(di Lorenzo Baldo, fonte)
Barcellona Pozzo di Gotto. Dichiarazioni shock. Sono quelle del pentito Giuseppe Campo, classe 1964, ex mafioso della provincia di Messina, rese all’avvocato Antonio Ingroia (che assieme a Fabio Repici difende la famiglia Manca). E’ stato lo stesso Ingroia ad averne fatto cenno ieri sera durante la commemorazione per il 13° anniversario della scomparsa di Attilio Manca. Dal canto suo l’ex pm non ha riferito il nominativo del collaboratore, né tanto meno i nomi dei principali protagonisti del racconto di Campo; nomi che, però, sono emersi alla prima lettura del relativo verbale. La morte del giovane medico siciliano? Nessun suicidio a base di droga: un vero e proprio omicidio a cui avrebbe partecipato, tra gli altri, il cugino dell’urologo barcellonese, Ugo Manca. L’integrazione ai verbali precedentemente resi da Campo alla Procura di Messina è stata depositata dai due avvocati alla Procura di Roma. Che ha disposto una proroga delle indagini modificando il fascicolo del caso Manca, contro ignoti, questa volta però sotto la dicitura “omicidio”.
Era stato lo stesso Campo, nel settembre del 2016, a scrivere una lettera all’ex pm Ingroia manifestandogli l’intenzione di voler approfondire quanto di sua conoscenza su questo caso. Dopo aver ricevuto la missiva, il legale dei Manca si era quindi recato presso la località segreta dove Campo è detenuto per scontare una pena definitiva per reati precedenti la sua collaborazione (associazione mafiosa, estorsioni, rapine, traffico di stupefacenti) e aveva verbalizzato le sue affermazioni. A dir poco agghiaccianti.
Il (mancato) killer
L’indicazione che il decesso di un medico di 34 anni, in piena salute, sarebbe in realtà un omicidio, giunge questa volta da colui che a suo dire sarebbe stato incaricato di sparare ad Attilio Manca. Un progetto di morte che si sarebbe dovuto realizzare nel mese di dicembre 2003 e che invece sarebbe stato bloccato: la morte del dott. Manca sarebbe dovuta sembrare un suicidio, quindi niente armi. Il racconto diGiuseppe Campo inizia con il suo incontro con Umberto Beneduce (indicato da alcuni rapporti di polizia come contiguo ad ambienti mafiosi barcellonesi, condannato in primo grado per droga nel maxi processo “Mare Nostrum” assieme al cugino di Attilio Manca, Ugo, entrambi assolti in via definitiva, ndr) avvenuto su sollecitazione di un suo amico. Campo riferisce quindi che Umberto Beneduce gli avrebbe chiesto di sparare al giovane urologo e che lui stesso non avrebbe osato replicare pur non avendo mai ammazzato in vita sua. Il collaboratore spiega inoltre che successivamente, tra la fine di febbraio e l’inizio di marzo 2004, il suo amico lo avrebbe ricontattato per confidargli che l’omicidio Manca non era più necessario in quanto era già stato commesso fuori dalla Sicilia. L’amico gli avrebbe specificato che la ragione di quella uccisione era legata al fatto che Attilio aveva curato Bernardo Provenzano che, tra l’altro, a suo tempo, si sarebbe nascosto nel barcellonese. Il sodale di Campo gli avrebbe inoltre confidato che ad uccidere Attilio a Viterbo sarebbe stato il mafioso Carmelo Di Pasquale (cognato del boss di Terme Vigliatore Carmelo Vito Foti) assieme ad Ugo Manca e ad un’altra persona di cui non ricordava il nome.
Per quanto riguarda i personaggi citati nelle dichiarazioni del pentito bisogna evidenziare alcuni aspetti: Carmelo Di Pasquale è stato ucciso nel 2009 in un agguato mafioso, dell’amico di Campo (individuato dagli investigatori) non si hanno notizie, così come non si hanno elementi sulla terza persona coinvolta nell’assassinio di Attilio; su Umberto Beneduce non risultano attuali condanne per mafia, e infine Ugo Manca, mai indagato per omicidio, e mai condannato per mafia, ha sempre negato qualsiasi coinvolgimento nella morte del cugino.
I verbali
“Andai a Barcellona Pozzo di Gotto – dichiara Campo ad Ingroia –, a casa del Beneduce Umberto, e poi andammo in un bar nelle vicinanze, ci sedemmo in un tavolo all’aperto assieme a (omissis), e qui Beneduce mi propose di commettere un omicidio”. Inizia così il racconto di quella giornata che cambiò la vita all’ex mafioso messinese. “Avrei dovuto uccidere un personaggio che non era della malavita e perciò Beneduce mi tranquillizzò dicendomi che non ci poteva essere ‘reazione’ a quell’omicidio da ambienti criminali. Mi disse che era un medico, e se mi sentivo di fargli quel favore, sarei diventato ‘uno di loro’. In verità, lì per lì, ragionai molto e mi ponevo fra me e me molte domande: perché a Barcellona, pur avendo molti killer a disposizione, Beneduce chiedeva proprio a me, che non avevo mai ucciso nessuno? Nel frattempo, acconsentivo apparentemente, ma pensavo che non eravamo in quella confidenza tale per chiedere a me di commettere un omicidio per lui; non poteva conoscermi così bene da affidarmi una cosa del genere; pensai mi stessero mettendo alla prova; e però mai ho pensato di aderire ed accettare quel progetto”. L’avvocato Ingroia chiede maggiori dettagli su cosa gli fosse stato riferito in merito al luogo e al progetto di esecuzione di quell’omicidio. Lo stesso Campo riferisce che Beneduce gli disse “che quel personaggio da uccidere poteva ‘dare fastidio a livello processuale’. Non chiesi altro, e feci capire di accettare la proposta”. Secondo la ricostruzione del pentito, a quel punto Beneduce gli spiega che gli avrebbe fornito l’arma e una moto. “(omissis) – prosegue il pentito –, che era presente, seppur non richiesto in quella sede di commettere il fatto, si offrì di guidare la moto, e si dimostrò ben disposto a collaborare. Ci saremmo dovuti vedere dopo circa una settimana, una domenica. Preciso che eravamo a dicembre 2003. Mi avrebbero dato la foto ed i dettagli per individuare la vittima”.
