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Giulio Cavalli

Le categorie e i tipi umani cioè io

1giostraC’è qualcosa che mi sfugge nella lettura della politica che si sta propagando in questi ultimi anni. Fermi tutti: non voglio parlare di crisi di governo di soluzioni salvifiche o di alleanze per un nuovo centrosinistra. Niente di tutto questo. Parlo proprio di politica, quella con la p maiuscola che sta nei modi (e nei mondi) dello stare insieme, nel come ci guardiamo negli occhi, ci stringiamo la mano, interpretiamo il nostro essere colleghi, compagni, amici, amati o conoscenti.

Quando ho cominciato a fare politica (che poi seguendo il mio incipit si potrebbe dire “mai” nel senso di “da sempre”) mi sono accorto di un meccanismo perverso che ammalia tutte le classi intellettuali senza distinzioni di reddito o di istruzione:  la politica si può fare se eletti e una volta eletti si entra in un maleodorante pentolone da cui non ci si riesce a sciacquare nemmeno per tutti gli anni a venire. E non è un caso che quando si parla di impegno politico si usino diversi verbi di spostamento (scendere, salire, buttarsi) dando per scontato che la politica si trovi comunque “altrove”, in luoghi diversi secondo i partiti e le inclinazioni ma comunque non qui. Dove “qui” sta a significare il pascolo delle persone normali e i politici quindi diventano merce rara da riverire o vaffanculare a seconda dei propri umori; l’importante è che il sentimento sia comunque iperbolico.

Ecco, io non so se veramente il politico più lucido di tutti questi anni ad esempio non sia stato Don Ciotti, o forse il Ministro della Salute Internazionale non sia stato Gino Strada e Pasolini alla Coesione Sociale e Fo alla Cultura più di quanto non abbiano fatto molti altri ministri di cui non ricordiamo il nome se non è rimasto attaccato a qualche riforma da macelleria sociale. Come se il campo politico (o meglio sarebbe dire dei “condizionamenti sociali e culturali” che sono poi politica) si sia versato (ed è un bene) dappertutto e tutti continuino a fissare un bicchiere pressoché vuoto con solo i fondi di qualcosa che è Stato.

Quando ho cominciato a fare teatro, nella torbida provincia di Lodi per intendersi, in molti mi dicevano che “non era cosa”, che bisognava stare abbottonati senza lanciarsi in sfide senza prospettive (e senza reddito, perché che con la Cultura non si mangia l’ha detto uno ma lo pensano in molti). Quando la nostra sbrindellata compagnia ha cominciato a fare spettacoli proprio a forma di spettacoli che ormai non si potevano più annoverare tra le recite ci hanno detto che avevamo avuto fortuna e le conoscenze giuste. Così ci avevano detto. E tutti noi a chiedersi se veramente non fossimo riusciti a costruire un enorme assalto al mondo dello spettacolo lodigiano con macchiavellica incoscienza, roba da starci in analisi per qualche decina d’anni, per dire.

Poi abbiamo iniziato a costruire spettacoli “di teatro civile” (sì, lo so, civile e incivile sono cartellini buoni per un’esposizione fieristica ma volevo semplificare perché mi sta uscendo l’articolo più lungo degli ultimi mesi e mi chiedo sempre se viene la voglia di leggerlo tutto, un articolo del genere) e ci hanno detto che volevamo fare politica. Proprio così: troppo politicizzato, mi dicevano, anzi peggio, troppo comunista, barbone e capelli lunghi e tutte quelle cose lì che si dicono a quelli comunisti con la barba e i capelli lunghi che scrivono qualcosa che abbia cognomi di persone vere con condanne vere. Non si stava nemmeno male a fare il politicizzato: ti chiamano a fare il teatrante ma ti trattano da compagno come dovrebbero trattarsi i compagni sapendo che non ti sarebbe mai venuto in mente di prendere una posizione in un Congresso. Un compagno ma non troppo, nei luoghi e nei modi giusti, di quei compagni messi in condizione di non potere nemmeno sbagliare, direi.

