Mentre l’Italia si abbandona all’ennesimo delirio di onnipotenza, l’Europa guarda con freddo pragmatismo al “piano Marshall” di Mario Draghi. Le prime pagine dei quotidiani nazionali grondano entusiasmo: “Ue, il piano Marshall di Draghi” (La Stampa), “L’Ue rischia l’agonia” (Repubblica), “Appello per salvare l’Europa” (Corriere della Sera). Il messaggio è chiaro: solo Super Mario può salvare il Vecchio Continente. Peccato che, come spesso accade, la realtà sia ben diversa dalle fantasie italiche. Politico, in un articolo del 10 settembre, smonta pezzo per pezzo l’illusione di un’Europa pronta a seguire ciecamente le ricette dell’ex premier italiano.
Draghi dipinge un quadro fosco: “Diventeremo una società che fondamentalmente si restringe”, dice, parlando di una “torta che diventa sempre più piccola”. La sua soluzione? Un piano da 800 miliardi di euro all’anno tra investimenti pubblici e privati. Sulla carta, una rivoluzione. Nella pratica, un’utopia.
Il piano Draghi: tra ambizione italiana e freddezza europea
Il primo ostacolo, ci ricorda Politico, è la macchina decisionale dell’Ue, un labirinto di veti incrociati e interessi nazionali. Ma il vero scoglio è il denaro. Draghi propone un aumento del debito comune, idea che fa rabbrividire i paesi “frugali” del nord. Tanto che il ministro delle Finanze tedesco Christian Lindner, appena tre ore dopo la presentazione del piano, ha già messo in chiaro che “la Germania non sarà d’accordo”.
È il solito valzer europeo: nord contro sud, austerità contro spesa. E mentre si balla, l’Europa perde terreno nei confronti di Stati Uniti e Cina. Ma c’è di più. Politico sottolinea come il problema non sia solo politico, ma strutturale. L’Ue ha una produttività inferiore agli Usa, è in ritardo nella transizione digitale e ha un sistema di ricerca e sviluppo frammentato. Problemi che non si risolvono con un colpo di bacchetta magica, nemmeno se a impugnarla è Mario Draghi.
L’Europa al bivio: stagnazione strutturale vs riforme radicali
Il confronto con gli Stati Uniti è impietoso. Mentre l’America ha saputo reinventarsi, passando dall’industria automobilistica al digitale, l’Europa è rimasta ancorata al passato. “Le aziende leader nella ricerca e negli investimenti sono le stesse di 20 anni fa: le auto”, dice Draghi. Un’ammissione di fallimento che nessun piano, per quanto ambizioso, può cancellare dall’oggi al domani.
E qui sta il punto: mentre l’Italia si crogiola nel mito di Draghi salvatore, l’Europa si scontra con una realtà fatta di ostacoli apparentemente insormontabili. Non si tratta di pessimismo, ma di pragmatismo. Come ricorda Politico, “una crescita più lenta dell’1% è quasi impercettibile in un anno, ma su un decennio o due diventa un divario incolmabile”.
In questo contesto, discutere del piano Draghi sembra quasi un esercizio di futilità. Non perché le sue idee siano valide o meno ma perché le condizioni per realizzarle semplicemente non esistono. L’Europa è un gigante con i piedi d’argilla, paralizzato da divisioni interne e incapace di prendere decisioni rapide e coraggiose.
Mentre i media italiani sognano una nuova età dell’oro targata Draghi la realtà europea ci ricorda che i miracoli, in economia come in politica, non esistono. Il “Whatever it takes” che ha salvato l’euro non può salvare un’Europa che non vuole essere salvata.
Non c’è tempo per discutere di piani irrealizzabili, forse sarebbe il caso di chiedersi perché l’Europa si trova in questa situazione. E soprattutto se ha ancora senso parlare di un’Unione che di unito ha ben poco, se non la moneta. L’Ue che non riesce a essere unione per le evidenti differenze tra gli interessi particolari degli stati membri è un problema atavico che non si risolve con un piano Marshall.
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