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Giulio Cavalli

Blasfemia in scena

Questione di priorità, evidentemente:

Tre attori sono stati arrestati in Grecia con l’accusa di blasfemia. Avevano infatti preso parte ad uno spettacolo teatrale dal titolo Corpus Christi, prodotto da Terence McNally nel 1997, in cui Gesù e i suoi discepoli venivano rappresentati come una comunità gay che viveva a Corpus Christi, nello stato americano del Texas.

Un’opera provocatoria, colpita non solo dall’anatema religioso per la pervasività della Chiesa ortodossa, ma anche dal braccio secolare: in Grecia espressioni giudicate blasfeme vengono punite duramente, con il carcere fino a due anni.

La Federazione Umanista Europea (EHF) e il Greek Helsinki Monitor (GHM) hanno lanciato un appello per la liberazione dei tre attori, scrivendo al ministro della Giustizia greco. Con la secolarizzazione che avanza in Europa, scrivono il presidente EHF Pierre Galand e il portavoce del GHM Panayote Dimitras, diversi paesi hanno ormai abrogato le leggi vetuste che punivano la blasfemia.

Ma in altri, come la Grecia, sono ancora in vigore e “possono portare a persecuzione o avere un effetto deterrente su giornalisti, accademici, artisti e altri cittadini”, per effetto dell’autocensura indotta. L’organizzazione che riunisce le associazioni laiche europee, e di cui fa parte anche l’Uaar in rappresentanza dell’Italia, sostiene la libertà di espressione contro ogni forma di criminalizzazione di stampo religioso e di privilegio delle confessioni di fede.

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Nonna, tu sei il mare, io sono un’onda

Nella melma degli articoli d’agosto una splendida Liliana Segre raccontata da Alessia Rastelli su Il Corriere della Sera:

«So cos’è, mi disse vedendo il tatuaggio sul mio braccio. E io mi sentii capita, senza bisogno di dire niente». È il primo incontro di Liliana Segre – ebrea sopravvissuta ad Auschwitz, – con Alfredo. «L’uomo che poi è diventato mio marito – racconta -. E senza il quale, forse, sarei diventata una di quelle donne che entrano ed escono dai manicomi, considerate “strane” dalle loro stesse famiglie».

Nei primi tempi del matrimonio ma anche negli anni successivi, quando l’entusiasmo e la felicità di giovane sposa non sono più bastati a ovattare gli echi di un passato con cui fare i conti. Parla di una depressione molto forte, la Segre, quando aveva 46 anni e perse l’anziana nonna, ultimo legame con la famiglia distrutta. Poi, intorno ai 60 anni, la consapevolezza di non avere ancora «fatto il proprio dovere» e la scelta di diventare una testimone della Shoah.

«Quando lo comunicai ad Alfredo si preoccupò che per me fosse troppo doloroso. Ma mi appoggiò» ricorda Liliana. «Da allora – prosegue – ho girato centinaia di scuole e parlato a migliaia di studenti. Ogni volta mio marito mi aspettava a casa e mi chiedeva “Come è andata amore mio?”. E io varcavo la soglia e riuscivo a lasciare tutto fuori. Da quando è morto, invece, quattro anni fa, è molto più difficile rientrare e rimanere da sola con i miei fantasmi».
Resta quello che con Alfredo ha costruito. «Siamo stati una famiglia, abbiamo auto tre meravigliosi figli e tre nipoti» dice Liliana, ancora a Pesaro in questa estate di oltre sessant’anni dopo. Insieme con lei c’è Filippo, il più piccolo dei nipoti, di otto anni. «Pochi giorni fa – racconta la Segre – mi ha detto: “Nonna, tu sei il mare, io sono un’onda”. Allora penso che non avrei potuto chiedere di più. E che, nonostante Auschwitz, alla fine ha vinto la vita».

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In italiano: patrimoniale

Uno scrittore multimilionario ha chiesto al primo ministro britannico David Cameron di fargli pagare piu’ tasse: Mark Haddon, l’autore di ‘Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte’, ha detto al Sunday Times che i ricchi come lui dovrebbero contribuire di piu’ per evitare altri tagli da parte del governo. 49 anni, ex illustratore e scrittore per bambini che nel 2003 quasi per caso si e’ trovato in testa alle classifiche dei bestseller, Haddon ha ammesso di essere straricco: ”Le misure di austerity decise da questo governo hanno causato vere sofferenze a molti britannici ma non a me. Il mio alto tenore di vita non e’ stato minimamente intaccato”. ‘Lo strano caso’, la storia di un adolescente con la sindrome di Asperger che una notte trova il cane di una vicina trafitto da un forcone, sta andando in scena in questi giorni al National Theatre di Londra e Brad Pitt ha acquistato i diritti per farne un film con la Warner Bros.

”Perche’ alla gente come me non viene chiesto di fare la sua parte?”, ha detto lo scrittore al Sunday Times spiegando di essere stato ispirato dal miliardario americano Warren Buffett che ha chiesto di pagare piu’ tasse dopo aver scoperto che la sua donna delle pulizie, in proporzione, pagava piu’ tasse di lui. ”Non vedo molta gente che la pensa allo stesso modo. In questo mondo sembrano esserci piu’ Bob Diamonds che Warren Buffett”, ha detto alludendo all’ex Ceo di Barclays, la banca britannica al centro dello scandalo Libor. ”Non e’ solo una questione economica, e’ anche un problema morale”, ha detto lo scrittore: ”Se tutti pagassimo le tasse come si deve non avremmo bisogno di ricorrere all’austerity”.

Questione di etica. E scrittori e politica. La notizia è qui.

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O politico o scrittore

O il politico o lo scrittore. Me lo diceva (e me lo dice ancora) un vecchio democristiano (vecchio nel senso di appartenenza tanto che si inalbera se viene definito “ex”) con mi capita di parlare di politica e di scrittura (maggiori convergenze sulla seconda, a dire la verità).

O il politico o lo scrittore. Era nata una polemica anche su Gianrico Carofiglio che, secondo alcuni, non poteva essere senatore e concorrere al premio Strega. Conflitto di interessi dicevano: nell’Italia dei corrotti, mafiosi, corruttori e monopolisti dell’informazione al Governo, un libro è un pericolo. È normale forse nella rablaisiana illogicità degli ultimi 20 anni.
Mettici poi ogni tanto il gioco purista (e che non ho mai amato) di chi dice che la letteratura è poesia e la politica sempre e comunque infamia. Citano Gramsci sugli indifferenti ma gli scritti in cui Gramsci dice che il buon politico deve essere un buon drammaturgo, quello no, quello lo dimenticano. Anche Roberto Saviano è caduto ogni tanto in qualche osservazione spericolata, ricordo un giorno in cui disse “la politica è ormai una cosa buia”; chissà cosa ne avrebbe pensato il Sindaco di Pollica Angelo Vassallo o La Torre o Placido Rizzotto o appunto Gramsci o perfino Pericle. Dario Fo dice spesso che se si dimostra che tutti sono ladri più nessuno è ladro ed è un “liberi tutti!”.

