Nel Mediterraneo, ogni onda è un atto di accusa. Ogni barca che affonda, un processo sommario contro un’umanità che ha dimenticato sé stessa. Il report “Violenze, Resistenze e Memorie tra le due rive del Mediterraneo” di Memoria Mediterranea è un urlo straziante che cerca di rompere il muro del silenzio. Non ci sono eufemismi per raccontare quello che succede tra le coste africane e quelle europee: è una strage sistematica, voluta e alimentata con denaro pubblico.
Esternalizzare la crudeltà
Non bastavano le fosse comuni in Libia. Non bastavano i lager finanziati con la complicità europea. Ora c’è una nuova zona SAR tunisina, che estende il controllo della Guardia Costiera di Tunisi fino a lambire la Sicilia occidentale. Qui non si tratta di “ricerca e soccorso”, ma di respingimenti travestiti da diplomazia. Sotto l’etichetta dell’efficienza, le vite delle persone migranti sono affidate a forze che agiscono come milizie. Abusi, respingimenti nel deserto, violenze: è questa la politica migratoria europea, dove il diritto è una parola che si scioglie tra le onde.
L’accordo Italia-Albania è l’altro volto della stessa medaglia. Un centro di trattenimento a Gjader, una struttura penitenziaria travestita da hotspot: un altro laboratorio di violazione dei diritti umani. Persone private del nome, delle tutele, della speranza. E mentre le famiglie attendono risposte, il protocollo viene difeso come “necessario”. Necessario a cosa Al progetto di un’Europa sempre più murata, cieca, muta.
Mediterraneo: Mare nostrum, cimitero comune
Il Mediterraneo centrale è il più mortale, ma anche il più invisibile. Il naufragio di Roccella Jonica, nella notte tra il 16 e il 17 giugno, ha portato via almeno 35 vite. Minori, donne, uomini. Solo numeri, per chi resta indifferente. Memoria Mediterranea racconta l’orrore: le autorità ignorano gli allarmi, il mare inghiotte vite e sogni. Ma i morti, si sa, non votano. E così, le salme vengono sepolte senza nome, perché nemmeno nella morte c’è dignità per chi osa attraversare i confini.
Le storie che emergono dal report sono ferite aperte. Aissatou Aisha Barry, giovane guineana di 23 anni, è morta durante uno sbarco a Lampedusa. La sua famiglia ha dovuto combattere mesi per identificarla, per strapparla all’oblio. Ogni foto, ogni carta, ogni dettaglio è stato un atto di resistenza contro un sistema che cancella le persone. Lo stesso è accaduto con Ishtiaq Hassan, ragazzo bengalese morto nella stiva di una “carretta del mare”. Anche lui, come tanti altri, è stato ridotto a un numero.
La repressione della solidarietà
Non c’è limite alla disumanità di chi governa. Salvare vite è diventato un reato. Le Ong vengono bloccate, multate, isolate. Le navi, costrette a percorrere chilometri per raggiungere porti lontani, trasformano ogni salvataggio in una corsa contro il tempo. La legge 50/2023 è solo l’ultimo schiaffo: una repressione senza maschere, dove la solidarietà è trattata come una minaccia.
E poi ci sono i processi. Maysoon Majidi, attivista iraniana, è stata accusata di scafismo. Perché? Perché è sopravvissuta. Perché si è difesa. Questo Stato, che lascia morire le persone, ha il coraggio di trasformarle in carnefici. È un sistema che criminalizza chi attraversa il mare e assolve chi lo riempie di morti.
Contro l’oblio del Mediterraneo
Ma non tutto si può cancellare. Le famiglie di chi non c’è più sono lì a ricordarlo. Adama Barry, sorella di Aissatou, ha lottato fino all’ultimo per riportare il corpo della giovane guineana a casa. Tariq, cugino di Ijaz Firas, ha raccolto fondi per dare alla sua famiglia pakistana il diritto di piangere il loro figlio. Ogni storia è un pugno nello stomaco, ma è anche un segno di resistenza.
Memoria Mediterranea chiude il suo report con un monito: nessuno può dirsi innocente. Questo mare di sangue è una responsabilità collettiva, un’onta che non si lava via. L’Europa non è una fortezza: è un campo di battaglia, dove chi sopravvive deve combattere per restare umano. Ma ogni nome, ogni volto, ogni lacrima raccontano che l’oblio non ha ancora vinto.
Restano le domande: quanto ancora si potrà guardare dall’altra parte? E quanto ancora si potrà sostenere che tutto questo è inevitabile? Rispondere è un dovere. Non per chi è già morto, ma per chi rimane. Perché il silenzio è complicità, e chi non parla oggi sarà colpevole domani.
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