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Giulio Cavalli

Una legge contro l’abusivismo edilizio

L’ottimo lavoro di Legambiente:
abbattiamolostriscioneStop a mattone selvaggio

I numeri dell’abusivismo edilizio
e le proposte per il ripristino della legalità

Campagna di Legambiente contro l’edilizia illegale

Legambiente, 18 dicembre 2012

1. L’abusivismo edilizio in Italia

Il fenomeno dell’abusivismo edilizio, che ha prosperato indisturbato per decenni, è un’autentica piaga del nostro Paese. Una ferita continuamente riaperta dalle promesse di condono edilizio. Ma a promuovere il nuovo cemento illegale è un altro “incentivo” micidiale: la quasi matematica certezza che l’immobile abusivo non verrà abbattuto.

Le ordinanze di demolizione effettivamente eseguite, anche quando sono previste da sentenze della magistratura diventate definitive, sono l’eccezione, non la regola. E il mattone fuorilegge continua a prosperare, devastando il paesaggio, alimentando una vera e propria filiera del cemento illegale (dalle cave agli impianti di calcestruzzo fino alle imprese edili), arricchendo in molti territori le casse dei clan Non basta. Nei cantieri del mattone illegale il lavoro nero è la regola, la sicurezza semplicemente non esiste, i materiali utilizzati sono di pessima qualità.

La legalità e il rispetto delle regole diventano, così un “fastidioso” problema, risolto con la rimozione delle responsabilità e la negazione delle caratteristiche ormai esclusivamente speculative del fenomeno dell’abusivismo edilizio. E nelle rare occasioni in cui qualche magistrato o qualche sindaco coraggioso decidono di dare corso all’obbligo, previsto per legge, della demolizione, la casa da abbattere è sempre abitata da qualche “bisognoso”, che merita proteste e manifestazioni di solidarietà da parte di rappresentati politici (spesso senza distinzioni di schieramento) o autorità ecclesiastiche.

In questo clima, inaccettabile per un Paese civile, solo nel 2011 l’industria del mattone illegale ha messo a segno 25.800 nuovi abusi, tra case ex novo e significativi ampliamenti di volumetria in immobili preesistenti. Una cifra che rappresenta il 13,4% del totale delle nuove costruzioni. Significa che oltre una nuova casa su dieci di quelle sorte nell’ultimo anno è fuorilegge. Il “processo di accumulazione” nel corso del tempo è micidiale. Tra il 2003, ultimo anno in cui era possibile presentare la domanda di condono edilizio, e il 2011, infatti, il Cresme ha censito la cifra record di 258 mila case abusive, per un giro di affari illegale, basato sui numeri e sui valori immobiliari medi, che Legambiente calcola in circa 18,3 miliardi di euro.

A questa colata di cemento fuorilegge si deve sommare il vecchio abusivismo, quello costruito prima del 2003 e non condonabile, che fa brutta mostra di se lungo la penisola, molto spesso sulle coste, nelle zone di maggiore pregio paesaggistico, nelle aree più fragili del territorio dove esistono vincoli precisi legati al dissesto idrogeologico. Dove non si può edificare perché la terra frana e i fiumi esondano, inghiottendo tutto quello che trovano sulla loro strada, case e abitanti compresi.

A fronte di questa realtà, le demolizioni effettivamente eseguite nei comuni capoluogo di provincia che hanno risposto al questionario di Legambiente (realizzato nell’ambito della ricerca Ecosistema urbano 2012) sono state, dal 2000 al 2011, appena 4.956, ovvero il 10,6% delle 46.760 ordinanze emesse. Il provvedimento, insomma, arriva ma la possibilità di farla franca è comunque elevatissima.

La città con il maggior numero di ordinanze di demolizione emesse negli ultimi undici anni è Napoli, con 16.837 provvedimenti, che però riesce a portarne a termine solo 710, pari al 4% delle ordinanze. Va ancora peggio a Reggio Calabria (2.989) e Palermo (1.943), dove secondo i dati forniti dalle amministrazioni comunali non risulta eseguito neppure un abbattimento. Tra i comuni virtuosi vale la pena segnalare Prato (957 demolizioni effettuate, +111,5% rispetto a quelle emesse nello stesso periodo per l’esecuzione di provvedimenti relativi ad anni precedenti) e Genova, con 498 abbattimenti (25,7%).

Accanto al “buco nero” delle demolizioni, i risultati della ricerca evidenziano l’esistenza di una vera e propria eredità avvelenata dei precedenti condoni edilizi, rappresentata da centinaia di migliaia di richieste inevase, presentate in occasione delle leggi 47/1985, 724/1994 e 326/2003. Complessivamente le domande presentate sono state 2.040.544, quelle respinte 27.859, quelle ancora in attesa di una risposta ben 844.097 pari al 41,37% del totale, il grosso delle quali risale addirittura al primo condono, quello del 1985. Il primo comune come numero di domande è di gran lunga quello di Roma, con oltre 596.000 richieste di cui circa 262.000 ancora senza risposta.

In perenne attesa che queste domande vengano esaminate, molti immobili restano nella disponibilità dei loro proprietari in virtù di una anomala classificazione, quella di case “sanabili”, per il solo fatto che è stata presentata la richiesta di condono, indifferentemente dal fatto che sia accoglibile o meno. In questo modo sono proposte sul mercato immobiliare, per essere affittate o, addirittura, vendute case che potrebbero, invece, essere destinate all’abbattimento.

E’ quanto rischia di accadere anche con un altro “fronte”, quello delle cosiddette “case fantasma”. Nel 2010 l’allora governo Berlusconi inserì nella Finanziaria bis una norma sull’emersione degli immobili sconosciuti al catasto, incaricando l’Agenzia del territorio di censire il patrimonio edilizio “fantasma”. Si tratta di oltre 1.200.000 immobili censiti e il governo Monti a marzo del 2012 ha dato alla stampa cifre significative circa le somme che tutte queste proprietà immobiliari porteranno nelle casse pubbliche: tra Stato e Comuni dovrebbero entrare quasi 500 milioni di euro. Fatta la stima degli introiti, come spesso accade, è iniziato un balletto di cifre, di distinguo e precisazioni. Ma il punto è un altro: dentro quel patrimonio immobiliare ci sono anche tutte le case abusive. Quindi illegali e non tassabili, tutt’al più da abbattere. Il governo ha stabilito che gli accertamenti di conformità urbanistica toccano ai Comuni entro tempi stabiliti. Un auspicio, più che un richiamo alle responsabilità, che rischia di restare lettera morta. L’attività di verifica, infatti, in larga parte è ancora in corso oppure non è stata nemmeno avviata, mentre le cartelle esattoriali sono già partite.

