C’è un passaggio importante, una linea per nulla sottile, in un Governo che si affloscia come una torta cotta male appena uscita dal forno: le regole. Non cadiamo nell’errore di credere (e di farci credere) che il divorzio che si è consumato tra i berluscones e i finiani sia una questione politica. Nel deserto democratico di questi ultimi anni un processo strategico di disinformazione e disarticolazione delle Istituzioni, princìpi fondamentali come la Giustizia, l’Uguaglianza e le uguali opportunità (nel lavoro, ma più largamente nel vivere sociale) sono stati violati nella loro obbligatorietà costituzionali e rivenduti come mere “visioni diverse” nella gestione dello Stato.
L’accusa del generale Fini non è sui programmi, sui progetti o sui modelli di gestione, ma più drammaticamente, sulla legittimità e legalità di un uomo al governo. Non siamo alla scissione dell’atomo o dei particolarismi da politicanti, siamo di fronte al riconoscere pubblicamente che quei vecchi confini tra i partiti dell’arco costituzionale oggi sono diventati un dirupo chiaro, un burrone che obbliga a scegliere: o si sta dalla parte delle regole o con chi le regole se le compra e le subaffitta. Senza se, e senza ma.
In poche parole: dalla parte della nostra Costituzione. Senza cittadini meno uguali degli altri, senza federalismi fumettistici, senza protoneofascismi rivenduti come libertari, senza atteggiamenti antisolidali in nome di un falsa sicurezza, senza nuovi idoli dell’ultim’ora con le cravatte che puzzano di Prima Repubblica. E nessuna si prenda i meriti di un’infezione che è ben lontana dall’essere una rivoluzione. Il “Futuro e Libertà” sventolato dai finiani come vessillo della vittoria (mentre è il tovagliolo della carcassa piena di mosche delle scelte di cui si sono resi camerieri) è già scritto nella nostra Costituzione, lottato in un “passato e oppressione” dai Padri di questo paese. Padri costituenti che non hanno bisogno di spille sulla giacca ma, banalmente, di figli assennati. Con giudizio, prudenza e maturità.