Però in pochi parlano di questa tentazione (molto internazionale, a dire la verità) dei politici di scrivere libri. Ogni tanto sono libri che nascono come manifesti politici (penso al bel libro delle 10 cose da fare subito di Pippo) ma ogni tanto qualcuno si lancia proprio nel mare aperto della letteratura. Presunta.

Claudio Giunta ha letto l’ultimo libro di Matteo Renzi, il giudizio non è tenero. No.

Stil novo contiene i pensieri di un italiano come tanti, articolati nel modo in cui tanti li articolerebbero, e non ci sarebbe niente di male, in questa media sociologica, se Matteo Renzi non aspirasse a dirigere il maggiore partito italiano e, coll’occasione, l’Italia. Se l’impresa gli riuscirà, si realizzerà questo interessante paradosso: andrà al governo, sotto le insegne di un partito di sinistra, un uomo che – come la tradizione della sinistra vuole – fa della cultura uno dei pilastri del suo programma politico, ma che, per le cose che scrive e per il modo in cui le scrive, non sembra avere alcuna dimestichezza coi libri, né con ciò che i libri insegnano veramente. Ben scavato, vecchia talpa.

Qui la sua idea.

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Intervista per Byoblu: un incidente a sera tarda può capitare a tutti

Una mia intervista per Byoblu.

di Valerio Valentini
“Attore, scrittore, regista e politico italiano, nato a Milano il 26 giugno 1977”. C’è scritto più o meno così sulla prima riga della pagina di Wikipedia dedicata a Giulio Cavalli. Non c’è scritto che vive sotto scorta da 4 anni. Oggi ha particolarmente bisogno di non essere lasciato solo. L’ho intervistato per il blog.

“Possiamo anche non interessarci degli ‘ndranghetisti, ma loro sicuramente si interesseranno di noi”. Più volte ti ho sentito ripetere questa frase: che significato ha avuto nella tua esperienza di uomo e di artista?

Noi dobbiamo riuscire a sgretolare il muro dell’indifferenza. E per farlo credo che l’impegno sia quello di stimolare e allenare il muscolo della curiosità collettiva. Accendere l’acquolina in bocca sul tema mafie e antimafia anche alla “signora Maria” sotto casa, al bar, dal panettiere. Perché gli uomini di ‘ndrangheta conoscono e studiano le mozioni o gli ordini del giorno o i PGT (piano di governo del territorio, ndr) dei piccoli comuni più attentamente degli onesti? Perché utilizzano gli spazi lasciati liberi dalle collusioni, certo, e dall’inettitudine civica. Quindi interessiamoci di loro perché inevitabilmente loro si interessano di noi, per favore. Questo è il richiamo.

Un regista lombardo che denuncia la ‘ndrangheta: all’inizio qualcuno pensava a uno scherzo, dal momento che nella coscienza popolare la mafia calabrese era una faccenda del Sud. Eppure è dal 1979 che la ‘ndrangheta ammazza affiliati ribelli nei ristoranti del milanese come se si trattasse di gangster di Chicago, e nel decennio 1973-1983 furono più di cento i sequestri effettuati dalla criminalità organizzata in Lombardia. Perché, secondo te, c’è voluto tanto per comprendere che la mafia era arrivata anche al nord?

Per una questione politica e culturale. Politicamente, l’atteggiamento degli ultimi anni più in voga era il negazionismo a tutti i costi. La politica lombarda (almeno quella imperante) è vissuta sulla retorica dell’eccellenza in tutti i campi. La Lombardia come punto più alto dell’imprenditoria, della sanità, dell’organizzazione e della sicurezza. Riconoscere il problema delle mafie in fondo costringeva gli amministratori a rivedere dalle fondamenta il proprio “teorema lombardo”. Dal punto di vista culturale la Lombardia è la culla del federalismo. Ma non solo il federalismo bieco e secessionista della Lega quanto più un federalismo delle responsabilità per cui siamo tranquilli se la nostra città è tranquilla o addirittura ci basta che il nostro quartiere sia in sicurezza. Perso quindi il dovere di solidarietà evidentemente si sono create le pieghe culturali per un tranquillo pascolo delle famiglie mafiose. Anzi, negli ultimi vent’anni ci hanno fatto credere che la solidarietà (soprattutto qui in Lombardia) è un vezzo umanitario che non possiamo permetterci, una debolezza che mette a rischio i nostri figli. E così la vera secessione è stato l’egoismo civile.

Dal 2008 vivi sotto scorta: evidentemente un’esperienza molto difficile. Eppure, recentemente, è accaduto qualcosa che ha peggiorato di molto la tua situazione. Vuoi raccontarci cos’è successo?

Ho spiegato tutto nel mio blog. In realtà di minacce me ne arrivano molte e molto spesso personalmente. Ora, però, ci sono dei nomi e dei cognomi dichiarati apertamente in un video. Quindi c’è un reato chiaro: o minacce, o calunnia e procurato allarme. E soprattutto c’è da chiedersi cosa possa spingere un imprenditore a rilasciare un’intervista così disperata e disperante. Mi auguro che le istituzioni diano la risposta.

“Gliela faremo pagare, ma senza fretta. Un anno o dieci anni non è un problema”: più o meno in questo termini è stata formulata la minaccia nei tuoi confronti. Come va interpretata questa micidiale “pazienza” della ‘ndrangheta?

È la frase che più di tutte mi ha colpito e ha colpito alcuni investigatori con cui ho avuto modo di parlare in questo giorni. Se Gasparetto (l’imprenditore che ha lanciato l’allarme, ndr) avesse voluto cercare uno scoop avrebbe potuto favoleggiare di un attentato in pompa magna; invece il non avere fretta (ricordo in una telefonata qualcuno che, parlando di me, disse “un incidente a sera tarda può capitare a tutti”) è nel DNA delle ‘ndrine. Poco rumore. È finita l’era dei gesti eclatanti: conta solo il risultato.

Concretamente, da oggi come cambia (se cambia) la tua vita dopo quest’ulteriore esplicita minaccia?