Quella sull’emersione fiscale degli immobili non accatastati, insomma, è una legge che suscita più di una perplessità. Poche spiegazioni per un censimento che è stato presentato come un provvedimento di natura sostanzialmente tributaria. Simile a un minicondono, la legge ha consentito la regolarizzazione fiscale degli edifici non accatastati con forti sconti sugli arretrati: a quanti sono emersi spontaneamente, le multe per mancati pagamenti sono state ridotte di un terzo. Ma come si può pensare che si paghino le tasse su immobili che dovranno essere confiscati e demoliti? Evidentemente non si può. A meno che tutte le case autodenunciate non vengano considerate d’ora in poi oltre che fiscalmente in regola, anche conformi dal punto di vista urbanistico, ipotesi che sembra francamente azzardata.

Non bisogna mai dimenticare, peraltro, che ad alimentare il fenomeno dell’abusivismo edilizio è anche la connivenza delle pubbliche amministrazioni con la criminalità organizzata.
L’analisi dei decreti di scioglimento delle amministrazioni locali condizionate dalla mafia restituisce un dato inequivocabile: l’81% dei Comuni sciolti in Campania dal 1991 ad oggi, vede, tra le motivazioni, un diffuso abusivismo edilizio, casi ripetuti di speculazione immobiliare, pratiche di demolizione inevase. Il record va alla provincia di Napoli, con l’83% di Comuni commissariati anche per il mattone illegale, percentuale che scende al 77% per quelli in provincia di Caserta. In altri termini, oltre un milione di cittadini almeno una volta sono stati amministrati dalla camorra del cemento: un impasto di complicità tra clan e compiacenza di costruttori, uffici tecnici e politici. A Caserta, si legge nella nota del prefetto del 1991, l’abusivismo edilizio ha assunto dimensioni e gravità preoccupanti, è uno dei modi di riciclaggio del denaro da parte delle locali organizzazioni camorristiche e le costruzioni realizzate abusivamente e non censite sono centinaia. Il Comune omette di esercitare qualsiasi compito di vigilanza, accertamento e repressione. Stesso discorso a Boscoreale (Na), sciolto per due volte, nel 1998 e nel 2006, dove nel settore edilizio, ampiamente permeabile alle illecite interferenze della criminalità organizzata, è stato rilevato un significativo incremento di opere abusive “ricollegabile all’inerzia dell’ente nell’intraprendere azione di contrasto”. Idem a San Giuseppe Vesuviano, nel 2009 (con 1.154 abusi accertati nel periodo 2000-2008) risulta tra i territori della regione Campania maggiormente colpiti dall’abusivismo edilizio, la Prefettura denuncia “Una vera e propria “acquiescenza” dell’amministrazione comunale”.

2. Il “buco nero” delle demolizioni

Ardea sul litorale della provincia di Roma, Carini e Marsala in Sicilia, L’Ogliastra in Sardegna e le isole dell’arcipelago napoletano. Sono solo questi i posti in cui, i sindaci o le procure, hanno abbattuto edifici abusivi nel corso del 2011. Un risultato davvero sconsolante, se si pensa che si tratta in tutto di qualche decina di edifici abusivi sulla spiaggia.

Possiamo aggiungere qualche altro intervento nel corso del 2012, come quello avviato in autunno per la demolizione delle ville di Quarto Caldo, a San Felice Circeo, in provincia di Latina. Qui, dopo quasi quarant’anni dal sequestro che ha di fatto fermato le ville panoramiche allo stato di scheletri di cemento armato, sono stati abbattuti i primi due edifici dei dieci che compongono la lottizzazione abusiva del promontorio all’interno del Parco nazionale. Ma si tratta sempre di pochi e sporadici casi. La maggior parte di questi, stante la latitanza dei Comuni, avviene per ordine e intervento delle Procure della Repubblica.

Per contro, non sono mancate le ordinanze e i sequestri. A decine se ne contano, soprattutto nelle località balneari durante i mesi della stagione estiva, soprattutto in Puglia, in Calabria, in Campania, in Sicilia, dove la procura di Agrigento ha consegnato ai sindaci della provincia la lista degli immobili abusivi sul loro territorio intimandone le demolizioni e dove dopo oltre vent’anni il Comune di Realmonte ha finalmente deciso che l’ecomostro che sfregia la famosa spiaggia della Scala dei Turchi deve essere abbattuto.

Tuttavia il rapporto tra ordinanze ed esecuzioni è bassissimo. Lo rappresenta il dato rispetto alle città capoluogo di provincia riportato in tabella (72 Comuni su 104 intervistati): le demolizioni superano di poco il 10%. “Tra il dire e il fare”, dunque, spesso passano anni, sempre che al “fare”, ossia ad abbattere effettivamente gli immobili, ci si arrivi.

Ordinanze di demolizione e abbattimenti
nei Comuni capoluogo di provincia dal 2000 al 2011

Ordinanze

Demolizioni

Rapporto tra ordinanze ed esecuzioni

46.760

4.956

10,6%

Nota: si tratta delle sole ordinanze e demolizioni disposte dalla Pubblica amministrazione.

Fonte: Elaborazione Legambiente su dati dei Comuni capoluogo di provincia

La città con il maggior numero di ordinanze di demolizione emesse è Napoli, con 16.837 provvedimenti, che però riesce a portarne a termine solo 710, pari al 4%. A Reggio Calabria e Palermo, rispettivamente con 2.989 e 1.943 ordinanze, non risulta effettuato neppure un abbattimento. Il Comune più virtuoso sembra essere quello di Prato, dove le ordinanze eseguite dal 2000 al 2011 sono state ben 957 (un dato che tiene conto anche delle ordinanze adottate in precedenza; quelle emesse nello stesso periodo sono state, infatti, 876). Significativo anche il dato di Genova, con 498 demolizioni effettuate, pari al 25,7% delle ordinanze emesse.

3. I condoni dimenticati

Le pratiche di condono giacenti negli uffici tecnici dei Comuni italiani sono milioni. Riguardano non solo l’ultimo condono, quello del 2003, ma anche quello del 1994 e, addirittura, quello del 1985. In molti casi non si è nemmeno valutata la loro ammissibilità, così un impressionante numero di case abusive sopravvive grazie all’etichetta di “condonabile”, i proprietari ne dispongono senza problemi per il solo fatto di aver presentato la domanda di sanatoria e aver versato l’oblazione corrispondente.

