Alla COP29 di Baku, l’Italia si è presentata al mondo come sempre, avvolta nella retorica: il governo si proclama all’avanguardia nella lotta al cambiamento climatico ma i numeri la smentiscono con fragore. Il 43° posto nel Climate Change Performance Index (CCPI), elaborato da Germanwatch, CAN e NewClimate Institute, è impietoso. È il simbolo di una politica climatica che non funziona. Un leggero miglioramento rispetto al 44° posto dello scorso anno, ma ben lontano dalle prime posizioni occupate da Danimarca, Paesi Bassi e Regno Unito. L’Italia è ferma, mentre gli altri corrono.
Il 43° posto: una condanna alle politiche italiane
Non mancano, però, i proclami. La presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, non ha esitato a dichiarare che l’Italia è in prima linea nella lotta ai cambiamenti climatici. Il ministro dell’Ambiente, Gilberto Pichetto Fratin, le ha fatto eco affermando che l’Italia sta mantenendo gli impegni climatici internazionali. Dichiarazioni, però, che cozzano contro i dati del rapporto: l’Italia si colloca al 55° posto per la politica climatica, un segnale inequivocabile di un impegno più raccontato che reale.
L’analisi è impietosa. L’Italia arranca al 38° posto per la riduzione delle emissioni climalteranti, mostrando un trend che definire timido sarebbe generoso. La transizione verso le energie rinnovabili e l’efficienza energetica avanza con lentezza, mentre i ritardi nei processi autorizzativi continuano a soffocare ogni slancio verso la sostenibilità. “Il nostro Paese continua ad avere una visione miope che non riduce le bollette, crea nuove dipendenze energetiche e rallenta la transizione ecologica”, ha dichiarato Stefano Ciafani, presidente nazionale di Legambiente. Parole dure, che fotografano un immobilismo non solo politico, ma anche culturale.
I numeri non mentono: mentre la Danimarca brilla al 4° posto grazie alla significativa riduzione delle emissioni e allo sviluppo delle rinnovabili, l’Italia rimane ancorata a una strategia che sembra uscita dagli anni ’90. Lo stesso Green deal europeo, che potrebbe rappresentare una guida per uscire dall’impasse, viene trattato più come una seccatura che come un’opportunità.
COP29: tante parole, pochi fatti. Non solo dall’Italia
E la realtà, in Italia, si manifesta con eventi meteo estremi sempre più frequenti e devastanti. Alluvioni, siccità, ondate di calore: fenomeni che colpiscono duro l’agricoltura, l’economia e le comunità. Ogni anno si moltiplicano le occasioni per dimostrare di aver capito la lezione ma si continua a temporeggiare, ricorrendo ad ogni disastro al solito scaricabarile che offre al mondo uno spettacolo di immobilismo. Alla COP29, il nostro Paese ha ribadito un triste copione: si parla molto e si fa molto poco.
Il fallimento italiano non è isolato, certo. Il rapporto evidenzia che nemmeno le prime tre posizioni della classifica sono state assegnate, poiché nessun Paese ha raggiunto una performance in linea con l’obiettivo di contenere il riscaldamento globale entro 1,5°C. Ma mentre altri, come Regno Unito e Olanda, scalano posizioni grazie a politiche innovative e coraggiose, l’Italia si limita a inseguire un modello energetico superato, fondato su fossili e confuse ipotesi di ritorno al nucleare.
Legambiente parla di obiettivi chiari: ridurre le emissioni del 65% entro il 2030, in coerenza con l’Accordo di Parigi. Ma per farlo serve una visione che il governo attuale sembra incapace di fornire. Servono investimenti massicci in rinnovabili, efficienza energetica e infrastrutture sostenibili. Bisogna semplificare gli iter burocratici e abbandonare le fonti fossili una volta per tutte.
Nel 2023 l’Italia era crollata nell’indice delle performance ambientali al 44° posto perdendo ben 15 posizioni. Un anno dopo si può tranquillamente dire che non è stato un caso.
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