Poi ci siamo detti che è una cosa strana questa cosa di dovere fare il politicizzato figlioccio dei politici (quelli della lettura propagata in questi ultimi anni) e alla fine non essere quasi mai d’accordo con loro, e fare la corrente di minoranza da un palcoscenico dietro le quinte non è proprio cosa, troppo fuori scena, troppo oscena. Facciamo politica, ci siamo detti. No, non farla, a ciascuno il suo, mi hanno risposto. Ed è una delle risposte che mi ha fatto arrabbiare di più di tutti questi ultimi anni. Poi siamo stati eletti. E’ stato eletto perché ha giocato la carte del vivere sotto scorta, mi dicevano.

Perché in tutto questo enorme catalogo di tipi che mi sono ritrovato ad attraversare c’è anche il fenomenale uomo scortato che in questa Italietta di stomaco e bocca piuttosto che cuore e cervello è una garanzia. Ma di questo ne ho già scritto e detto fin troppo e non tocca tornarci su. Per chi vuole informarsi c’è in giro parecchio materiale.

Ora succede anche che mi capiti (che fortuna) di scrivere. Scrivere proprio a forma di scrivere nel senso di libri a forma di libri. Quando per la prima volta avevo confessato di sognare un libro mi hanno guardato come mi hanno guardato quella volta lì che dicevo di volere fare teatro.

Poi è successo che nella vita si fanno delle scelte e ogni tanto la famiglia si declini al plurale. E allora diventano famiglie e diventa una scelta che in questo cattolicissimo Paese di preti troppo banchieri e puttane troppo parlamentari un padre che si separa è sempre un padre dissennato. Figurati poi se il letteratissimo, scortatissimo, politicizzatissimo decide di accompagnarsi con una donna di un’altra specie: vergogna, vergogna, una delusione, uno spreco, tutti uguali (e non si capisce mai chi a chi) oppure come scriveva De Gregori e poi tutti pensarono dietro i cappelli lo sposo e’ impazzito oppure ha bevuto. Anche su questo di materiale ce n’è fin troppo in giro ma non lesinerò una mia spiegazione una volta per tutte nei prossimi giorni, perché il sassolino voglio tenerlo in mano per qualche minuto anch’io.

Ora siamo qui, nella terra di mezzo come direbbe l’amico Fois, e in fondo ci sembra di essere nel luogo dove siamo sempre stati. Ma comincio a trovare noioso questo accalappiacani che vorrebbe insegnarci i tipi, le etichette e le normomodalità. Facciamo la nostra parte. In tutte le parti in cui ci è possibile dire qualcosa.

Se vi disturba, beh, se vi disturba allora funziona.

Niente sbaraccamenti

La rovina non sta nell’errore che commetti, ma nella scusa con cui cerchi di nasconderlo. (Massimo Gramellini, L’ultima riga delle favole, 2010)

19091_19091C’è in giro una certa voglia di sbarazzo. Le parole sono importanti (diceva quel tale che chiedeva di dire qualcosa di sinistra) e questa delusione che si spegne nella voglia di sbarazzarsene è un irresponsabile “fuori tutto” piuttosto che un sano trasloco per trovare luoghi e temi per una nuova slanciata connessione. Il tema non è da poco: ogni volta che un minuto dopo le elezioni si passa all’idea della smobilitazione si inquinano le mobilitazioni degli ultimi anni e si mina la credibilità delle successive. La responsabilità di questo momento (anche e soprattutto per SEL, qui in Lombardia) è la credibilità di ciò che abbiamo detto, di ciò che vogliamo fare (perché la politica è diffusa, un po’ come la sinistra) e dell’analisi dei nostri errori.