Una situazione gravissima, a cui gli enti locali inadempienti devono essere obbligati a mettere mano, avviando l’esame preliminare delle richieste che consente di fare una scrematura importante, eliminando subito le pratiche inammissibili. Devono dunque: 1) eliminare le domande con documentazione incompleta (che per la legge del 1994 doveva essere prodotta entro tre mesi di tempo); 2) eliminare tutte le pratiche di nuove costruzioni in aree vincolate (condono 2003); 3) eliminare tutte le pratiche relative a opere non residenziali (condono 2003). Fatti questi passaggi, in breve tempo si riduce la mole di richieste da esaminare.

L’inerzia dei Comuni – non sanzionata in alcun modo –su questo fronte non è ammissibile, se si vuole incidere in modo significativo sul tema dell’abusivismo (consentire che il vecchio abusivismo la faccia franca significa incentivare la realizzazione di nuovo abusivismo) e delle mancate demolizioni. I Comuni spesso, giudicato congruo l’ammontare delle oblazioni, danno l’ok all’ammissione al condono senza alcuna verifica materiale dell’abuso. Va ricordato che il versamento dell’oblazione non estingue in alcun modo il reato.

Nella tabella che segue, relativa ai soli capoluoghi di provincia (72 su 104 intervistati), appare chiaro il divario tra il numero di domande presentate e quelle sottoposte a valutazione, sia essa con esito positivo o negativo: sommando i tre condoni (1983, 1994 e 2003) nei capoluoghi di provincia italiani sono state depositate 2.040.544 domande di sanatoria. Di queste, il 41,3% risulta ancora oggi inevaso.

I condoni edilizi nei Comuni capoluogo di provincia

Condono

Richieste

Ammesse

page5image21888

Respinte

page5image23080

In attesa di valutazione

L. 47/1985

1.513.165

930.443

15.626

page5image29592

567.096 (37,48%)

L. 724/94

312.663

167.720

6.901

138.042 (44,15%)

L.209/2003

214.716

70.425

page5image38504

5.332

138.959 (64,72%)

Totale

2.040.544

1.168.588

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27.859

page5image46944

844.097 (41,37%)

Fonte: Elaborazione Legambiente su dati dei Comuni capoluogo di provincia

Le prime dieci città capoluogo per richieste di condono edilizio

Città

Domande di condono (85-94-03)

Ammesse

Respinte

In attesa

1

Roma

596.680

334.310

page6image15320 page6image15744

56

page6image16672 page6image17096

262.314

2

Milano

138.550

107.000

1.700

29.850

3

Firenze

88.400

75.920

12.480

4

Torino

84.931

56.229

649

28.053

5

Napoli

84.912

36.264

830

47.818

6

Venezia

71.376

57.861

3.402

10.113

7

Bologna

63.806

6.700*

1.106*

page6image58720 page6image59144

56.000*

8

Palermo

60.527

5.827

973

53.727

9

Genova

48.641

43.309

page6image69832 page6image70256

2.294

3.038

10

Prato

39.038

19.048

page6image78736 page6image79160 page6image79320 page6image79912

2.101

17.889

*manca il dato rispetto alle domande accolte e respinte del condono del 1985

Fonte: Elaborazione Legambiente su dati dei Comuni capoluogo di provincia

Una classifica che richiede alcune spiegazioni. Non deve stupire la posizione di Napoli, città martoriata dall’abusivismo edilizio, così come quella di Palermo. E allo stesso modo non deve stupire l’assenza dalla top ten di città martoriate dall’abusivismo come Reggio Calabria, Cosenza, Catania, Bari, Latina. E’ utile infatti ricordare che chi avanza una richiesta di condono, di solito, ha ragionevoli aspettative di ottenerlo, di raggiungere un esito positivo e sistemare così i conti con la legge e mettere al sicuro la propria casa. Viceversa, se si tratta di provare a sanare un edificio costruito illegalmente in aree a vincolo di inedificabilità assoluta, è improbabile che la si presenti. Quindi, questi numeri rappresentano il patrimonio illegale costruito prima del 2003 nelle città italiane che hanno le caratteristiche necessarie per beneficiare del condono edilizio, le case insanabili restano fuori.

Allo stesso modo, si tenga presente che vengono avanzate richieste di condono più spesso per piccoli o medi interventi edilizi (ampliamenti di volumetrie esistenti, chiusure di terrazzi, abitabilità dei sottotetti, etc.) e non per costruzioni ex novo. Questo spiega il vertice della classifica occupato da alcune grandi città del nord Italia, centri densamente urbanizzati, dove difficilmente il reato riguarda immobili completamente illegali e quindi è più diffuso il piccolo abuso.

4. Le case fantasma e i tentativi di un quarto condono

Quello sull’emersione degli immobili non accatastati, come già detto in premessa, è un provvedimento basato in primo luogo sull’autodenuncia dei proprietari, che avevano tempo fino al 30 aprile 2011 per fornire gli aggiornamenti catastali dei propri immobili. Solo in seguito l’Agenzia del territorio ha avviato una mappatura aerea per rilevare gli edifici non denunciati e chiedere ai Comuni gli accertamenti urbanistici. Il risultato del “censimento” è impressionante: sono oltre 1.200.000 gli immobili “fantasma”, costruiti ma non accatastati. E c’è di tutto, dagli edifici pubblici ai capannoni industriali fino a case e palazzine.

Sul sito dell’Agenzia del territorio oggi è possibile consultare un data base e verificare lo status di valutazione di ogni singola particella “emersa” in ogni Comune d’Italia. Accanto a ogni edificio da regolarizzare compare una dicitura che ne definisce il grado di accertamento.

Scorrendo l’inventario dell’Agenzia del territorio, una parte consistente degli immobili in fase di accertamento compare con la postilla “concluso senza aggiornamento”, per moltissimi viene indicata l’attribuzione della rendita presunta, molti altri sono ancora in corso di valutazione.
Per uscire dall’impasse è indispensabile incrociare dati e mappe, così da mettere in evidenza il patrimonio abusivo finito nel conteggio degli immobili non accatastati; rifare gli elenchi e, quindi, i conti sull’extragettito fiscale. Una verifica che secondo Legambiente deve valere anche per quanto emerso dall’autodenuncia dei proprietari: solo dopo aver portato a termine tutti i controlli si potranno tirare le somme. Perché è evidente che solo l’ipotesi di accatastare un edificio abusivo mette in contraddizione il rispetto delle leggi fiscali con quelle urbanistiche. Più semplicemente, non si può fare. In mancanza di sanatoria edilizia deve intervenire la demolizione. Altrimenti saremmo di fronte a un condono mascherato, ossia il quarto della storia repubblicana.