Credo che i dispositivi della mia sicurezza rientrino in un patto tra me, la mia famiglia e lo Stato. Non amo mai parlarne e sentirne parlare.

Vivendo sulla tua pelle quest’esperienza, ti senti di indicare qualche provvedimento che ritieni opportuno le istituzioni prendano per migliorare le condizioni di collaboratori di giustizia, scrittori e giornalisti minacciati dalla mafia?

Difendere chi si espone è il modo migliore per lo Stato di dimostrarsi credibile. Non sempre ne è stato all’altezza.

In più occasioni hai affermato che il tuo impegno politico (consigliere regionale dal 2010 nelle file dell’IDV, poi passato a Sel) è in qualche modo complementare all’impegno di regista. Ti sei immediatamente impegnato per fondare “Expo No Crime”, l’ente interistituzionale che si occupa di vigilare sul rispetto della legalità in occasione della grande esposizione universale che si svolgerà a Milano. Quale minaccia rappresenta l’Expo 2015 in termini di infiltrazioni mafiose? E quali misure ritieni opportuno applicare per limitarle al massimo?

Hanno scritto un documento importante pochi giorni fa a Milano: il comitato presieduto da Dalla Chiesa direi che ha scritto un “bigino dell’antimafia” che porta soluzioni fattibili e concrete. Poi le leggi bisogna scriverle, usarle e osarle. Al di là delle leggi però la domanda vera è: abbiamo una classe dirigente con lo spessore etico e morale per affrontare la sfida EXPO?

Il tuo coraggio, la tua caparbietà, appaiono eroici. Eppure Giovanni Falcone diceva che non è con l’eroismo degli inermi cittadini che si può sconfiggere la mafia, ma con l’impegno costante delle forze migliori delle istituzioni. Cosa dobbiamo pretendere che faccia lo Stato, per vincere questa battaglia che tu hai deciso di combattere?

Niente eroismi. Ognuno faccia la propria parte. Senza indifferenti. L’articolo 4 della Costituzione: Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.

Nicola Gratteri, magistrato di Reggio Calabria da vent’anni in prima linea contro la ‘ndrangheta, sostiene che è nella scuola che si può vincere questa battaglia. E tu hai scelto l’arte per combatterla. Fa davvero così paura la cultura ai boss?

Io non credo che si vinca solo con la parola. Ma sicuramente la cultura svolge un ruolo importante: nell’alfabetizzazione della mafia, nell’educazione all’antimafia, nella costruzione di una lettura collettiva del fenomeno. E la scuola è il luogo che ha questo dovere perché, non dimentichiamolo, dovrebbe essere lo Stato ad assumersene l’onere. Non attori e scrittori.

E tutti noi, semplici cittadini troppo spesso abituati – anche noi – a demandare agli altri il compito di essere eroi, cosa possiamo fare?

Convincerci che è una battaglia bellissima. Difendere la propria terra nel senso più intenso della parola, creare una rete solidale che sia un’associazione civica di stampo costituzionale.

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Tiltcamp2012

A Marina di Grosseto ci andavo da bambino. In campeggio. Con lunghe camminate in pineta per mano a mio padre. Era assessore alla cultura e all’istruzione del paesino in cui abitavamo: mi raccontava delle nuove stanze che stavano preparando a scuola e di cosa avrei trovato di nuovo. A settembre. Pensavo a come fosse bello essere lì, a Marina di Grosseto, mentre decidevano le sorprese che avremmo ritrovato. E che io ascoltavo per primo.

La politica quando ero piccolo a Marina di Grosseto mi sembrava una bellissima preoccupazione: occuparsi prima (e in tempo) dell’anno che veniva.

A Marina di Grosseto i ragazzi di Tilt quest’anno preparano il loro Tiltcamp. E si parla di politica, lavoro e delle preoccupazioni per l’anno che viene.

Noi, se volete, ci vediamo il 31 agosto, alle 19. E poi alle 21 con Nichi Vendola.

Il programma, luoghi, orari e modi sono tutti sul sito.

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A proposito di urgenza di programma: la Lombardia

Mentre se ne parla a livello nazionale (anche se, per ora, sapere dice quando e come sembra un’utopia estiva) Andrea su Non Mi Fermo rilancia le primarie anche in Lombardia. Cioè quando e come, appunto.

Magari evitando i pasticci siciliani, se ci si riesce.
O affrontandoli. Perché abbiamo sempre avuto un debole per i momenti in cui bisogna uscire allo scoperto.
E siamo pronti. Noi. E con le idee chiare.

Una brutta storia calabrese

Carissimi amici della Rete, il vescovo di S. Marco Argentano-Scalea vuol querelarmi perché in una mia recente inchiesta sull’Abbazia florense ho pubblicato notizie su di lui, prese da atti pubblici. Su Infiltrato.it ci sono vari articoli a riguardo. Io ho agito secondo coscienza. Dalla parrocchia sono spariti 2 milioni di euro e i silenzi e le complicità diffuse hanno prodotto danni enormi. La vicenda è collegata anche al restauro del monumento. Nessuno, in Calabria, ha speso una parola in mio sostegno. Vi segnalo il caso perché è l’ennesima ferita alla nostra terra e al coraggio della giustizia. Vi abbraccio forte.

Inizia così la richiesta di aiuto di Emiliano Morrone. E la storia vale davvero la pena leggerla per capire le dinamiche che contribuiscono all’isolamento delle notizie e, se possibile, delle persone.

Qui l’inchiesta completa da Infiltrato.it:

Un prete incapace di tenere cassa, un geometra che lo rappresenta in vendite gonfiate e un sodalizio per smerciare opere sacre, sottratte alla chiesa. Il sacerdote s’indebita. Compra regali costosi, dicono i fedeli, incrociandolo in ristoranti, bar e pasticcerie. Apostolato e gola, mormorano le comari, che ridacchiano d’una presunta omosessualità del personaggio, rimproverandogli il vizio del whisky …
Al religioso servono soldi, quindi cede abusivamente loculi che la parrocchia dovrebbe donare ai poveri. Dopo manda in restauro confessionali, reliquari e candelabri. Tutto alla buona, sulla fiducia. Lo riferisce in una telefonata a un vecchio amico.
Colpevole, poi il prete patteggia: per le opere sparite, i loculi e dei terreni venduti a prezzo doppio rispetto all’autorizzazione della curia. Un anno con pena sospesa e via, esce di scena. Gli altri del giro, tra cui commercianti e restauratori, sono a processo. Imputato anche un vescovo, per aver informato il prelato, da vicario dell’arcidiocesi, delle indagini a suo carico. Ma c’è molto altro…

