggiungere porti lontani, trasformano ogni salvataggio in una corsa contro il tempo. La legge 50/2023 è solo l’ultimo schiaffo: una repressione senza maschere, dove la solidarietà è trattata come una minaccia.

E poi ci sono i processi. Maysoon Majidi, attivista iraniana, è stata accusata di scafismo. Perché? Perché è sopravvissuta. Perché si è difesa. Questo Stato, che lascia morire le persone, ha il coraggio di trasformarle in carnefici. È un sistema che criminalizza chi attraversa il mare e assolve chi lo riempie di morti.

Contro l’oblio del Mediterraneo

Ma non tutto si può cancellare. Le famiglie di chi non c’è più sono lì a ricordarlo. Adama Barry, sorella di Aissatou, ha lottato fino all’ultimo per riportare il corpo della giovane guineana a casa. Tariq, cugino di Ijaz Firas, ha raccolto fondi per dare alla sua famiglia pakistana il diritto di piangere il loro figlio. Ogni storia è un pugno nello stomaco, ma è anche un segno di resistenza.

Memoria Mediterranea chiude il suo report con un monito: nessuno può dirsi innocente. Questo mare di sangue è una responsabilità collettiva, un’onta che non si lava via. L’Europa non è una fortezza: è un campo di battaglia, dove chi sopravvive deve combattere per restare umano. Ma ogni nome, ogni volto, ogni lacrima raccontano che l’oblio non ha ancora vinto.

Restano le domande: quanto ancora si potrà guardare dall’altra parte? E quanto ancora si potrà sostenere che tutto questo è inevitabile? Rispondere è un dovere. Non per chi è già morto, ma per chi rimane. Perché il silenzio è complicità, e chi non parla oggi sarà colpevole domani.

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Matteo dice No e Giorgia tace

Nessuna questione di competenze, nessun dibattito sui risvolti politici nella maggioranza europea, nessun mea culpa sul voto contrario alla Commissione von der Leyen: per Giorgia Meloni la vicepresidenza di Raffaele Fitto è soprattutto una questione di rispetto per la nazione. Ergo, chi era contro Fitto (come il Pd, che però ci ha ripensato) era contro la nazione.

I patrioti, del resto, usano spesso il trucco di trattare gli oppositori politici come traditori della patria. Avremmo potuto imparare la lezione, studiare un po’ meglio la storia, e invece la trasposizione di Fitto a bene nazionale, come il Colosseo o la Torre di Pisa, è passata, con l’aiuto di politici di rango come Prodi e Monti e con la moral suasion – si dice – del Quirinale.

La retorica della maggioranza, anche questa volta, ha funzionato. Fitto, trasformato nell’ambasciatore dell’Italia a Bruxelles, ha intimorito persino i socialisti europei. Qualcuno di loro addirittura esulta – come il “riformista” Giorgio Gori – spiegandoci che il governo italiano ha indicato nell’ex ministro al Pnrr “un nome obiettivamente rispettabile”, anche se l’attuazione del nostro Pnrr a Bruxelles è ritenuta molto discutibile.

Solo che ieri, a prendere le distanze dalla nuova Commissione europea (e quindi anche da Fitto), è stato Paolo Borchia, capodelegazione della Lega al Parlamento europeo, che, a Il Foglio, ha confermato il voto contrario del gruppo europeo dei Patrioti. Quindi la Lega, alleata di Fitto e Meloni in Italia, vota contro la Patria a Strasburgo? Meloni, in questo caso, tace.

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Decolla la produttività, ma crollano i redditi

Benvenuti nel Paese in cui i lavoratori producono di più ma guadagnano di meno. Non è solo un paradosso economico, è uno schiaffo morale alla dignità del lavoro. I numeri della ricerca Uiltucs sono una radiografia impietosa del nostro sistema: mentre i salari reali in Italia precipitavano dell’8% dal 2010, in Germania volavano su del 14%. Il settore del commercio è il settore più emblematico: una produttività aumentata del 16% si è trasformata in un taglio del 15% delle buste paga. In parole povere, i lavoratori hanno regalato alle aziende maggiore efficienza ricevendo in cambio povertà. Una redistribuzione alla rovescia, un Robin Hood che ruba ai poveri per dare ai ricchi.