Ben venga dunque la fotografia del patrimonio edilizio che porta a galla un pezzo importante dell’evasione fiscale nel nostro paese. Ma è fondamentale che nel novero delle case a cui fare arrivare le cartelle esattoriali il governo non metta anche quelle costruite illegalmente. Sarebbe, invece, un segnale importante se le entrate straordinarie determinate dall’emersione fiscale delle case non abusive venissero considerate una sorta di “tassa di scopo”. Andassero cioè a rimpinguare il fondo di rotazione della Cassa depositi e prestiti cui i Comuni possono attingere per pagare gli interventi di demolizione del “patrimonio” abusivo.

Accanto al problema dell’emersione fiscale delle case sconosciute al catasto, c’è poi l’incessante tentativo di alcuni parlamentari di fare passare un quarto condono edilizio. O meglio, di riaprire i termini del terzo condono, quello del 2003, per farci rientrare le case abusive della Campania che non hanno potuto beneficiarne perché escluse da una legge regionale, la n.16 del 2004.

E devono essere tante, queste case. Oppure sono di gente molto importante. Solo così si spiega la pervicacia con cui una pattuglia di senatori eletti in quella regione prova con ogni mezzo da quasi tre anni a fare votare il condono. Ultimo in ordine di tempo si è prestato alla causa il senatore Giovanardi, presentando un emendamento al decreto stabilità pressoché identico ai precedenti.

Ne abbiamo contati diciassette, comprendendo anche la sanatoria catastale del ministro Tremonti (ma potrebbe essercene sfuggito qualcuno). E, almeno per ora, sono tutti miseramente falliti.
Per contro, la petizione lanciata da Legambiente sulle pagine di repubblica.it a ottobre contro il ddl Palma ha totalizzato oltre 6.000 firme in solo 24 ore.

I tentativi di condono edilizio dal gennaio 2010 al dicembre 2012

Data

Strumento legislativo

Primi firmatari

Gennaio 2010

Emendamento al decreto Milleproroghe

Sen. Sarro, Nespoli (Pdl)

19 gennaio 2010

ddl

Sen. Villari (Mpa)

17 febbraio 2010

ddl

Sen. Sarro, Nespoli et alii (Pdl)

2 marzo 2010

ddl

On. Laboccetta (Pdl)

23 aprile 2010

Decreto “blocca ruspe”

31 maggio 2010

Sanatoria catastale

21 giugno 2010

Emendamento alla manovra economica correttiva

Sen. Tancredi, Latronico, Pichetto Fratin (Pdl)

28 giugno 2010

Emendamento alla manovra anticrisi

Sen, Sarro, Coronella (Pdl)

30 giugno

Consiglio regionale della Campania. Approvati 2 odg

Presidente della commissione urbanistica De Siano, capogruppo Pdl Martusciello

 

Giugno 2010

Emendamento alla manovra economica

Sen. Fleres, Alicata (Pdl)

1 luglio 2010

ddl

On. Stasi, Cesaro, Petrenga (Pdl)

Agosto 2011

Emendamento

Sen. Coronella (Pdl)

Febbraio 2012

Emendamento al decreto milleproroghe

Sen. Sarro, Coronella, Palma (Pdl)

Maggio 2012

3 odg in commissione Ambiente al Senato

Sen. Sarro, Coronella, Palma (Pdl)

Agosto 2012

Emendamenti al Decreto terremoto

Sen. Sarro, Coronella, Palma (Pdl)

Ottobre 2012

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ddl

Sen. Palma (Pdl)

Dicembre 2012

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Emendamento al Dl stabilità

Sen. Giovanardi (Pdl)

Fonte: Legambiente

5. La campagna “Abbatti l’abuso”

Nasce proprio dalle considerazioni raccolte in questo dossier la campagna “Abbatti l’abuso” lanciata da Legambiente, a cui ha aderito “Avviso pubblico”, l’associazione che raccoglie Comuni, Regioni ed enti locali impegnati contro la corruzione, le mafie e per la legalità (www avvisopubblico.it). Una campagna che ha un obiettivo concreto: dare il via alla demolizione degli immobili costruiti abusivamente nel nostro Paese, affrontando alla radice i problemi che finora hanno impedito l’affermazione della legalità.

A prima vista un’iniziativa che si propone di sostenere l’abbattimento delle case illegali, può sembrare impopolare, come dimostrano anche le manifestazioni di protesta che accompagnano quasi sempre le poche demolizioni effettuate. Ma ci sono situazioni in cui la necessità di demolire diventa socialmente accettabile, anzi. Pensiamo a quando l’abusivismo finisce sul banco degli imputati perché causa tragedie legate al dissesto del suolo o perché devasta gli angoli più belli del Paese. Oppure a quando assume la forma e la sostanza della villa del boss o dello scheletro di cemento armato piantato in riva al mare.

Sono tre, allora, le parole d’ordine che vanno rilanciate con forza:
a) Fare rispettare le leggi, perché le regole della convivenza, il rispetto per ciò che è pubblico, sono principi che vanno riaffermati se si vuole davvero provare a riscattare le sorti economiche, etiche e sociali del nostro Paese. Reprimere il reato di abusivismo edilizio è un passo indispensabile per evitare nuove colate di cemento fuori controllo e scongiurare nuovi condoni;
b) Liberare il paesaggio, naturale o urbanizzato che sia, dalla piaga del brutto, dalle speculazioni della criminalità o di chi semplicemente pensa di poter deturpare un patrimonio comune a proprio piacimento e interesse. Eliminare manufatti illegali significa aggiungere valore al principale prodotto turistico che abbiamo: la bellezza del nostro Paese.
c) Mettere in sicurezza il territorio e la popolazione che lo abita: quando l’Italia frana e i corsi d’acqua esondano, ormai con puntualità drammatica e con un sempre più pesante carico di danni e di vittime, la questione del “costruito dove non si doveva” torna alla ribalta. E sono tutti d’accordo, politici, media, cittadini sul fatto che una casa non vale la vita delle persone. Poi, passata la tragedia, ecco che tutto torna come prima e ci si dimentica, come in un incantesimo, che costruire nel letto di un fiume, sopra o sotto una collina a rischio, è pericoloso.
La campagna nasce anche dalla considerazione che tra il dire (la contrarietà al fenomeno dell’abusivismo) e il fare (il ripristino dei luoghi e della legalità) c’è di mezzo la realtà, ovvero l’inerzia delle istituzioni. Basti pensare al bassissimo rapporto tra sequestri e demolizioni che abbiamo riportato nelle pagine precedenti, tanto che i casi di procedimento avviato, molto spesso più per via giudiziaria che amministrativa, che si concludono con l’intervento delle ruspe si contano ogni anno sulle dita di una mano.