Diciamocelo, per favore: abbiamo perso. Proviamo anche a ripetercelo se serve per fissare il punto e renderlo collettivo. Abbiamo lavorato per una vittoria di Ambrosoli che aprisse scenari importanti e ci ritroviamo con Maroni governatore e lo stallo patafisico in Parlamento. Volevamo la discontinuità e ci terremo Formigoni come commissario EXPO e padre putativo di una garanzia confermata alle sue lobby ed ai suoi a mci. Abbiamo perso perché volevamo un’altra Lombardia, un’altra sanità, un’altra etica applicata e un’altra visione del futuro, prima ancora di avere perso per non essere entrati nel Consiglio Regionale. Partiamo da qui e avviamo l’analisi, seriamente.

Abbiamo chiesto ad Ambrosoli di essere più appuntito ma siamo stati anche noi punte spuntate.

Abbiamo chiesto discontinuità ma non abbiamo accompagnato la narrazione delle nefandezze (perché sono vergognose nefandezze, lo sappiamo vero?) degli altri con le nostre alternative (magari in modo chiaro, composto e fruibile).

Abbiamo messo in campo una brutta (posso dirlo?) competizione tra politica, civismo, politici prestati al civismo e civili prestati alla politica, avremmo dovuto competere su lavoro, cultura, ambiente, trasporti, piano cave, servizi sociali, artigianato, imprenditoria e terzo settore.

Abbiamo pensato (come sempre negli ultimi anni) Milano caput mundi mentre la Lombardia si snoda tra le valli, le pianure difficili e le montagne. Abbiamo pensato che le “menti” della politica milanese (alcune poi con un po’ di naftalina, posso dirlo?) fossero i luminari della visione d’insieme senza tenere conto dei limiti anagrafici, geografici e di appartenenza (posso dirlo?).

Abbiamo pensato che Maroni fosse invotabile  a prescindere, senza ascoltare cosa si diceva nei mercati.

Abbiamo voluto dare un valore politico al Trota e alla Minetti ripercorrendo lo stesso errore di chi ha voluto dargli dignità politica ponendoli come tema quotidiano mentre la nostra gente fatica già alla terza settimana del mese.

Abbiamo parlato dei diritti dei gay (giustamente) e troppo poco dei diritti degli esodati, delle famiglie quasi a fine mutuo che rischiano il pignoramento dei risparmi di tutta una vita, dei single, delle mamme costrette a scegliere tra un figlio o un lavoro, degli immigrati truffati, dei genitori separati, dei disoccupati e di tutti coloro che pagano i diritti come se fossero servizi o si trovano ad elemosinare riconoscenza politica.

Siamo stati fieri e boriosi dei nostri pregiudizi, convinti che fossero un dovere morale e forse ci siamo dimenticati di articolarli.

Ma non si sbaracca. No. Il lavoro è tanto.

Ed essere incluso in una fascinazione nazionale è deprimente.

televisione“Ho l’impressione che la televisione sia una persona che,argutamente travestita da macchina con pulsanti, da ordigno con valvole ed antenne, tenti di entrare in casa mia. Di questa persona diffido: la sospetto garrula, emotivamente instabile, moralmente dubbia, non immune da una punta di isterismo,alternativamente lacrimosa e ridanciana; soprattutto l’apparecchio televisivo mi pare vittima di un complesso, che definirei coazione a sedurre. Ed essere incluso in una fascinazione nazionale è deprimente.”

(Giorgio Manganelli nel libro con uno dei titoli più belli che si potesse immaginare: Improvvisi per macchina da scrivere)

 

Nessun uomo oserà mai scriverlo. Nessun uomo potrebbe scriverlo, anche se osasse.

PoebirdSe qualche ambizioso volesse rivoluzionare, in un sol colpo, tutto il mondo del pensiero, dell’opinione e del sentimento umano, ha la sua occasione − la strada che conduce a una gloria imperitura gli è aperta davanti, diritta e senza intralci. Tutto ciò che deve fare è scrivere e pubblicare un piccolissimo libro. Il titolo dovrà essere semplice − formato da poche parole senza pretese: “Il mio cuore messo a nudo.” Ma poi questo piccolo libro dovrà tenere fede al titolo.

