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Giulio Cavalli

Prestiti garantiti dallo Stato ai clan, commissariata Banca Progetto

Banca Progetto, la banca digitale milanese nota per la cessione del quinto e il supporto alle PMI, è finita sotto amministrazione giudiziaria. Dieci milioni di euro sono stati concessi a società legate alla ‘ndrangheta, con garanzie statali previste dal Fondo Centrale di Garanzia, un sostegno destinato all’economia in crisi durante la pandemia e il conflitto russo-ucraino. Ma quei soldi invece di risollevare il tessuto economico, sono finiti direttamente nelle mani della criminalità organizzata. L’accusa è chiara: elusi i protocolli antiriciclaggio, favorendo imprenditori legati a clan mafiosi e traferendo il rischio d’insolvenza sullo Stato.

Prestiti milionari ai clan: la rete criminale tra banche e Stato

Le indagini, coordinate dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Milano, hanno portato a galla un sistema marcio e opaco, dove le verifiche sui clienti sono state del tutto trascurate. Nonostante gli ispettori di Banca d’Italia avessero rilevato già tra il 2021 e il 2022 “gravi criticità”, l’istituto ha continuato a concedere prestiti a società che, secondo l’inchiesta, erano pienamente inserite in dinamiche mafiose. Le società, riconducibili a soggetti legati ai clan, hanno ricevuto tra il 2019 e il 2023 finanziamenti per oltre 10 milioni di euro. Il clan, attivo nella provincia di Varese, è noto per reati fallimentari, tributari e trasferimenti fraudolenti di valori, tutti con l’aggravante del metodo mafioso.

I magistrati della Sezione misure di prevenzione del Tribunale di Milano non hanno usato mezzi termini: l’operato di Banca Progetto è stato “agevolatorio” verso il sodalizio criminale, contribuendo all’arricchimento della ‘ndrangheta con fondi pubblici. Un modus operandi “opaco e discutibile”, che ha ignorato i principi basilari della normativa antiriciclaggio e ha alimentato l’economia mafiosa, come evidenzia il decreto firmato dai giudici Pendino, Cucciniello e Profeta. La banca ha così trascurato qualsiasi forma di prevenzione, anche di fronte alle sollecitazioni della Banca d’Italia e dell’Unità di Informazione Finanziaria (UIF).

Uno dei casi più eclatanti riguarda un prestito da 3,5 milioni di euro, erogato il 10 febbraio 2023, mesi dopo i richiami di Banca d’Italia. L’indagine ha rivelato che Banca Progetto ha continuato a concedere crediti a società riconducibili a soggetti legati ai clan anche dopo l’arresto di uno di essi nel marzo dello stesso anno. “Sarebbe bastata una semplice verifica del mio nome” ha dichiarato il titolare durante un’udienza. Ma la banca ha ignorato anche questo, erogando prestiti a società legate all’imprenditore attraverso intermediari che, formalmente, non avevano nulla a che fare con lui.

Non si tratta di errori isolati o di singole disattenzioni. La documentazione raccolta dalla Guardia di Finanza di Milano ha dimostrato che il sistema era sistematico e continuativo. Banca Progetto ha deliberatamente ignorato i controlli necessari, trattando con faciloneria pratiche di finanziamento che avrebbero dovuto far scattare immediatamente campanelli d’allarme. Invece, come sottolineano i giudici, l’istituto ha messo in atto una politica aziendale orientata esclusivamente alla massimizzazione del profitto, lasciando che la criminalità organizzata accedesse a fondi statali senza alcun freno.