E’ necessario, allora, denunciare le omissioni, allargare il fronte dell’antiabusivismo, ma soprattutto dare mano forte a chi demolisce, facendo uscire dall’angolo quella manciata di sindaci e uomini dello Stato che fanno il proprio dovere, spesso nell’isolamento generale, se non sotto la minaccia della criminalità. Occorre promuovere e moltiplicare le esperienze positive, impegnarsi a trovare soluzioni, anche per le situazioni più difficili da affrontare, come quelle dell’abusivismo edilizio consolidato. Ma soprattutto rendere socialmente popolare la pratica delle demolizioni, innescare un meccanismo di evoluzione culturale, che riscatti gli italiani dall’inciviltà con cui si sono abituati a convivere.

Ecco perché Legambiente ha deciso di dare vita a una campagna nazionale che metta al centro la demolizione delle case illegali. Per restituire al Paese i luoghi violati, eliminando manufatti che molto spesso sono rimasti delle incompiute, desolanti scheletri in cemento che da decenni sfregiano il paesaggio agricolo, alberghi e villaggi turistici illegali a picco sul mare, decine di migliaia di villette che hanno cancellato le spiagge più belle. Sono otto le iniziative specifiche previste per rilanciare il tema della lotta al cemento illegale: un riconoscimento nazionale ai sindaci demolitori; il censimento degli abbattimenti; un manuale per i cittadini che vogliono attivarsi in difesa del proprio territorio; modifiche legislative in materia di antiabusivismo; blitz e campagne mediatiche; monitoraggio della questione delle “case fantasma” e iniziative per la chiusura delle sanatorie edilizie ancora aperte.

6. Un disegno di legge contro il mattone selvaggio

Scioglimento dei Comuni che non adottano il Piano comunale di demolizione degli immobili abusivi. Potenziamento del fondo di rotazione presso la Cassa depositi e prestiti, con 150 milioni di euro da destinare agli abbattimenti, alimentato dal pagamento delle spese di demolizione. Tempi certi per le ordinanze (20 giorni), e per il periodo massimo entro cui effettuare la demolizione o l’acquisizione a patrimonio comunale (60 giorni). Intervento diretto delle prefetture per gli abusi commessi in aree vincolate. Sono queste le principali novità contenute nel disegno di legge predisposto da Legambiente e presentato sia al Senato che alla Camera, primi firmatari i senatori del Pd Francesco Ferrante e Roberto Della Seta e gli onorevoli Ermete Realacci (Pd) e Fabio Granata (Fli).

Il ddl ha come obiettivo quello di integrare e potenziare le previsioni in materia di abusivismo e demolizioni della L.380/2001, accentuando le responsabilità degli enti locali e inasprendo le sanzioni, anche per i Comuni che non evadono le pratiche di condono edilizio giacenti nei loro uffici tecnici. E facilitare, al contempo, l’azione di contrasto da parte delle istituzioni, migliorando la collaborazione tra gli enti, potenziandone i poteri e aumentando le disponibilità finanziarie per fare fronte alle demolizioni. Tra le nuove norme sono previste, in particolare, l’istituzione di un Osservatorio nazionale sull’abusivismo edilizio, quella di un Albo speciale per le imprese di demolizione, con obbligo d’iscrizione, e una convenzione nazionale che regola l’intervento del Genio militare. Un’altra novità è rappresentata dalla destinazione, da parte dei Comuni, delle sanzioni amministrative per interventi di riqualificazione urbana.

Si tratta di evitare, sostanzialmente, che la mancata attuazione delle norme che prevedono la demolizione e/o l’acquisizione a patrimonio comunale degli immobili abusivi finisca per alimentare un clima di “rassegnata” accettazione del fenomeno, con tutte le conseguenze che ne derivano, a cominciare dall’assoluta perdita di credibilità dello Stato, incapace di far rispettare la legge. Il principio che deve essere ribadito e tradotto in azioni concrete è che demolire un immobile abusivo non è una facoltà, ma un preciso obbligo delle Amministrazioni comunali. Obbligo che deve essere accompagnato da strumenti e risorse adeguate per consentirne la concreta attuazione.

Va in questo senso, come già accennato, quanto previsto all’articolo 4, con la creazione di un Osservatorio nazionale sull’abusivismo edilizio, presieduto dal Ministro dell’Ambiente e composto da regioni, enti locali, forze dell’ordine, organi giudiziari e associazioni ambientaliste impegnate sul tema. Senza ulteriori oneri per lo Stato, dovrà, tra le altre cose, coordinare le attività sul fronte del contrasto all’abusivismo e verificare i piani comunali di demolizione e di ripristino dei luoghi.

Con l’articolo 5 si riducono i tempi perché l’amministrazione comunale possa entrare in possesso del bene immobile e procedere all’abbattimento in danno del proprietario, mentre con l’articolo 11 viene istituito presso il Ministero dello sviluppo economico l’albo speciale delle imprese abilitate alle demolizioni.

Sul fronte economico, l’articolo 12 stanzia 150 milioni di euro per la costituzione del Fondo per le demolizioni delle opere abusive a uso degli enti che provvedono agli abbattimenti. Le anticipazioni, comprensive della corrispondente quota delle spese di gestione del Fondo, sono restituite al Fondo stesso in un periodo massimo di dieci anni, secondo modalità e condizioni stabilite con un decreto, utilizzando le somme riscosse a carico degli esecutori degli abusi. In caso di mancato pagamento spontaneo del credito, l’amministrazione comunale provvede alla riscossione mediante messa a ruolo. Gli introiti derivanti dal pagamento delle spese di demolizione e ripristino dei luoghi (articolo 13) confluiscono obbligatoriamente nel Fondo per le demolizioni delle opere abusive; le relative sanzioni amministrative confluiscono, invece, in un apposito fondo comunale e sono vincolate alla realizzazione di interventi di manutenzione stradale e del verde pubblico, creazione e manutenzione di piste ciclabili o aree pedonali e comunque per tutte quegli interventi atti a migliorare il decoro urbano.

Ma la novità probabilmente più rilevante, che introduce una sanzione esemplare per i comuni inadempienti, è quella prevista dall’articolo 7 e riguarda la chiusura delle pratiche di condono edilizio giacenti inevase negli uffici tecnici dei Comuni. La norma stabilisce che entro 90 giorni dall’entrata in vigore della legge, le amministrazioni comunali devono inviare all’Osservatorio nazionale sull’abusivismo edilizio il quadro esatto delle domande di sanatoria e un piano con criteri e modalità per l’evasione, entro tre anni, di tutte le pratiche aperte. Il dirigente o il responsabile dell’ufficio tecnico che per inerzia o dolo non lo predisponga e non lo realizzi è sottoposto a procedimento disciplinare ed è passibile di sospensione dall’incarico. In caso di mancata attuazione del piano, il consiglio comunale del Comune inadempiente subisce lo scioglimento e l’Osservatorio subentra nell’incarico con le funzioni di struttura commissariale.