Ora, non è strano che, con la rabbiosa sete di notorietà che contraddistingue tanti uomini − così tanti, cui non importa nulla di cosa si possa pensare di loro dopo morti, non si sia trovato nessuno che abbia il coraggio di scrivere questo libriccino? Scrivere, dico. Ci sono diecimila persone che, se il libro fosse scritto, riderebbero della possibilità di essere disturbati dalla sua pubblicazione nel corso della loro vita, e che neppure concepirebbero di doversi opporre alla sua pubblicazione dopo la loro morte. Ma scriverlo − ecco la difficoltà. Nessun uomo osa scriverlo. Nessun uomo oserà mai scriverlo. Nessun uomo potrebbe scriverlo, anche se osasse. La carta si raggriccerebbe e si consumerebbe a ogni tocco della sua penna infocata.

(Edgar Allan Poe, Boston 1809 – Baltimora 1849, Il libro impossibile da Marginalia, 1844-1849)

Mi servirebbe sapere

Quando ci avanza un secondo, senza troppo disturbo, cosa abbiamo da dire noi a sinistra che abbiamo perso senza nemmeno arrivare primi. Se vogliamo essere sempre così allegramente diffusi o almeno ci interessa centrare un punto.

E quando. E come. Questo spazio è la nostra discussione, aperta.

 

Sarò strano

Schermata 2013-03-02 alle 20.58.52Ma in una giornata come questa, con un Governo in bilico sulle decisione di troppo poche persone (collegate chissà come con i loro eletti e i loro elettori), con una situazione di lavoro e impresa che sta pagando (se ci riesce) questa terra di mezzo come l’ennesima tappa in salita di una crisi che non vede nemmeno l’ombra della speranza dell’arrivo, con un tasso di disoccupazione e produzione che ricorda baratri di altri tempi, con l’ennesimo femminicidio quotidiano, con Berlusconi che definisce (per l’ennesima volta, ma non abituiamoci) la magistratura “un cancro” e con tutto il resto, ecco, in una giornata come questa che il dibattito politico tra Grillo, Bersani e Renzi sia sul finanziamento dei partiti e i tagli alla casta mi fa pensare che forse sarò strano io e che l’agenda della politica segue meccanismi redazionali piuttosto che di responsabilità. Aspettando magari una parola anche dalla nostra parte, a sinistra.

Cosa ci siamo persi durante le elezioni: la condanna di Pepè Flachi

carabinieri_perquisizione_giorno--400x300La vicenda la ricuce con cura il bravo Massimiliano Perna:

Pepè Flachi, il boss della Comasina (un quartiere di Milano), uno dei capi ‘ndrangheta storici della Lombardia, è stato condannato dal tribunale di Milano a venti anni e quattro mesi di reclusione per estorsione, smaltimento illecito di rifiuti e associazione a delinquere di stampo mafioso. Alla moglie del boss, i magistrati hanno anche sequestrato una polizza vita che prevedeva un premio di 25 mila euro l’anno.

Una condanna pesante per uno dei capiclan più influenti, arrestato due anni fa insieme ad altre 34 persone nell’ambito di un’operazione diretta a sgominare il potere delle ‘ndrine in Lombardia. Un potere ramificato che aveva portato il clan Flachi a controllare diversi settori dell’economia lombarda, a partire dalla movimentazione terra e dalla gestione della security dei locali e dei negozi in metropolitana, fino al ramo delle estorsioni ai danni delle paninoteche ambulanti. Un impero che è finito nel mirino dei giudici milanesi, che, nella sentenza di condanna (che ha riguardato il boss e altre 15 persone), hanno perfino previsto per Flachi e per altri affiliati la misura dell’assegnazione ad una colonia agricola per 3 anni dopo la fine della pena.