Il nuovo rendez-vous
“Prima di andare al nuovo appuntamento – specifica Campo –, mi incontrai con (omissis), a quell’epoca mio compare e molto amico, e gli confidai ciò che stava avvenendo. (omissis) mi consigliò di non accettare, perché secondo lui si trattava di una ‘trappola’, vista la irritualità di quella richiesta rivolta a me. Probabilmente stavo già dando fastidio nella gerarchia criminale. A quel nuovo incontro con Beneduce, questi mi disse che per ora il ‘lavoro’ era sospeso; e aggiunse – avanti al fratello Fabio Beneduce – che si doveva attendere. Mi avrebbero ricontattato più in là. Di quel fatto non parlai più con nessuno”.
Contrordine: Attilio è già stato ucciso
La verbalizzazione entra nel vivo, Campo racconta di essere stato informato che quel progetto omicidiario era stato abortito: Attilio è già stato ammazzato. “A fine febbraio-primi di marzo 2004 (omissis) mi disse che il medico era già stato ucciso, e perciò non era più necessario il mio aiuto. Mi raccontò che il medico era stato ucciso a casa sua a Viterbo, e che dell’omicidio si erano occupati il cugino Ugo Manca, Carmelo De Pasquale, ed una terza persona di cui non ricordo il nome, aggiungendo che lo avevano eseguito ‘senza fare rumore’. Rimasi stupito, e (omissis) mi spiegò che era il medico che aveva curato ‘Binnu’, e cioé Bernardo Provenzano, che all’epoca si diceva fosse nascosto nel barcellonese, e che perciò il medico ‘se lo erano portato’ fino in Francia”.
La scelta
Prima di concludere, Ingroia intende esplorare le motivazioni di questo pentimento. Cosa le fece prendere coscienza?, chiede l’ex pm. “Il fatto che avrei dovuto uccidere io Attilio Manca – replica asciutto Giuseppe Campo –, e che a parole avevo accettato l’incarico; ormai ero uno di quelli che prima o poi avrebbe dovuto fare quel ‘salto di qualità’ ed assunzione di responsabilità”.
“Questa cosa fu un campanello di allarme che era ora di fermarsi finché non era troppo tardi?”, insiste Ingroia. “Esatto – replica Campo –, ed il 31 marzo 2004 iniziai a collaborare”. Il legale dei Manca lo incalza chiedendogli se di recente sia stato sentito su questi fatti dalla Magistratura. “Sì; ogni tanto, vedendo le trasmissioni ad esempio su Rai 3, pensavo a quella situazione (la morte di Attilio Manca, ndr) e però non volevo tornare su quel che feci all’epoca; dal mio punto di vista potrei considerarmi una vittima io stesso; se non avessi collaborato, avrei potuto finire in galera, ammazzato oppure ancora pieno di soldi; in ogni caso ci avrei guadagnato rispetto alla condizione di collaboratore. (…) Nel 2013 mi hanno arrestato per le cose che ho confessato io e mi hanno condannato a circa 20 anni”. Poi Campo si ferma un attimo e si domanda amaramente: “In fondo, a distanza di 10 anni e più, possibile che non si arrivi alla verità su Manca? Allora decisi di scrivere a lei ed ai magistrati”.
L’appello alla Procura di Roma
L’attenzione si sposta ora verso la Procura capitolina diretta da Giuseppe Pignatone titolare del fascicolo sul caso Manca (nelle mani del procuratore aggiunto Prestipino e del sostituto Palaia). I magistrati romani dovranno vagliare i riscontri delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia che associano la morte di Attilio Manca ad un omicidio dietro il quale si muovono servizi segreti, massoneria e quella rete di protezione “istituzionale” eretta attorno a Provenzano. Tornano in mente le parole dell’ex mafioso di Ficarazzi, Stefano Lo Verso che riferisce ai magistrati di sperare che quanto da lui dichiarato “possa essere utile per risolvere l’evento dell’urologo Manca”. Ma c’è anche l’ex capo del clan dei Casalesi, Giuseppe Setola, che, però, dopo aver inizialmente rivelato quanto aveva appreso dal boss Giuseppe Gullotti decide inspiegabilmente di ritrattare. Lo scenario a tinte fosche dipinto dall’ex capo dell’ala militare di Cosa Nostra barcellonese, Carmelo D’Amico, è quello che indubbiamente ha squarciato il velo su un caso che si collega palesemente all’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia.
L’appello accorato della madre, del padre e del fratello di Attilio Manca rimbalza nuovamente sul palazzo di giustizia di Roma: investigate, cercate i riscontri, abbiate il coraggio di mettere in discussione tesi precostituite, contrassegnate da pregiudizi, che impediscono di arrivare alla verità. Quella verità che spetta di diritto a due anziani genitori prima di morire.