———————————- Fonti e riferimenti normativi.

“Abbatti l’abuso” , il manuale d’azione di Legambiente
“Mare Monstrum 2012”, dossier Legambiente
“Ecomafia 2012, le storie e i numeri della criminalità ambientale”, Legambiente, Edizioni ambiente www.lexambiente.it
www.normattiva.it
www.agenziaterritorio.it
– Legge n. 47/1985
– Legge n. 724/1994
– T.U 380/2001
– D.L. n. 269/2003
– Legge n. 326/2003
– D.L. n.78/2010

L’arte di essere solo

L’arte di sviluppare i motivetti per risolverci a compiere le grandi azioni che ci sono necessarie. L’arte di non farci mai avvilire dalle reazioni altrui, ricordando che il valore di un sentimento è giudizio nostro poiché saremo noi a sentircelo, non chi interviene. L’arte di mentire a noi stessi sapendo di mentire. L’arte di guardare in faccia la gente, compresi noi stessi, come fossero personaggi di una nostra novella. L’arte di ricordare sempre che, non contando noi nulla e non contando nulla nessuno degli altri, noi contiamo più di ciascuno, semplicemente perché siamo noi. L’arte di considerare la donna come la pagnotta: problema d’astuzia. L’arte di toccare fulmineamente il fondo del dolore, per risalire con un colpo di tallone. L’arte di sostituire noi a ciascuno, e sapere quindi che ciascuno si interessa soltanto di sé. L’arte di attribuire qualunque nostro gesto a un altro, per chiarirci all’istante se è sensato.

L’arte di fare a meno dell’arte.

L’arte di essere solo.

(Cesare Pavese da Il mestiere di vivere, 1935/1950 postumo, 1952)

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Ci vogliono più armi, non meno armi. Per difendersi. Per essere felici.

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Seguo il telegiornale con gli occhi sbarrati. Mia figlia Sara, otto anni, mi chiede cosa sia successo. Le parlo, con tutto il tatto possibile, di una scuola in America, di bambini più piccoli di lei uccisi da un ragazzo di vent’anni. “Non ho capito” mi ripete, “Cos’è successo?” Ed è giusto che non capisca, perché questa strage non significa nulla, non ha senso, è un paesaggio assurdo che sovverte le leggi del quotidiano. È qualcosa che mina la ragionevolezza, che frustra la mia capacità di spiegarle il mondo, di renderglielo domestico, assennato, socievole.

Dovrei parlarle dell’ossessione tutta statunitense per la ricerca della felicità, vero e proprio diritto costituzionale. Costi quel che costi. E del suo naturale corollario, quello all’autodifesa, al diritto (il più inviolabile di quelli della carta costituzionale) a girare armato. Cercare la felicità restando vivi, difendendosi. Ma anche cercare la felicità a costo della vita degli altri. Già nelle ore successive alla strage la soluzione della lobby delle armi era chiara: la colpa è di una legislazione che proibisce agli insegnanti di essere armati. Ci vogliono più armi, non meno armi. Per difendersi. Per essere felici.

Gianni Biondillo sulla strage nella scuola di Newtown.

La tutela del lavoro nei beni confiscati

Schermata 2012-12-17 alle 12.14.36Al novembre 2012,  sono 1639 le aziende confiscate alle mafie. Circa 10 volte tanto sono quelle sequestrate. I settori più coinvolti sono il terziario, l’edilizia e l’agroalimentare. Il 37% in Sicilia, il 20% in Campania, il 12% in Lombardia.

Il 90% delle aziende sequestrate e confiscate fallisce. Tra il sequestro e la confisca passano circa 8 anni, con conseguenze sul patrimonio aziendale e sulla collocazione di mercato. Sono dagli 80 ai 100.000 le lavoratrici e i lavoratori coinvolti, esposti a licenziamento e disoccupazione.

Per queste ragioni Cgil, Libera, Arci, Acli, Avviso Pubblico, ANM e Osservatorio sociale sulle mafie Milano Lombardia, promuovono una raccolta di firme per una legge di iniziativa popolare tesa a favorire l’emersione alla legalità e la tutela delle lavoratrici e dei lavoratori delle aziende sequestrate e confiscate alla criminalità organizzata, che “sono un bene di tutti”.

La campagna ha come titolo “Io riattivo il lavoro

Le proposte di legge (che trovate in pdf qui) sono chiare e importanti. Perché, come dice il documento, combattere l’illegalità economica significa prima di tutto aggredire i patrimoni della criminalità organizzata, restituirli alla collettività e porli alla base della costruzione di nuove relazioni economiche sane e legali, che pongano il lavoro e la dignità delle persone al centro di un nuovo percorso di riscatto civile e sociale. Solo in questo modo il nostro paese può gettare le basi per uscire dalla crisi economica in cui versa. In Italia, infatti, l’economia sommersa, la pervasività della criminalità mafiosa, il malaffare e la corruzione hanno un costo pari a circa il 27% del nostro PIL1 un prezzo che costituisce una zavorra insostenibile, sempre più spesso scaricato sui lavoratori e le lavoratrici, sulle giovani generazioni e sui pensionati. 

Sarebbe da dire che è una bella “antimafia dei fatti” visto che ce lo sentiremo ripetere spesso dalle parti leghiste nelle prossime settimane, anche qui in Lombardia.

I moduli per raccogliere le firme sono qui. Stampiamo e facciamo firmare. E’ la politica che ci piace. Davvero.

Il coraggio di denunciare, finalmente: Stefano Rizzo

Un articolo da incorniciare del solito Davide Milosa per una Lombardia che lancia segnali confortanti: una notizia che è il punto di partenza per immaginare davvero un’altra storia, un’altra normalità e una quotidianità di schiene diritte non spacciate per eroismo. Una buona novella domenicale.