Confrontarsi con l’Europa fa ancora più male. Il nostro salario medio di 31.530 euro ci relega al penultimo posto tra i nove Paesi analizzati, con la magra consolazione di superare la Spagna di appena mille euro. La Danimarca, prima in classifica, ci stacca di oltre 20mila euro. È il racconto di due Europe che viaggiano a velocità diverse, dove il lavoro ha valori e dignità differenti.

La verità è che stiamo assistendo a un furto silenzioso. Mentre i lavoratori corrono più veloce sulla ruota del criceto della produttività, il loro potere d’acquisto viene eroso giorno dopo giorno. È un sistema che ha smesso di redistribuire ricchezza, trasformandosi in una macchina che accumula disuguaglianze. La Germania ha trovato una risposta nel salario minimo legale del 2015. Noi continuiamo a dibattere, mentre i nostri lavoratori scivolano lentamente verso la povertà. O si sta dalla parte di chi il lavoro lo fa o di chi sul lavoro altrui continua ad arricchirsi senza redistribuire nulla.

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Gaza è un test morale

Ha ragione il professore Mario Ricciardi quando scrive che Gaza è un test morale. La violenza del conflitto in Medio Oriente, a partire dal 7 ottobre, svela le ipocrisie di chi si è costruito un profilo di credibilità sommessamente, fingendo.
Da ieri, il leader israeliano Benjamin Netanyahu è ufficialmente un ricercato internazionale, insieme al suo ex ministro della Difesa, Yoav Gallant. Sono ritenuti responsabili della devastante guerra all’interno della Striscia di Gaza, definita un “attacco diffuso e sistematico contro la popolazione civile”.
È la prima volta che un alleato dell’Occidente viene condannato dalla Corte penale internazionale. È sicuramente la prima volta che le politiche estere di Europa e Usa vengono schiaffeggiate dal diritto.
Netanyahu come Putin, leader criminali. E non sorprende che qualche unto commentatore festeggiasse nel caso del mandato dell’Aia nei confronti dell’oligarca russo (“la decisione rimette ordine nelle regole internazionali”, scriveva, ad esempio, un direttore di quotidiano) e ora che quell’Aia sia diventata colpevole “della caccia all’ebreo”.
Serve, del resto, molta ipocrisia per ritenere il genocidio una forma di legittima difesa. Ci vuole molta ipocrisia per credere che la privazione di acqua, cibo e medicine abbia a che fare con la caccia ai terroristi. Ci vuole molta ipocrisia per ritenere Netanyahu una sineddoche di tutti gli ebrei, pur di arrivare a evocare l’antisemitismo.
Gaza è un test morale anche per la classe politica. Se Netanyahu è un criminale, è fin troppo facile immaginare chi siano i suoi fiancheggiatori, che ne risponderanno di fronte alla Storia.

Buon venerdì.

Nella foto: l’ex ministro Gallant e il premier Netanyahu

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Corsa alla poltrona, nel centrodestra è già guerra aperta sulle Regionali

Incassate le sconfitte in Emilia Romagna e Umbria in vista delle elezioni regionali del 2025,il centrodestra vive un malcelato nervosismo che rischia di trasformarsi in uno scontro aperto. Due delle sue regioni strategiche, Veneto e Campania, sono al centro di una partita dove il futuro delle leadership locali si intreccia con le ambizioni nazionali di Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia. Dietro ai proclami di unità, emergono crepe, eccome. 

Veneto: il feudo leghista sotto assedio

Nel Veneto, feudo incontrastato della Lega da decenni, la sfida è molto delicata. Luca Zaia, presidente uscente e uomo simbolo del “buon governo leghista”, si avvia al termine del secondo mandato consecutivo. Senza un intervento legislativo per rimuovere il limite, Zaia non potrà ricandidarsi, aprendo una competizione per la successione.

Fratelli d’Italia, forte dei risultati alle europee e consapevole della crescita nel nord-est, rivendica per sé la candidatura. Il nome più gettonato è quello del senatore Luca De Carlo, che il partito di Giorgia Meloni considera un profilo adatto per sfidare l’egemonia leghista. Non è solo una questione locale: una vittoria in Veneto significherebbe per Fratelli d’Italia lanciare un segnale forte al proprio alleato-rivale.