L’amministrazione giudiziaria, decisa dal Tribunale, affiancherà per un anno il management interno della banca. L’obiettivo è verificare le procedure e creare modelli organizzativi in grado di prevenire situazioni simili in futuro. Ma la vera domanda rimane: in un sistema economico sempre più digitalizzato, come può una banca che dovrebbe garantire sicurezza e trasparenza diventare così vulnerabile alla criminalità organizzata 

Controlli ignorati e procedure eluse: l’indagine della DDA

L’indagine ha portato alla luce la permeabilità di un settore che, sulla carta, dovrebbe essere blindato. La normativa antiriciclaggio è chiara e stringente ma la sua applicazione, come dimostra il caso di Banca Progetto, non sempre lo è. La ‘ndrangheta è riuscita a infiltrarsi in circuiti finanziari protetti da garanzie statali, e lo ha fatto con la complicità di chi avrebbe dovuto vigilare e controllare. L’assist ai clan è stato netto e il denaro, come affermano i giudici, è stato “cannibalizzato” dalla criminalità, con la beffa che quei soldi provenivano direttamente dalle casse dello Stato.

È così che la mafia continua a banchettare, in silenzio, mentre il dibattito pubblico sembra aver dimenticato la sua esistenza. Si preferisce parlare di altro, si preferisce non usare la parola “mafia”, come se non nominarla potesse cancellarla. Ma intanto loro, i clan, si infilano nei varchi lasciati aperti, si appropriano dei fondi destinati alle imprese in difficoltà e trasformano le banche in strumenti di riciclaggio. 

Banca Progetto non è il primo caso e, purtroppo, difficilmente sarà l’ultimo. E mentre i palcoscenici politici si concentrano su temi più immediati, la mafia resta lì, nascosta, ma ben presente. E soprattutto, banchetta.

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Altro schiaffo al governo sulla cannabis light

La crociata del governo Meloni contro la cannabis light si infrange ancora una volta contro il muro della realtà. Il Tar del Lazio ha confermato la sospensione del decreto del ministero della Salute che, con un colpo di mano a base di proibizionismo, aveva tentato di classificare il Cbd come sostanza stupefacente. Una decisione che sa di schiaffo sonoro all’ennesimo tentativo ideologico di questo esecutivo di fare guerra alle windmill del nemico immaginario. Ma si sa, quando l’ideologia prevale sulla scienza, quando la propaganda sovrasta il buonsenso, quando il pregiudizio offusca la ragione, il risultato è sempre lo stesso: una figuraccia. Perché il Cbd non è una droga, non lo è mai stato, e questo lo sanno tutti. Lo sa l’Europa che ne permette la commercializzazione, lo sanno gli esperti che ne attestano l’assenza di effetti psicoattivi, lo sa persino il professor Ciallella, ex direttore dell’istituto di medicina legale della Sapienza, che lo ha messo nero su bianco.

Eppure il governo insiste, accanendosi contro un settore che dà lavoro a migliaia di persone, che rappresenta un’opportunità di sviluppo per le aree rurali, che potrebbe essere un volano per l’economia agricola italiana. E mentre il Tar ricorda al governo che le leggi devono basarsi su evidenze scientifiche e non su pregiudizi ideologici, l’esecutivo prepara già la prossima offensiva con il Ddl Sicurezza, l’ennesimo tentativo di criminalizzare un settore legale e produttivo. Un accanimento terapeutico contro il buonsenso che sta diventando la cifra distintiva di questo governo. Ma la realtà, ancora una volta, si prende la sua rivincita. E non c’è decreto o emendamento che tenga quando i fatti sono più testardi delle ideologie.

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Antimafiaduemila intervista Giulio Cavalli sui centri di deportazione in Albania