la-mafia-non-esisteNovate Milanese la nebbia rimonta velocemente dai campi. Le 13 del 25 gennaio 2012. In via Francesco Baracca già i contorni delle case scompaiono. La strada scappa via, mentre il giallo dei lampioni rimbalza sulla calotta grigia di acqua e smog. In questo lembo di periferia, Stefano Rizzo ci arriva a bordo della sua auto. Pugliese di Trinitapoli, in riva al Naviglio sale da ragazzino. Vita dura la sua, a faticare e vivere tra le strade di Quarto Oggiaro. Rizzo, però, è un pugliese tosto. Sotto al Duomo, vuole arrivare. Arriverà. Perché in quell’inverno, quando la sua auto si ferma davanti allacarrozzeria Veneta, Rizzo è un imprenditore affermato nel campo dell’edilizia. Ha 48 anni, una moglie e due figli. La sua è una storia esemplare. Che, però, da lì a pochi minuti andrà a sbattere contro il muro della ‘ndrangheta. Sì perché in quel pomeriggio di fine gennaio, l’imprenditore ha un appuntamento con Maurizio Massè, luogotenente di Enrico Flachi, fratello di Giuseppe, boss alla milanese e volto storico delle cosche calabresi che da tempo hanno lanciato un’opa mafiosa alla politica e all’impresa lombarda. In quel periodo, però, il padrino si trova in carcere. Arrestato nella primavera del 2011 assieme a una manciata di presunti boss, picciotti e colletti bianchi. E’ l’indagine Caposaldo. Una storia di mafia, politica e violenza che da tempo va in scena alla settima sezione del tribunale di Milano, rappresentando un quadro inedito per l’ex capitale morale d’Italia:la paura e l’omertà delle vittime nel denunciare i propri estortori mafiosi. Capita così che davanti ai magistrati i commercianti raccontino una verità, dopodiché in aula, con i boss dentro al gabbione, ritrattino, inciampando in esplicite reticenze. Altra pasta per Rizzo che, incassata la minaccia della ‘ndrangheta, non ci pensa due volte, denuncia tutto e fa arrestare sia Massè che il fratello di don Pepè Flachi. Una vicenda a lieto fine. Ma coraggiosa come mai la cronaca ha registrato in questi ultimi anni in terra di Lombardia.

AMBASCIATE MAFIOSE E LA MINACCIA AI FIGLI
Ecco, allora, cosa mette a verbale l’imprenditore. “Massè mi disse che loro, inteso i Flachi, non ragionano, che avevano già fatto i sopralluoghi, sapevano dove abitavo, dove andavano a giocare i miei figli”. Perché una tale minaccia? Per capire bisogna tornare indietro di qualche settimana, quando Rizzo, parlando con un suo operaio infedele, viene a sapere che la ‘ndrangheta è entrata in prima persona nella gestione di un credito che lo stesso imprenditore vanta nei confronti diDomenico Di Lorenzo, proprietario del ristorante 1958 in via Amoretti a Milano. Tempo prima, infatti, Rizzo ha ristrutturato il locale per 300mila euro. Lavori sui quali il titolare ha avuto da ridire. La discussione finisce in tribunale. I giudici danno ragione a Rizzo. Di Lorenzo deve pagare. Lo farà, ma solo in parte. All’appello, infatti, mancano 55mila euro. E’ su questa cifra che interviene il clan. I boss inviano messaggi. E lo fanno attraverso Antonino Benfante, pregiudicato siciliano, assunto dallo stesso Rizzo.

L’ambasciata è chiara: il ristorante 1958 è diventato in parte di proprietà di don Pepè e dunque, l’imprenditore deve rinunciare a quel denaro. “Altrimenti sarebbe stato difficile continuare a lavorare con le sue società sul territorio”. Con il passare dei giorni la situazione si chiarisce ulteriormente. Ancora prima di iniziare i lavori, Di Lorenzo aveva chiesto ai Flachi un prestito da 200mila euro. Un bel tesoretto che però il ristoratore non era stato in grado di onorare. Motivo: il debito contratto con Rizzo. Annota il gip Alessandro Santangelo nelle 24 pagine di ordinanza di arresto: “Di Lorenzo di fatto aveva chiesto un loro (dei Flachi,ndr) intervento finalizzato alla risoluzione dei debiti di Rizzo”.

IL CORAGGIO DELLA DENUNCIA
Per giorni, gli uomini del clan fanno la posta davanti all’impresa di Rizzo. Massè, addirittura, entra e chiede di parlare con il titolare che però non si fa trovare. L’appuntamento, però, è solo rinviato al 25 gennaio davanti alla carrozzeria Veneta di Novate Milanese. Durante quel colloquio e davanti alle esplicite minacce ai suoi bambini, Stefano Rizzo vacilla e fa capire al suo interlocutore di voler rinunciare al denaro. Il travaglio psicologico dell’imprenditore è enorme. Il giorno dopo, su insistenza di Massè, l’incontro con Enrico Flachi. L’appuntamento è fissato ai tavolini dell’Officina della Birra di Bresso, storico luogo di ritrovo della ‘ndrangheta, i cui titolari, però, non sono mai stati coinvolti nelle indagini. Racconta Rizzo: “Dopo circa 15 minuti è arrivato Enrico Flachi a cui ho raccontato la genesi e lo sviluppo del mio credito a Di Lorenzo (…) Mi ha anche detto che apprezzava molto il fatto che io avessi promesso di rinunciare ai 55mila euro (…) e che qualsiasi cosa di cui avessi avuto bisogno avrei potuto rivolgermi a loro”.

“L’ESTORSIONE E’ TUTTA DA PROVARE”
Rizzo, però, ci ripensa. In fondo, la mentalità di quei personaggi ha imparato a conoscerla vivendo a Quarto Oggiaro. Sa che dopo quei 55mila euro sarebbero arrivate altre richieste. Decide e forse compie un azzardo. In un altro incontro con Massè rivela (mentendo) di essere stato chiamato da magistrati e carabinieri per chiarire i motivi delle visite di Flachi e dei suoi uomini. L’altro ci casca e diventa remissivo. “Dice che il suo intervento e quello dei suoi amici era solo funzionale a ristabilire buoni rapporti tra Rizzo e Di lorenzo”. Dopodiché, però, mostra tutta l’essenza di quella trattativa. Racconta Rizzo: “Subito dopo mi ha detto: tanto devono provarla l’estorsione e mi devono portare davanti chi l’ha detto, io non ho fatto niente”. Tanto basta. Il pm della Dda di Milano Paolo Storari chiede al giudice l’arresto di Massè e Flachi. Per i due le manette scattano il 23 novembre 2012. L’accusa: estorsione aggravata dal metodo mafioso.

