Era il 2018. Giorgia Meloni, come di consueto, era arrabbiata, arrabbiatissima. “Per Fratelli d’Italia Poste italiane è un gioiello che deve rimanere in mano italiana e pubblica, è un presidio di legalità e di presenza dello Stato. Ci batteremo in tutti i modi possibili per evitarne la svendita”, scriveva.
Ce l’aveva con Matteo Renzi, a capo del governo che stava prendendo in considerazione la privatizzazione di Poste.
C’è anche un video d’epoca. Meloni si mette in posa di fronte a uno striscione “Poste bene pubblico: giù le mani!”. Tra i reggi striscione c’è un giovane Donzelli, ora uno dei big del partito, che ride fragorosamente. Meloni lo sgrida, lui si rimette buono. Si avvicinano i giornalisti e Meloni parla degli “oltre 141 mila dipendenti” e dei ”13 mila presidi aperti sul territorio” e “oltre 500 miliardi dei risparmi degli italiani” per dire che “Poste italiane è un gioiello che la sinistra tenta in tutti i modi di svendere”.
Finita la dichiarazione alla stampa la giovane Meloni si avvicina a Pif, lì presente in veste di inviato, e gli sussurra: “Con voi di sinistra siamo d’accordo contro questi del PD, che stanno con le banche. Perché vogliono dare via Poste? Perché CDP gli fa concorrenza. Capito?”.
Renzi privatizzò un pezzo di Poste. Il governo di Meloni sta facendo il resto. Dopo il disco verde della scorsa settimana al Dpcm che regolamenta l’alienazione di una quota della partecipazione detenuta dal Mef in Poste Italiane, il ministero dell’Economia e la società sarebbero già al lavoro per cedere la seconda tranche del capitale, pari ad una quota del 15%, entro un mese.
Il presidio di legalità e di presenza dello Stato al miglior offerente.
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