La Lega, dal canto suo, non sembra intenzionata a cedere il passo. La strategia del partito di Matteo Salvini è chiara: proteggere un territorio che considera parte integrante della propria identità politica. Tuttavia, l’assenza di Zaia rischia di indebolire il consenso. E c’è chi, come Forza Italia, intravede nella situazione un’opportunità. Gli azzurri hanno rilanciato il nome di Flavio Tosi, ex sindaco di Verona, come possibile candidato di compromesso. Una proposta che, però, sembra più un tentativo di rimanere in partita che una reale alternativa.

Campania: la sfida che può riscrivere gli equilibri

Se in Veneto si litiga per il futuro, in Campania si combatte per il presente. Qui la sfida è ancora più incerta, con Fratelli d’Italia e Forza Italia che si contendono la guida della coalizione. Forza Italia ha già lanciato il suo cavallo di battaglia: Fulvio Martusciello, europarlamentare con un impressionante bagaglio di preferenze personali (100.000 alle europee). La scelta punta a consolidare il radicamento territoriale del partito, facendo leva su un nome conosciuto e con una macchina elettorale già rodata.

Fratelli d’Italia, però, non intende fare da spettatore. Il viceministro Edmondo Cirielli rappresenta il profilo preferito dai meloniani: un politico con esperienza, già noto nel panorama regionale e in grado di incarnare l’immagine di un partito in crescita. La sua candidatura, però, rischia di esacerbare i contrasti interni, soprattutto se Forza Italia decidesse di insistere con Martusciello.

A complicare il quadro c’è il ruolo marginale della Lega, ormai una forza residuale in Campania. Salvini, che ha sempre cercato di espandere il partito al Sud, potrebbe dover accettare un ruolo defilato, con il rischio di alimentare malumori nella base.

Non solo le Regionali: dietro le tensioni c’è di più

Il nervosismo che serpeggia nel centrodestra non riguarda solo il controllo delle singole regioni. Veneto e Campania rappresentano due pilastri fondamentali per la strategia nazionale della coalizione. Per Fratelli d’Italia, vincere in una di queste regioni significherebbe consolidare il suo primato nel centrodestra, dimostrando di poter trascinare la coalizione anche nelle sfide locali. Per la Lega, il Veneto è una questione di sopravvivenza politica, un territorio che non può permettersi di perdere senza mettere in discussione il suo stesso futuro. Per Forza Italia, la Campania è l’occasione per riaffermare la propria centralità in una coalizione che tende a vederla relegata a comprimario.

Il rischio, però, è che queste ambizioni individuali si trasformino in uno scontro fratricida. E così, mentre a parole si invoca l’unità, nei fatti si costruiscono trincee. Le regionali del 2025, più che una competizione contro il centrosinistra, rischiano di diventare una resa dei conti interna al centrodestra.

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Tasso alcolemico alla guida, calcolato con l’indice Borghi

Chi si rivede: il senatore leghista Claudio Borghi. Lo scambio del parlamentare con un utente su X è una scena da bancone del bar a fine serata. “Non posso più prendere una bottiglia di vino al ristorante con la mia ragazza”, si lamenta un utente dopo l’approvazione del nuovo Codice della strada, che aumenta le sanzioni per chi guida in stato di ebbrezza. La risposta di Borghi non tarda ad arrivare: “Se te la scoli da solo ti sconsiglierei di guidare ma anche scolandotela da solo non arrivi a 0,8 perché una bottiglia non è un litro, ma 75 cl. NB i limiti alcolemici non sono stati toccati, anche oggi il limite consentito è 0,5 e 0,8 è il limite per l’ubriachezza grave al volante”. Insomma, per Borghi, con una bottiglia di vino si può guidare tranquillamente, alla faccia del Ministero della Salute, che indica come limite massimo tre bicchieri di vino per un uomo di 70 chili.

“Apparentemente, il senatore è persuaso che il tasso alcolemico si misuri in litri di vino anziché in grammi per litro di sangue. E c’è pure chi gli dà credito quando parla di modelli climatici”, commenta il giornalista scientifico Marco Cattaneo. Ma veniamo ai conti: se lo stesso uomo di 70 chili, cui si riferisce la tabella del ministero della Salute, beve un’intera bottiglia (750 cc, circa sei bicchieri) a stomaco pieno, avrà nel sangue un tasso alcolemico pari a 0,15 (per un singolo bicchiere da 125 cc) moltiplicato per 6, quindi 0,9 e ben oltre il limite legale di 0,5. La base della Lega è in rivolta, rivendicando il diritto di guidare un po’ brilli. Il senatore Borghi risponde inciampando sulla legge che ha votato. A questo punto, per misurare le capacità di guida potremmo istituire una nuova scala: la “scala Borghi”. L’automobilista fermato dovrebbe semplicemente dimostrare di avere capito la legge meglio del senatore. Se supera la prova, via libera.