L’apparenza inganna
Messa così, sembra una storia di spiccioli, di complici che corrono per arrotondare. Come il geometra, che per l’allegra provvigione viaggia in su e giù a piazzare immobili parrocchiali, tra compromessi congelati e nuovi acquirenti; guarda caso funzionari comunali, pronti a trasformarne la destinazione: da suoli agricoli a edificabili.
La vicenda saprebbe di classico dell’Italia in miniatura; quella riunita intorno al campanile, in cui i bravi praticanti ricevono umane ricompense: un aiuto, una spinta, un incarico. Parrebbe l’altra faccia del presepe di borghi, lentezza e calore sociale, quella col mito della «roba»; tutto sommato fisiologico in provincia, dove si mangia sano, l’aria è pura e la crisi ancora astratta.
Invece no, la storia è molto più complessa e articolata, sporca.

Un giro da due milioni di euro
Tanto per cominciare, non si sa che fine abbiano fatto i quattrini incassati dal prete, don Franco Spadafora, allora parroco di S. Maria delle Grazie-Abbazia florense, a San Giovanni in Fiore (Cosenza). «Parliamo – riferisce l’attuale abate, don Germano Anastasio – di qualcosa come due milioni di euro». Tanto sarebbe il valore dei beni alienati.
Dall’altare don Anastasio denuncia i traffici, durante la messa domenicale; brusio e stupore tra i banchi.
Il benedettino padre Santo Canonico, che sostituì don Spadafora, descrisse la situazione trovata al vescovo di Cosenza, Salvatore Nunnari: «i conti correnti postale e bancario privi di qualsivoglia minima liquidità» e «debiti artatamente sottaciuti nel verbale di consegna». Nel documento riservato, di cui Infiltrato.it è entrato in possesso, troviamo, tra i debiti prodotti da don Spadafora: un decreto ingiuntivo di 1.310,37 euro, per libri dalle Edizioni Paoline di Torino; 5.602,31 euro di bollette gas non pagate per l’asilo parrocchiale; 4.694,87 euro di scoperto per il riscaldamento della canonica e 511,31 euro per il metano dell’Ufficio parrocchiale; circa mille euro per la fornitura dell’acqua, ignorata dal 1997 al 2006.
Più sotto, padre Canonico precisa al vescovo Nunnari gravi irregolarità amministrative della gestione Spadafora: «mancata restituzione di un confessionale antico che don Spadafora dice di aver dato per restauro a un falegname di San Giovanni in Fiore»; «mancata consegna della cappella cimiteriale di pertinenza della parrocchia con i loculi impropriamente ceduti a terzi». Ancora, il monaco benedettino segnala la sparizione di due candelieri e di cornici antiche.

La Chiesa sapeva da tempo
In una successiva lettera al vescovo Nunnari, padre Canonico espone le irregolarità riscontrate nella vendita di terreni parrocchiali: don Spadafora ha percepito somme aggiuntive, alzato il prezzo autorizzato dalla Curia di Cosenza. A riguardo, Canonico informa Nunnari d’aver edotto, «senza alcun riscontro», sia Spadafora che il vicario generale della diocesi, monsignor Leonardo Bonanno, il quale poi diventerà vescovo di San Marco Argentano (Cosenza), ordinato da Nunnari.
Canonico riferisce che, per dei terreni, 51.670 euro sarebbero stati consegnati direttamente a Spadafora, senza un rogito notarile. Tutti i passaggi di denaro, mostrano le carte, avvengono a mano, con annotazioni simboliche. Quasi una concessione del don, che, col factotum della parrocchia, il geometra Tommaso De Marco, incassa migliaia di euro a botta. In scioltezza, per loculi e immobili.
Di seguito, Canonico, riferendosi a suoli donati alla parrocchia, interroga l’arcivescovo Nunnari: «l’enorme ricavato della vendita come è stato investito?». Lo stesso mittente osserva che, secondo una prescrizione ribadita dal Ministro dell’Interno, «la vendita ritraibile dagli immobili sarà destinata all’Ospizio San Vincenzo, conformemente alla volontà del testatore», il dottor Alfredo Antonio Oliverio.

Il giallo della casa di riposo
E qui cominciano i problemi, proprio con l’Ospizio San Vincenzo, ubicato nel complesso dell’Abbazia florense, monumento del XIII secolo. L’opera di carità, nata per beneficienza e da sempre gestita dalla Chiesa, viene ceduta con scrittura privata dalla parrocchia Santa Maria delle Grazie, di San Giovanni in Fiore, alla società San Vincenzo de’ Paoli. L’atto, del 3 maggio 2006, è registrato il 23 maggio dello stesso anno, all’Agenzia delle Entrate; in concomitanza con il trasferimento di don Spadafora, dovuto alla durata del mandato. Il 3 maggio 2006 è, coincidenza, la data dell’atto di costituzione della srl San Vincenzo de’ Paoli, i cui soci sono Antonio, Gianfranco e Giuseppe Atteritano, insieme a Domenico Ferrarelli.
La società assume gli oneri debitori della casa di riposo e ottiene da parrocchia e curia eventuali diritti disponibili, l’uso dei locali e tutti i beni destinati all’esercizio dell’attività, che in breve diventa di lucro: una residenza sanitaria assistita, accreditata presso la Regione Calabria. Oltre a quella di don Spadafora, nella scrittura privata c’è la firma di monsignor Bonanno, «che garantisce, con la sua sottoscrizione, che la Diocesi approva l’atto» fra le parti.

Quei debiti “tutelati”
Nel testo si legge di un elenco dei debiti della casa di riposo, la cui entità non è nota. Neppure ai carabinieri del Nucleo di tutela del patrimonio culturale (Ntpc), che dicono di non ricordare. Il punto sta proprio nell’importo sconosciuto, anche perché i locali dell’ex ospizio (della Chiesa) sono proprietà del Comune di San Giovanni in Fiore. Lo confermano al Nucleo, con assoluta certezza. E parlano le carte, le leggi, le risultanze di una commissione paritetica Comune-Chiesa e un vecchio inventario in municipio. Benché, come vedremo, presso il Tribunale di Cosenza stia andando in scena un processo per la determinazione in giudizio del legittimo proprietario.