UN’OCCASIONE PER LE ISTITUZIONI MILANESI
L’operazione coordinata dal Gico di Milano, però, resta tra le pieghe della cronaca. Il giorno dopo, infatti, i quotidiani e sono impegnat a raccontare il tentativo (riuscito in pieno) della cosca Belloccodi conquistare l’ennesima impresa lombarda: la Blue call di Cinisello Balsamo. Eppure, la storia di Stefano Rizzo vale più di tanti arresti. Prima di tutto perché soddisfa, finalmente, quella sete di denuncia sempre sbandierata dal procuratore aggiunto Ilda Boccassini (“Davanti al mio ufficio non c’è certo la fila di imprenditori che vuole denunciare”). E soprattutto apre uno squarcio nel velo di omertà che recentemente ha costretto il giudice Aurelio Barazzetta a ricorrere alla cosiddettalegge anti-omertà per aggirare le reticenze in aula. Capita, guarda caso, per il processo alla cosca Flachi. Qui, davanti a quattro commercianti che ritrattano, il tribunale ha deciso di utilizzare il quarto comma della legge 500 del codice di procedura penale. La norma prevede di fare entrare nel processo le prime dichiarazioni delle vittime al pubblico ministero. Un escamatoge, per nulla abusato, che permette di aggirare il timore provocato dalla presenza dei boss nel gabbione. La stessa legge è stata invocata dalla Corte di Cassazione che l’agosto scorso ha bocciato (con rinvio) la sentenza d’Appello del processo Cerberus sulle infiltrazioni mafiose della cosca Papalia a Buccinasco. Anche in quel processo (concluso nel maggio 2011), imprenditori e commercianti in aula hanno negato, ritrattato o addirittura stravolto i contenuti dei primi verbali. Anche in quel processo, come per Caposaldo, il giudice era Barazzetta che minacciò le presunte vittime di indagarle per falsa testimonianza. La storia di Stefano Rizzo doveva ancora essere raccontata. Ma oggi, che la denuncia sta scritto nero su bianco, ci si aspetta che le istituzioni milanesi (prime a dover essere imputate di omertà nei confronti della ‘ndrangheta lombarda) escano dal loro torpore per dare lustro e visibilità a questo imprenditore coraggioso.

Scriva. Sempre.

Scriva. Sempre. Tutti i giorni. Un tweet, un post, una lettera, un articolo. Rispetto alle generazioni che l’hanno preceduta, ha la fortuna di avere a disposizione uno strumento straordinario: internet. Lo sfrutti. La rete è la sua più grande alleata, per fare ricerche, per entrare in contatto con altri giornalisti, per cominciare a raccontare le sue storie anche se non lavora in un giornale. Cerchi di scrivere in modo chiaro e semplice. Non abbia paura di far rileggere i suoi articoli a qualcuno di cui si fida prima di pubblicarli. Esca. Si guardi intorno. Sia curioso. Faccia domande. Il mondo è pieno di storie incredibili che aspettano solo di essere raccontate. E i buoni giornalisti non saranno mai abbastanza.

I tre consigli di Giovanni De Mauro ad un aspirante giornalista.

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Le secondarie in Lombardia

A-N-jEZCQAEoUfy.jpg-largeSono le elezioni che ci interessa vincere: le secondarie in Lombardia. Ieri hanno votato 150.000 persone (a pochi passi dal Natale, sotto la neve e poco dopo una chiamata ai seggi per le primarie nazionali): il dato è più alto delle aspettative e si assesta circa ad un terzo del dato delle primarie nazionali. Nonostante la milanocentricità che tutti prevedevano queste primarie (che siano state civiche, politiche o qualsiasi altra cosa) consegnano alla Lombardia un candidato costruito su un consenso reale e spesso nelle percentuali. Forse alla fine avevamo ragione a chiedere le primarie come passo indispensabile per una candidatura che fosse realmente riconosciuta.

Il risultato di Di Stefano non è una sorpresa, no: i temi dell’ambiente, dell’intollerabile privatizzazione di scuola e sanità, del reddito minimo garantito sono argomenti sentiti e veri anche qui dove il centrodestra (e il centrocentrocentrosinistra) ha finto di non sentirci ed è inevitabile che l’alternativa al formigonismo debba passare da politiche sociali, sanitarie, di infrastrutture e di lavoro che siano realmente diverse. L’augurio che ci possiamo fare per la prossima Lombardia è che i temi dei candidati rimangano tutti in campo (lo scrivevo ieri).

Ora è il caso di uscire dall’autismo di coalizione e ripartire da quei 150,000 voti e dai volontari sui territori: sono il capitale “sociale” su cui costruire la Lombardia.

Buon lavoro, Umberto e buon lavoro a noi.

(mi concedo un post scriptum polemico perché mi piaccio così: ho appoggiato Umberto con convinzione per l’amicizia che ci lega, per la discontinuità che può garantire in Lombardia e per quello che scrivevo qui,  e perché questa è la posizione nazionale del partito che mi onoro di rappresentare in Consiglio Regionale. Avete letto bene: posizione nazionale. Poi in queste ultime settimane ho visto di tutto: chi appoggiava Pizzul perché era vicino ai temi di SEL che è passato dal sostenere Ambrosoli al dichiarare il “liberi tutti” per poi tornare ad essere ambrosoliano e da ieri distefaniano innamorato. Insomma, vale tutto per ritagliarsi un posto al sole: l’accusa che “qualcuno” soffiava nelle orecchie riferendosi a me e Pippo Civati. Ora li vedrete tutti come cavallette nella postura del scendiletto per una manciata di voti in più.

Poi se vogliamo confrontarci sul ruolo che SEL può avere nel quadro che va delineandosi, ben venga. Perché la politica è dibattito pubblico e aperto e le piccole beghe di bottega smazzate tra pochi fanno sorridere. Ma davvero.)

 

Formigoni e i 31 dirigenti assunti in “gran segreto”

Schermata 2012-12-15 alle 14.46.55Per il Tar e il Consiglio di Stato è tutto illegittimo: il bando di concorso, mai apparso in «Gazzetta Ufficiale», e il provvedimento con cui la giunta ha cercato di rappezzare la situazione. Ciò che stiamo per raccontarvi accade nella più popolosa e ricca Regione d’Italia, che contribuisce per un quarto alla formazione del PiI, ha il primato dei migliori ospedali ed è considerata un modello d’efficienza: la Lombardia. 

La giustizia amministrativa invalida l’atto, ma la Regione «sana» con legge retroattiva Risultato: Giunta condannata al risarcimento dal Tar.

Una delle solite storie di Regione Lombardia marchiata dal formigonismo più becero. Forse quando parliamo tutti del libro della Minetti rischiamo di perdere il nodo politico che più di tutti sarà difficile da estirpare in caso di vittoria: una macchina amministrativa e dirigenziale completamente in mano agli amici degli amici che sarà sicuramente lo scoglio più difficile di qualsiasi inizio di legislatura. Per questo le soluzioni che si propongono per “deforestare” il sistema ciellino dovrebbero essere articolate e raccontate con calma e dovizia di particolari agli elettori. Passare dallo slogan al progetto legislativo e amministrativo è la maturità che gli elettori ci chiedono per risultare credibili nella guida della Regione.

La terrificante storia dei dirigenti lombardi è su Il Sole 24 Ore e la potete leggere qui.