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Dal ricatto del Ppe alla resa dei Socialisti

A destra, com’era facilmente prevedibile, è un coro di applausi. La nomina dell’ex ministro al Pnrr Raffaele Fitto come prossimo vicepresidente della Commissione europea accende un profluvio di dichiarazioni dei partiti di maggioranza. Il ministro dell’Istruzione Valditara parla di “successo per l’Italia”, il ministro per i Rapporti con il Parlamento Luca Ciriani ci mette la retorica patriottica: “Siamo uno dei Paesi fondatori, siamo una grande Nazione, con un governo stabile e un’economia in salute ed è giusto che tutto questo venga riconosciuto e valorizzato”.

Il forzista viceministro alla Giustizia Paolo Sisto ne approfitta per dare una carezza al suo segretario di partito, Antonio Tajani, artefice della nomina “grazie alla sua delicata opera di mediazione”. Il presidente dei senatori di Fratelli d’Italia Lucio Malan ci vede invece “un capolavoro politico di Giorgia Meloni” e invita “i gufi” a rassegnarsi. Che la confermata presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen morisse dalla voglia di fare entrare nella maggioranza il gruppo dei Conservatori e Riformisti europei (Ecr) di cui fa parte Fratelli d’Italia non è mai stato un mistero. I dietrofront sul Green Deal e nella gestione dei flussi migratori erano un chiaro segnale dell’indole dei Popolari in Europa, come accade qui in Italia: fingersi liberali ma non riuscire a frenare l’inclinazione per le pulsioni autoritarie.

Il grande capo del Ppe a Bruxelles, Manfred Weber, ha giocato sporco fin dall’inizio di questo tragicomico balletto sulla seconda Commissione von der Leyen puntando dritto sulla socialista spagnola Teresa Ribera nel ruolo di vicepresidenza. Le simulate preoccupazioni per le responsabilità dell’ex vicepresidente spagnola sull’alluvione recente di Valencia erano il fondotinta su un ricatto politico. Se il gruppo dei Socialisti&Democratici non avesse votato Fitto, il Ppe (la più grande delegazione a Bruxelles) avrebbe impallinato Ribera per provocare lo stallo. Anche la retorica per additare i socialisti ha fatto la sua parte: la guerra in Medio Oriente e in Ucraina, l’elezione di Trump e il quadro economico globale imponevano per Weber una veloce “assunzione di responsabilità”. Anche questo è un trucco più da sovranisti che liberali, il “chi è contro di me è contro il bene della nazione” è un artifizio antico dalle radici nere.

I socialisti, guidati da Iratxe Garcia Perez, con la benedizione di Pedro Sanchez, ci sono cascati. Così, il prossimo 27 novembre, la plenaria confermerà la seconda commissione guidata da von der Leyen fingendo di non avere smentito il voto del 28 luglio. Lì la commissaria aveva ricevuto il mandato da 401 voti di una solida maggioranza europeista formata dal Ppe, dai socialisti, dai liberali e dai verdi. A giorni, il governo von der Leyen II sarà confermato da una maggioranza frammentata, con diversi voti contrari all’interno di S&D e Ppe, con l’uscita dei Verdi e con l’ingresso dei meloniani a Bruxelles che voteranno in dissenso con i loro compagni di gruppo, i polacchi di Legge e Giustizia.

“Questo è stato un bluff del Ppe”, ha detto il deputato dei Verdi Thomas Waitz, che è anche il presidente del Partito Verde Europeo, riferendosi alle minacce contro Ribera. “Ma ovviamente sono riusciti a far credere ai socialdemocratici che avrebbero potuto rischiare l’intera Commissione solo per aver rifiutato Madame Ribera”. Ne esce malconcio anche il Parlamento europeo. È la prima volta dal 1999 che nessun candidato di un Paese alla Commissione è stato respinto. La nuova Commissione è un prodotto di caminetti politici. Alla faccia di chi s’è fatto eleggere urlando contro i “burocrati” di Bruxelles. A proposito, e il Pd?

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