Una sentenza esemplare, in un momento in cui in Lombardia si afferma nuovamente il centrodestra, seppur con una guida diversa da quella che ha colonizzato il Pirellone negli ultimi 17 anni. La Lega Nord e il Pdl, dunque, nonostante i ripetuti scandali e la fine della legislatura per via del caso Zambetti e del voto di scambio con le ‘ndrine, sono di nuovo al potere, insieme, compatti. La politica: l’elemento cruciale con cui si dovrebbe dar seguito all’azione di pulizia che la magistratura, da qualche anno anche in Lombardia e nel resto del Nord, cerca di portare a compimento con sacrificio e dedizione.

Una politica che anche Pepè Flachi e i suoi guardavano con grande interesse, se è vero che in occasione delle scorse elezioni regionali avevano deciso di sostenere la candidata del Pdl, Antonella Maiolo (non indagata per mafia, ma per peculato nell’inchiesta sui rimborsi in Regione), poi eletta. Chiaramente sono indagini, voci, ipotesi, ma ci sono anche i fatti che ci raccontano che in questa regione il controllo della ‘ndrangheta sull’economia, sulla politica e sui meccanismi del consenso è elevato, radicato, forte. Persino l’omertà, caratteristica che per anni è stata vergognosamente etichettata come patrimonio “etnico” dei meridionali, è radicata e funzionale al mantenimento del controllo.

Lo dimostrano le reticenze, le complicità nascoste, ma anche le dichiarazioni a verbale ritrattate per paura da ben 23 testimoni nel corso delle indagini che hanno portato alla nuova condanna di Flachi (adesso ai domiciliari per via del suo stato di salute). La memoria, il senso delle istituzioni, la legalità sono utopia anche in questa regione che tanto lontana  si sente da certe nefandezze. Lo snobismo culturale dei milanesi e dei lùmbard duri e puri si frantuma nei risultati di un voto che in Lombardia ha conservato la stessa fisionomia del potere. Dopo tutti gli scandali e la sfacciata gestione Formigoni, il popolo lombardo ha deciso di non cambiare, di mantenere, di riproporre. Probabilmente perché il voto di scambio è forte anche qui, è entrato nelle vene di una democrazia drogata dalle convenienze, dagli affari che fruttano, dalle mastodontiche brame di chi è pronto a tuffarsi nel pentolone d’oro e fango dell’Expò.

 

Beppe Grillo deposita il marchio “DIO”

Anzi, ci prova con la domanda n. GE2003C000100 (che trovate qui, vedere per credere sul sito dell’Ufficio Brevetti).

L’azienda “DIO” dovrebbe occuparsi di:

Codice Elenco prodotti o servizi
44 servizi medici;servizi per l’agricoltura,orticultura,silvicultura
45 servizi personali e sociali per il soddisfacimento di bisogni personal i

Schermata 2013-03-02 alle 14.46.40

Gli altri ripensano il lavoro. E noi no.

Albino_Lucatello_Mondine_al_lavoroQuando nel 2009 la GlaxoSmithKline annunciò che avrebbe chiuso il suo impianto a Sligo, in Irlanda nord-occidentale, i dipendenti rimasero per un po’ sotto choc. Erano increduli, mai avrebbero pensato che sarebbe toccato a loro. Fu un trauma simile a migliaia di altri che in questi anni si sono propagati fra i Paesi colpiti dalla crisi del debito. 

Quello stabilimento farmaceutico esisteva dal 1975, quando fu aperto dal gruppo tedesco Stiefel, e niente di tutto quello che stava accadendo in Irlanda sembrava doverlo interessare così da vicino. I 180 operai e tecnici vedevano bene che l’economia nazionale si stava piegando sotto il peso della bolla immobiliare e bancaria, ma Sligo credeva di vivere in un altro pianeta. In fabbrica dominava l’idea che quel posto fosse troppo importante per essere toccato: un impianto tradizionale, una struttura paternalistica e con poche opportunità, ma se non altro un posto per la vita. Fino all’annuncio dei nuovi azionisti di Glaxo. 