Incassa un monte ma cede per debiti. E quei soldi?
Don Spadafora racconta agli inquirenti d’aver destinato all’ospizio tutti i ricavi delle vendite illecite; che, secondo una stima, s’aggirano, con le opere trafugate, intorno ai due milioni di euro. Tuttavia, il prete cede l’ospizio per debiti, con l’avallo della Curia arcivescovile di Cosenza, il cui vertice, Nunnari, dichiarerà più avanti di non sapere. L’ospizio dei poveri, cha dal Comune aveva in comodato gratuito i locali, diventa una rsa, la cui proprietà non paga un centesimo al municipio, obiettando l’accordo privato con la Curia di Cosenza.

Conversazioni strane
I carabinieri ricostruiscono gli stretti rapporti fra don Spadafora e monsignor Bonanno, che si sentono spesso per telefono, a volte ogni giorno. In un’intercettazione, Spadafora narra a un amico d’essere stato una sera dal Bonanno, «che gli ha fatto vedere cose belle e importanti e che sta mostrando il meglio di sé in questo periodo». Nonostante che Bonanno sia il vice di Nunnari, né lui né il vescovo assumono provvedimenti nei riguardi di Spadafora. Anche dopo la condanna, Spadafora non riceve sanzioni da Nunnari. Perché?

Procura senza proteine?
Al Ntpc sostengono che la cessione dell’opera di carità presenta profili di rilievo penale. La Procura di Cosenza è di altro parere, e, su denuncia di don Anastasio, incrimina solo gli autori del traffico di opere sacre, a partire da don Spadafora; il quale, peraltro, è tra i protagonisti della grave vicenda del restauro dell’Abbazia florense, avviato con fondi europei e sospeso per problemi amministrativi e un processo penale.
Finanziato dall’UE per 1.750.000 euro, i progettisti (Domenico Marra, Giovanni Belcastro e Salvatore Marazita) furono nominati da don Spadafora, che chiese loro di predisporre degli elaborati. Guidata da Riccardo Succurro (allora Ds), la giunta comunale di San Giovanni in Fiore, recepì con la delibera 883/1996 la scelta del prete, mentre l’amministrazione del socialista Antonio Nicoletti affidò ai medesimi la direzione dei lavori. Sempre con delibera di giunta: la 112/2006.

Abuso d’ufficio perduto negli uffici
L’Autorità di vigilanza sui lavori pubblici considerò gravissime queste irregolarità, compiute dal Comune, secondo l’organo centrale, per aggirare la normativa sulle gare. Il Ncpc fece lo stesso ragionamento alla Procura di Cosenza, insistendo almeno due volte, ma senza ascolto, per l’ipotesi di abuso d’ufficio in capo agli assessori delle due giunte, Succurro e Nicoletti.
Ora Marra, Belcastro e Marazita sono sotto processo, insieme al rup Pasquale Tiano, per lavori ordinati senza l’autorizzazione delle soprintendenze. Mentre l’Abbazia florense, legata al profeta e teologo della storia Gioacchino da Fiore, rischia enormi danni per l’iter del restauro, che secondo la Soprintendenza per i Beni Archeologici e per il Paesaggio ha causato lesioni e modificazioni importanti. Tanto che al Ntpc dicono che con una minima scossa l’edificio religioso può crollare, malgrado le rassicurazioni del deputato Pd Franco Laratta, per il quale tecnici di sua fiducia ne garantiscono la staticità.

Le antiche ruberie: quando sparirono i quadri di Mattia Preti
In questa città della Calabria – quasi sconosciuta, se non fosse per l’assistenzialismo, il clientelismo e, anzitutto, l’abate Gioacchino da Fiore – troppi sono i rapporti ambigui fra Chiesa, politica e imprenditoria, parati da un’estetica di provincia che annebbia gli occhi e la mente. Iniziative filantropiche per scaricare le tasse, processioni religiose che diventano laiche e inaugurazioni civili con l’angolo del sacro. Politici a braccetto con vescovi e giornali che cantano le gesta dell’alleanza, senza un cenno a responsabilità morali e di ruolo.
Qui si stanno dividendo l’Abbazia florense, distruggendone la memoria e il messaggio di Gioacchino. Con silenzi o complicità nascoste, specie se la magistratura è troppo ingolfata o forse troppo pressata. Qui gli appetiti sono molti e pochi i controlli, il senso del bene pubblico.
Già nella seconda metà del Novecento, tra spinte dalla Chiesa e astuzia in municipio, sparirono dall’Abbazia florense dei quadri di Mattia Preti. Poi il complesso badiale fu sfregiato per ignoranza, approssimazione, indifferenza; per le commesse agli amici. Lo racconta con rabbia Peppino Gentile, ex consigliere comunale missino, che descrive il patrimonio perduto, osservando il ripetersi delle antiche ruberie, dell’affarismo intorno alla sacrestia.
Il male non si può ridurre alla fattispecie penale. Era la lezione di Paolo Borsellino. E la stessa fattispecie dipende dal giudizio e dalla coscienza di uomini.

La rete degli Atteritano
La San Vincenzo De’ Paoli srl è, in maggioranza, della famiglia Atteritano. Antonio, figlio di Giuseppe, già segretario di sottosegretario di Stato, è il rappresentante comune. Nel tempo libero fa anche il presidente d’una società sportiva che vinse una gara della Provincia di Cosenza per la gestione del palazzo comunale dello sport. La procedura, per quanto a bandire dovesse essere il Comune di San Giovanni in Fiore, proprietario, fu ratificata dal commissario prefettizio Maria Carolina Ippolito, a ridosso delle nuove elezioni.
La fisiologia è identica alla vicenda della casa di riposo: la proprietà, dei locali di cura o del palazzo, è una sorta di entità deducibile e protettiva in un tempo. Il possesso (da parte di Atteritano) è una garanzia, in entrambe le situazioni. Perché la giustizia ha tempi biblici e, comunque, tutti sono convinti che, nel dubbio, è meglio condurre delle attività: dai viceprefetti ai giuristi, dai vescovi ai deputati, Mario Oliverio (Pd), presidente della Provincia di Cosenza, e Laratta.
In questo unisono, in questa corrispondenza di amorosi sensi, quando l’Abbazia florense rimase ingabbiata per tre anni a causa di errori tecnici finiti nel penale, la politica accusò i movimenti che denunciarono le irregolarità e manifestarono per il monumento. La Chiesa tacque. Il vescovo Nunnari, che oggi ci racconta di don Anastasio come l’unico difensore della povera abbazia, non rispose all’invito, per telegramma, alla catena umana del 5 gennaio 2010. Manco per una benedizione. Allora cittadini e associazioni cinsero l’edificio religioso con un abbraccio simbolico, per portare il caso alla ribalta nazionale. Partecipò via web Salvatore Borsellino.