Ritengo i centri costruiti in Albania, in tutto e per tutto, dei centri di deportazione”. È netto il giudizio del giornalista e scrittore Giulio Cavalli sui centri per migranti fatti costruire dal governo Meloni (per i quali sono stati messi a bilancio 700 milioni di euro) in accordo con Tirana. “I centri per i rimpatri sono dei buchi neri, anche dal punto di vista della legittimità legale, lasciando perdere la legittimità umanitaria; quella penso che nessuno abbia il coraggio minimamente di avvicinare a una visione umanitaria di trattamento di persone. Anche in Italia sono forieri di morti, di violenze e soprattutto di illegalità diffusa”, ha spiegato. “Il gioco sporco della politica”, ha poi puntualizzato Cavalli, “non l’ha fatto solo il governo Meloni; l’hanno fatto governi di tutti i colori, già con il ministro Marco Minniti nel 2017.” Secondo il giornalista, “c’è una componente politica non solo italiana, ma che attraversa tutta l’Europa e che in questi giorni si prepara alle battute finali della campagna elettorale degli Stati Uniti, ed è convinta che si possa far scomparire un certo tipo di persone. E promette ai suoi elettori di poterli fare scomparire.” Questa componente si scaglia contro chiunque si opponga, anche in forza del diritto, alle decisioni delle forze politiche, come i giudici, per esempio. Su questo aspetto, Cavalli ha commentato il grido al complotto lanciato dalla maggioranza rispetto alla decisione del Tribunale di Roma di far rientrare in Italia i primi 16 migranti mandati nei centri in Albania. “Questo è un governo che ha evidenti problemi con la legge; del resto, è il figlioccio di un presidente del Consiglio che ha utilizzato la politica come legittima difesa dai tribunali e che ha utilizzato la politica per suggellare un patto con Cosa Nostra. Evidentemente, il gene dell’illegalità simpatica è passato anche a questi suoi figliocci che ci ritroviamo oggi al governo”. Oltre al tema, attualissimo, delle politiche migratorie e dell’insofferenza della maggioranza all’indipendenza della magistratura, si è parlato anche di bavaglio alla stampa e dell’evoluzione delle mafie, specialmente al Nord Italia. In particolare si è parlato dell’unitarietà delle mafie (Cosa nostra, ‘Ndrangheta e Camorra romana) in Lombardia emersa dall’inchiesta Hydra della Dda di Milano. “Questo dimostra che la criminalità organizzata è stata molto brava ad attuare l’autonomia differenziata, molto meglio di Calderoli (ministro per gli affari regionali, ndr)”, è il commento di Cavalli (per 15 anni sotto scorta per aver denunciato il crimine organizzato). “Questa inchiesta ci racconta che mentre noi stiamo a interrogarci sulle parole che abbiamo usato fino a ieri sulle mafie, le mafie oggi sono già un’altra cosa”. 

Profilazione razziale dalle forze dell’ordine, un decennio di richiami ignorati

Le critiche rivolte all’Italia per episodi di discriminazione razziale non rappresentano una novità. Ogni tanto un rapporto internazionale riporta l’attenzione su un fenomeno che, sebbene noto, non è mai stato affrontato con la serietà necessaria. Il recente rapporto del Consiglio d’Europa, che denuncia la persistente discriminazione razziale da parte delle forze dell’ordine italiane, è solo l’ultimo di una lunga serie di richiami che a partire da oltre un decennio fa, continuano a segnalare irregolarità mai risolte.

Un decennio di richiami ignorati: il fallimento delle riforme

Come ricorda Pagella politica già nel 2012 il Comitato europeo per la prevenzione della tortura aveva sottolineato abusi legati alla profilazione razziale e all’uso sproporzionato della forza durante gli arresti, in particolare contro migranti e minoranze etniche. Quelle osservazioni furono seguite da altre, nel 2015 e nel 2017, quando il Comitato delle Nazioni Unite per l’eliminazione della discriminazione razziale (CERD) evidenziò come la polizia italiana continuasse a ricorrere a pratiche di profilazione etnica, soprattutto nelle aree ad alta densità di immigrazione. Nella maggior parte dei casi, queste segnalazioni non portarono a cambiamenti significativi, lasciando le stesse problematiche in sospeso.

A questi rapporti si sono aggiunte altre denunce, come quelle contenute nel documento del 2019 stilato dal Gruppo di esperti contro la discriminazione razziale del Consiglio d’Europa (ECRI), che riprendeva i temi già sollevati in passato. Eppure, nonostante le numerose sollecitazioni, le autorità italiane hanno tardato nell’attuare riforme concrete per evitare ulteriori violazioni. È evidente che il problema non si limita a singoli episodi (e a singoli governi): si tratta di una questione strutturale che ha bisogno di un intervento di più ampio respiro.