Passano tre anni e ora la casa madre fa sapere che ha cambiato idea: Sligo non chiude, ma verrà riconvertita alla cosmetica. Nei tre anni fra i due annunci – dalla chiusura al rilancio – i dipendenti hanno affrontato una trasformazione emblematica di una certa Europa in recessione almeno quanto lo fu l’incapacità iniziale di capire cosa stava accadendo. La crisi poteva investire professionisti specializzati, non solo i manovali della porta accanto. A Sligo, i manager e gli addetti hanno deciso di non cedere facilmente. Si sono impegnati a incontrarsi ogni mese per fare il punto e discutere gli intoppi di produzione, per migliorare insieme. In poco più di due anni la quota di lotti difettosi è scesa dal 5% all’1,5%, l’assenteismo dal 4% al 2%, i casi di perdita di tempo in fabbrica dal 6 all’1%. La produttività è salita del 40%, ha riconosciuto la Glaxo. Prima ancora che l’Irlanda uscisse dalla recessione, tutti i posti erano salvi.

Quella di Sligo è una storia a lieto fine di un’Europa in viaggio dal mondo di prima, quando il debito copriva ogni inefficienza, a un sistema per molti versi più duro: capace però di creare lavoro, competenze, tenuta delle imprese su basi più sane. Non tutte le vicende hanno lo stesso lieto fine, ma alcune contengono semi esportabili anche in altri Paesi colpiti dal contagio. Sempre in Irlanda, nel settore dell’ottica alcune imprese hanno ridotto l’orario e la paga fino al 40%. Per anni si è lavorato solo tre giorni la settimana, ma tutti. Nessun posto è andato perso e il ritorno della domanda dall’estero ha riportato gli addetti verso salario completo e a tempo pieno. Anche il governo di Dublino ha offerto un’idea che a molti in Italia parrebbe lunare: i disoccupati vengono mandati in fabbrica o negli uffici a fare «tirocinio» – a lavorare – finanziati dall’assegno di mobilità del governo più un indennizzo di 50 euro al mese. Chi ha perso il lavoro non perde contatto con il mondo produttivo, mentre le imprese integrano manodopera gratis e aumentano così la competitività. 

Non che in Italia non esista qualcosa di simile, ma si consuma nell’illegalità e nella corruzione. Nel Mezzogiorno non è raro che certi sindacalisti chiedano all’imprenditore il 10-15% del costo dell’ultima busta paga di un cassaintegrato, che resta in azienda a produrre, in cambio della garanzia che non ci sarà ispezione dell’ufficio del lavoro.

Dal Corriere.

Le chiacchere stanno a zero

bersani-grillo-120521210519_bigOggi Patrick Fogli riflette e rilancia:

Le chiacchiere, come dicevo qualche giorno fa, stanno a zero anche e soprattutto per lui.
Se quello che conta sono le proposte (lo dice ogni due per tre) allora ci sono già negli otto punti, ne il PD nè il M5S hanno bisogno di Berlusconi. I voti ci sono.
Di più, sia il PD che il M5S hanno l’occasione di chiudere politicamente la stagione di SB in Italia. Basta una legge sul conflitto di interessi, per esempio. O sull’incandidabilità dei condannati in primo grado. Non una legge contra personam, ma una legge ad iustitiam.

E ancora di più: un Parlamento come questo ha la possibilità di votare secondo ragione quando – e capiterà – qualche Procura chiederà di agire nei confronti di Berlusconi & C. Archiviare definitivamente una stagione. Di fatto, anche se in maniera confusa, il voto lo chiede, lo urla.
Si può ascoltare la richiesta (qualcuno = tutti) o tapparsi le orecchie (qualcuno / tutti)

E’ troppo facile votare le proposte che ti piacciono e contemporaneamente poter urlare all’inciucio PD/PDL fino alla prossima campagna elettorale.
Tra l’altro, se ai montiani l’idea Bersani piacesse, a Grillo basterebbe uscire dall’aula al Senato. Cambiare le cose vuol dire anche prendersi la responsabilità di farlo.
Altrimenti (per usare il suo stesso linguaggio) è solo una paraculata e vale la pena dare credito all’idea di Emiliano. Il governo lo fa Grillo e gli altri decidono se votarlo.