La causa per il rilascio della casa di riposo e il bonifico da 7mila euro rifiutato da Anastasio
Nunnari fece incontrare Anastasio con Giuseppe Atteritano e Domenico Ferrarelli, a sua insaputa. Convocazione urgente per la vicenda della casa di riposo dentro l’Abbazia florense e richiesta, ad Anastasio, di nominare lo stesso avvocato, Carlo d’Ippolito, nel procedimento civile contro il Comune di San Giovanni in Fiore. «Un procedimento obbligato – racconta Filomena Bafaro, legale del Comune – perché c’erano pressioni troppo forti dell’opinione pubblica (alimentate dall’allora consigliere comunale Angelo Gentile, dei socialisti di Zavettieri, nda) e fu necessario costituirsi contro Atteritano e la Curia; anche se la citazione, confesso, è stata così, senza troppo approfondimento, giusto per». Difatti, come osservato in via preliminare nella comparsa di costituzione da D’Ippolito, legale della Curia, «il Comune di San Giovanni in Fiore dichiara di essere proprietario dell’immobile per cui è causa ma della circostanza non fornisce alcuna prova».
D’Ippolito ottiene d’inserire la parrocchia di Santa Maria delle Grazie nel procedimento. La causa va avanti. Anastasio racconta che il compenso professionale pagato dalla Curia è, da sue notizie, di 7mila euro. Il 4 maggio 2012 arriva sul conto della parrocchia un bonifico di 7mila euro, senza causale, da parte della S. Vincenzo de’ Paoli srl. Anastasio lo restituisce (copia dell’ordine bancario in foto, nda).

Vescovo protegge vescovo. Si recita a soggetto
Il vescovo Nunnari, in una lettera di risposta alla richiesta di autorizzazione per costituirsi parte civile nel processo per la sparizione delle opere sacre, informa don Anastasio di un’udienza a fine maggio 2012. Nello stesso processo c’è il vescovo Bonanno, accusato di rivelazione di segreto istruttorio. L’udienza, invece, si tiene l’otto maggio, ma Anastasio viene a saperlo dopo. Bonanno avrebbe tentato il patteggiamento, come Spadafora. Ma il giudice avrebbe respinto, con successivo ricorso dell’imputato in Cassazione. L’uso del condizionale è obbligatorio. Qui nessuno ti fornisce notizie, nessuno parla. La cappa del silenzio e la cappa dell’ipocrisia.
Certi, però, i rapporti politici e bilaterali. Nella rsa di Atteritano lavora come medico Luigi Astorino (Pdl), presidente del consiglio comunale di San Giovanni in Fiore, mentre il socio Ferrarelli è del Pd, vicino al governatore provinciale di Cosenza, Oliverio.
In questo angolo di Calabria, regione di confine, il teatro della politica e la politica del teatro spesso coincidono. I ruoli si mescolano, confondono, svaniscono, per ritornare nei riti. Che siano parate o processioni non importa. Di là dai colori di partito, ciascuno ha una posizione nello scacchiere del potere, e c’è da guadagnare con il silenzio, l’obbedienza, l’accettazione del sistema.

Fuori dal sistema, ricordando don Diana
A noi restano delle domande, che forse la procura scarterà per motivi suoi, di ermeneutica giuridica. In primo luogo vorremmo sapere che fine hanno fatto i soldi intascati da don Franco Spadafora. Poi vorremmo, di là dal diritto, che i vescovi Nunnari e Bonanno rispondessero alla coscienza pubblica, che non è solo quella di San Giovanni in Fiore, immersa nel paganesimo politico. Vorremmo che spiegassero in rete, qui dove il controllo è l’argomentazione, la logica, che ne sarà dell’Abbazia florense, bene dell’umanità, e dell’abate Anastasio, uomo e sacerdote che, in solitudine, ha denunciato reati, omissioni e pericoli. Con lo stesso coraggio e animo di don Peppe Diana.

LA REPLICA
La Chiesa sapeva da tempo dello scandalo dell’abbazia di San Giovanni in Fiore. Tutti sapevano ma in pochi hanno commentato a caldo la nostra inchiesta esclusiva sui due milioni spariti in silenzio. Nonostante l’attuale abate, don Germano Anastasio, abbia denunciato anche dall’altare ciò che è accaduto con don Franco Spadafora. A questo si aggiunge la nostra controreplica, in attesa di pungolare il Vescovo.
di Viviana Pizzi

È stato il vicensindaco di San Giovanni in Fiore (Cosenza), Battista Benincasa (Pdl), a rompere il muro del silenzio e a dirci per primo la sua opinione su quanto avvenuto a San Giovanni in Fiore. Chiarendo innanzitutto la posizione del presidente del consiglio comunale Luigi Astorino (Pdl), medico presso la casa di riposo.
“Ci tengo a chiarire – ha detto Benincasa – che non c’è nessuna connivenza politica tra il presidente del consiglio comunale e l’incarico che aveva alla casa di riposo. Non aveva nessun legame con chi gestiva la casa dove lavorava come medico. Pensare questo mi sembra ingiustificato e ingeneroso. Per quanto riguarda l’inchiesta c’è la magistratura che farà luce sulla cosa. I soldi sono stati presi e qualcuno dovrà pur pagare”.
Antonio Barile (Pdl), primo cittadino di San Giovanni in Fiore, ha preferito non commentare, passando la palla all’assessore comunale alla cultura, Giovanni Iaquinta. Il quale ha puntato tutto sulle bellezze artistiche dell’Abbazia e sulla sua storia.
“Considerato lo sviluppo e il decollo della nostra città – ha dichiarato Iaquinta – non si può questo complesso è la parte più prestigiosa della nostra comunità. Di conseguenza, senza entrare nel merito della vicenda, ritengo che i tempi siano maturi per affrontare l’argomento e per mettere in luce il valore universale dell’Abbazia. Colgo l’occasione per rendere omaggio a don Vincenzo Mascaro, che nel 1989 ha permesso la riapertura del sito. A me le polemiche sterili non interessano, posso solo dire che l’Abbazia è un buon esempio di civiltà per i calabresi nel mondo. Trattare la questione in modo strumentale non serve a nessuno. Parlare di Abbazia equivale al giorno d’oggi a quattro variabili importanti: cultura, civiltà, storia e futuro”.
“Più in generale – ha proseguito Iaquinta – significa un attaccamento a una forma sempre viva e vincente di civiltà, una nuova forma di umanesimo che è ancora importante e fondamentale nel ventunesimo secolo”.
Un parere arriva anche da Franco Laratta, deputato Pd e segretario cittadino del partito di San Giovanni in Fiore.
“Non entro nel merito dell’inchiesta”, ha dichiarato il parlamentare democratico, aggiungendo: “L’Abbazia in quel periodo ha conosciuto una delle migliori gestioni in assoluto. In quegli anni il turismo ha avuto davvero un’impennata. Nelle questioni personali di don Franco Spadafora non voglio entrare. C’è stato un processo ed è stato condannato. È al centro di una vendita di beni. Si trova lì e non si sa bene come. Non sappiamo se è stato costretto a subire un ricatto”.
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di Emiliano Morrone
A bon entendeur salut, dicono i francesi. Reputo interessanti i commenti alla nostra Viviana Pizzi di rappresentanti istituzionali di San Giovanni in Fiore (Cosenza), la città di Gioacchino da Fiore e della sua Abbazia florense, monumento del XIII secolo sfruttato, svenduto, spartito e abbandonato.
Ieri abbiamo raccontato, carte alla mano, come da reati commessi da un prete, don Franco Spadafora, si siano create le condizioni per un ignobile mercato intorno all’Abbazia florense, la cui architettura esprime la verità di un’antica tradizione spirituale, utopistica, attualissima nell’odierno capitalismo finanziario.
Il Vangelo parla, sappiamo, della cacciata dei mercanti dal tempio. Ciò è esattamente quanto la Chiesa, che è istituzione, deve fare per tutelare se stessa, la memoria e la santità viva di Gioacchino, anche in senso laico-rivoluzionario.
Gioacchino da Fiore è il precursore del francescanesimo ed è il profeta della «Terza Età», un tempo di emancipazione spirituale.
Ma scendiamo nel concreto. La Chiesa è chiamata ad agire, dopo i gravi e inquietanti episodi accaduti: sparizione e commercio di opere sacre, vendita illegittima di loculi e terreni parrocchiali, abusi su proprietà pubbliche, complicità in violazioni amministrative accertate, oltraggio al testamento di un benefattore (il dottore Alfredo Antonio Oliverio) e mancanza di trasparenza nella gestione di beni della comunità religiosa, con appropriazione di suoi valori da parte di ignoti, ad oggi impuniti.
Questo elenco di scempi e razzie è la causa dell’imperdonabile degrado dell’Abbazia florense, per le ragioni che abbiamo esposto nella nostra inchiesta di ieri. La politica doveva entrare nel merito, doveva dirci se è vero o falso quanto ha scritto Infiltrato; magari accusandoci di mistificazione, di stoltezza, d’invenzione suggestiva, di sciacallaggio, di opportunismo all’ennesima potenza. Doveva assumersi la responsabilità della parola, perché, al di là della storia profonda della Calabria, che sempre abbiamo difeso, siamo in una regione di silenzi, omertà e paura di schierarci.
Noi una posizione l’abbiamo presa, assumendocene ogni onere. Non abbiamo affatto accusato di «connivenza» il presidente del consiglio comunale Luigi Astorino, né crediamo che don Spadafora sia un mostro di cui liberarsi. Al contrario, ma qui mi pare pleonastica un’interpretazione autentica, abbiamo espresso un concetto semplicissimo: i soldi che il prete ha intascato sono spariti. Si parla di due milioni di euro. Sono andati alla casa di riposo, prima che fosse ceduta per debiti, o, come il deputato Laratta ha ipotizzato, sono valsi a fermare qualche ricatto ai danni di don Spadafora?
Per ultimo, basta con le difese d’ufficio, detto con rispetto. E basta con i discorsi generici, astratti. Qui dobbiamo abituarci a ragionare sui problemi e, di là dagli accertamenti della magistratura, che interessano solo il penale, dobbiamo fornire risposte rapide, coraggiose e vere.

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Una bella domanda

Quindi ricapitoliamo: il Pd prima perde le primarie a Palermo, poi annuncia che riformerà le primarie, quindi arriva alle elezioni (regionali) e da un momento all’altro candida un suo uomo esultando, sì, per l’alleanza con l’Udc (e dunque con i compagni di partito dell’ex senatore Cuffaro, ah non ci avevate pensato?) ma “dimenticandosi” di convocare le primarie, con la scusa che le elezioni, dannazione, sono tra pochi giorni, e dunque il tempo non c’è. C’è altro da aggiungere?

Se lo chiede Claudio Cerasa. E anche noi, in fondo.

Il vizio delle vacanze di Roberto Formigoni

Un articolo uscito su L’Espresso. Sarei curioso di sapere cosa ne pensa la Curia milanese, sempre impegnata sui diritti civili degli altri e ogni tanto confusa nella proiezione di castità e povertà del nostro Governatore lombardo:

Dalle Antille alle Alpi, spuntano nuove vacanze del governatore. Con i pagamenti dell’assessore Ponzoni, arrestato a gennaio
(di Paolo Biondani e Michele Sasso – l’Espresso)

Piero Daccò non è solo. Il grande lobbista ciellino, in carcere dal novembre 2011, non è stato il primo né l’unico a dispensare regali di lusso a Roberto Formigoni. Il governatore lombardo ha ricevuto doni costosi anche dal suo ex assessore regionale Massimo Ponzoni, sfortunatamente agli arresti dal gennaio 2012. Certo, le cifre del caso Daccò restano un record ineguagliato: il faccendiere della sanità privata, secondo i pm di Milano, avrebbe pagato all’amico Formigoni, ora indagato per corruzione, le spese di tre yacht, varie vacanze esotiche e altri benefici per almeno 7,8 milioni. I regali di Ponzoni sono molto meno favolosi, infatti non sono costati alcuna accusa a Formigoni, ma segnano comunque una svolta politica: non si era ancora visto un assessore che stanzia decine di migliaia di euro per donare oggetti preziosi e vacanze ai Caraibi al suo presidente.

Questa nuova storia di regali a Formigoni è stata ricostruita, almeno nelle parti documentabili, in tribunale a Monza, nel processo che vede Ponzoni imputato di corruzione e bancarotta. Tutto nasce dal memoriale di un commercialista terrorizzato. Sergio Pennati, 54 anni, brianzolo doc, è stato per un quinquennio l’amministratore-prestanome delle imprese del politico. Il 4 dicembre 2009 chiude in cassaforte un manoscritto di nove pagine, destinato a moglie e figli. Pennati teme di morire e scrive di aver ricevuto «minacce in stile mafioso da Ponzoni». Quindi spiega il suo ruolo di «fiduciario». Rivela svariate corruzioni edilizie nei comuni brianzoli, in provincia di Monza, e all’ospedale Niguarda di Milano, accusando ciellini e pidiellini. E documenta di aver sottratto milioni dalle casse aziendali per finanziare «la costosissima campagna elettorale di Ponzoni» e saldargli «spese personali». Con i soldi di un’immobiliare poi fallita, precisa il commercialista, «ho dovuto pagare varie volte noleggi di barche e vacanze esotiche a Ponzoni e al suo capo Formigoni».

In quel momento Ponzoni è l’assessore lombardo «alla qualità dell’ambiente» e le accuse a Formigoni di ricevere regali da sultano sono ancora inimmaginabili. A Milano i pm che indagano sulla ‘ndrangheta trasmettono a Monza le prime intercettazioni su Ponzoni. Il 3 dicembre 2010 la Guardia di Finanza trova il memoriale di Pennati. Che conferma tutto e accusa il politico di averlo minacciato perfino «nel suo ufficio in Regione».

Ponzoni intanto viene rieletto e diventa “sottosegretario” di Formigoni. Nel gennaio 2012 viene arrestato. I soldi sottratti alle società fallite sono un problema per lui, che è tuttora ai domiciliari, ma non per Formigoni, che non viene indagato. Sul presidente, del resto, c’erano solo le parole di Pennati. Ora, al processo, i testimoni dell’accusa hanno esibito bonifici e fatture. E in aula Ponzoni, difeso dagli avvocati Luca Ricci e Sergio Spagnolo, non ha smentito nessuno dei suoi presunti regali a Formigoni.

I primi documenti riguardano le vacanze di Pasqua del 2007. Una società di Ponzoni ha affittato per 23.572 dollari una villa da sogno a Saint Barthélemy, un’isola delle Antille francesi: quattro camere, quattro bagni, piscina, fitness e terrazze sul mare. Pennati, in tribunale, rivela quello che gli riferì Ponzoni: l’ospite d’onore di quella vacanza di dieci giorni ai Caraibi era Formigoni.

L’agenzia immobiliare, contattata da “l’Espresso”, non ha confermato né smentito l’effettiva presenza del governatore con amici, appellandosi alla «privacy dei clienti». Dunque non si può escludere che Formigoni abbia rinunciato al viaggio all’ultimo minuto, all’insaputa del commercialista che pagava. Ma di certo Ponzoni ha organizzato la vacanza per lui e ha scaricato il conto da 2.143 dollari a notte su una società in bancarotta, a cui nessuno ha mai restituito i soldi. E le soprese non finiscono qui. Fonti vicinissime all’ex assessore confermano a “l’Espresso” che «Ponzoni e Formigoni hanno fatto molte vacanze insieme». L’ultima nel dicembre 2011: poco prima dell’arresto, Ponzoni avrebbe passato «il ponte di Sant’Ambrogio a Saint Moritz insieme a Formigoni e a Massimo Guarischi», l’ex consigliere regionale del Pdl condannato per tangenti sulle alluvioni.

Se per la villa alle Antille è provato documentalmente solo lo stanziamento (e il danno ai creditori di Ponzoni), un altro prezioso regalo è ora confermato dallo stesso ex assessore. Il solito Pennati rivelò di aver dovuto comprare «un vaso da 10 mila euro», sempre a spese di una società fallita, «donato a Formigoni per il Natale 2006» e coperto «con una fattura fuorviante». Ora Ponzoni, in una memoria ai pm, ammette che in effetti «quell’importo fu da me utilizzato per un regalo per il presidente Formigoni». Pennati ricorda che fu «un certo Willy, segretario del governatore, a indicare a Ponzoni, in una cristalleria di Varedo, quale oggetto Formigoni poteva gradire».

Il catalogo dei resort a sbafo

I regali di Piero Daccò, per un valore stimato dai pm milanesi in 7,8 milioni di euro, sono soltanto l’ultimo capitolo di una lunga storia di benefici ricevuti dal governatore lombardo (e dagli amici più fidati) nella sua carriera politica.

VILLA SMALTIMENTO. Formigoni è ancora un europarlamentare come tanti quando la Guardia di Finanza, indagando sul fallimento di una società lombarda di rifiuti tossici, la Nord Italia Tbi, trova quattro fatture per «spese di rappresentanza anomale»: tra l’88 e il ’92 l’azienda indebitata pagava gli affitti estivi di una villa da sogno in Costa Smeralda. Cinque camere, quattro bagni e 5 mila metri di giardino a Punta Lada. Ospite non pagante, Formigoni.

PETROLIO A VELA. Eletto presidente lombardo nel ’95, Formigoni si batte contro l’embargo all’Iraq «per motivi umanitari». Nel 2004, dopo l’invasione americana, si scopre che il regime di Saddam aveva assegnato fiumi di petrolio alla Cogep, una società italiana «segnalata da Formigoni». Mentre il rappresentante del governatore, il ciellino Marco De Petro, ha incassato tangenti per «tre centesimi al barile» su conti esteri: condannato in primo grado, beneficia in appello della prescrizione. Formigoni non viene indagato: la Procura accerta solo che ha una barca a vela in comproprietà con De Petro.

CIELLINI IN SVIZZERA. La stessa inchiesta “Oil for food” fa scoprire altri conti elvetici con almeno 879 mila dollari versati dall’Alenia (Finmeccanica). I conti risultano intestati ad Alberto Perego, che vive da anni con Formigoni in una casa-comunità dei Memores Domini. Perego nega tutto, ma è smentito dalle rogatorie bancarie: all’inizio di quest’anno viene condannato in primo grado per falsa testimonianza.

IL TESORO DELLA SANITÀ. Il lobbista Piero Daccò e l’ex assessore ciellino Antonio Simone vengono arrestati con l’accusa di aver incassato oltre 80 milioni all’estero tramite fatture false: soldi versati dalle fondazioni Maugeri e San Raffaele per aumentare i rimborsi pubblici della Regione. Il governatore viene indagato per corruzione quando la Gdf scopre che Daccò, con quei fondi neri, ha pagato a Formigoni benefit per almeno 7,8 milioni: tre yacht costati 4,5 milioni, vacanze esotiche per 800 mila euro, ristoranti di lusso e l’acquisto sottocosto di una villa in Sardegna intestata al coindagato Perego. Formigoni si dichiara vittima di accuse false, ma per ora rifiuta di farsi interrogare dai pm.

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