Il rapporto del 2021 del Consiglio d’Europa, che fa parte di questa lunga sequela di segnalazioni, ha ribadito come la Polizia italiana non abbia fatto passi in avanti significativi per evitare comportamenti discriminatori, soprattutto in contesti di controllo dei documenti e di ordine pubblico. Anche Amnesty International ha più volte denunciato le irregolarità nell’operato della Polizia italiana, sottolineando come i soggetti più colpiti siano sempre le persone di origine africana, i rom e altre minoranze etniche. La maggior parte di questi rapporti richiama anche l’assenza di un monitoraggio adeguato e trasparente sulle operazioni della Polizia, una lacuna che rende difficile quantificare con precisione l’impatto delle pratiche discriminatorie.

Discriminazione radicata: una questione strutturale

Un’altra importante raccomandazione, risalente al 2014, è quella del Comitato contro la tortura dell’ONU, che ha sottolineato la necessità di creare un meccanismo di controllo indipendente per monitorare i comportamenti delle forze dell’ordine. Anche questa proposta è rimasta inattuata. Nel 2018, il CERD ha nuovamente richiamato l’Italia, specificando che, senza un intervento legislativo chiaro e una formazione adeguata, sarebbe stato difficile interrompere il ciclo di violenza e discriminazione all’interno delle istituzioni di sicurezza.

Se questi rapporti condividono una cosa, è la loro capacità di far emergere un ritratto inquietante della Polizia italiana, in cui la discriminazione razziale sembra ormai radicata. Come evidenziato in un rapporto del 2020 dell’European Union Agency for Fundamental Rights (FRA), gli episodi di violenza e abuso di potere da parte delle forze dell’ordine non sono solo sintomatici di un problema italiano ma rivelano una questione più profonda: la mancanza di volontà politica per riformare efficacemente le forze di polizia. Questo ha portato a un circolo vizioso in cui le stesse raccomandazioni si ripetono, senza mai essere seguite da azioni concrete.

Il recente rapporto del Consiglio d’Europa del 2023 non fa altro che riaffermare ciò che era già chiaro.  Le testimonianze di discriminazione razziale non si fermano alle strade, ma proseguono all’interno delle carceri italiane, come abbiamo raccontato qui su La Notizia il razzismo diventa parte integrante del trattamento riservato ai detenuti di origine straniera, spesso soggetti a violenze e trattamenti inumani. Anche qui, i richiami da parte delle organizzazioni internazionali, come l’ONU e il Consiglio d’Europa, non sono mancati, ma l’azione concreta si fa attendere.

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Maysoon Majidi, scafista in un bicchiere d’acqua

Maysoon Majidi è nata in Iran. Nel 2019 con suo fratello scappa nella Kurdistan iracheno per sfuggire a un mandato di arresto. La sua colpa I diritti. Ci sono Paesi in cui la difesa dei diritti costa nel migliore dei casi il carcere e nel peggiore la vita. 

In Iraq persevera nel suo impegno, con l’associazione Hana. Quando non le viene rinnovato il permesso di soggiorno capisce subito che sarebbe stata un boccone prelibato per gli sgherri iraniani di Ali Khamenei. Decide di partire. Attraverso la Turchia fino alle coste del crotonese. 

Sulle coste crotonesi insieme ad alcuni compagni di sventura attracca in un Paese – il nostro – con l’ossessione di scovare scafisti in tutto l’orbe terraqueo. Così basta che alcune persone delle forze dell’ordine traducano poco e male le testimonianze dei suoi compagni di viaggio per essere accusata di essere l’aiutante del capitano, quindi scafista anche lei. 

La prova regina sarebbe che Majidi distribuiva acqua durante il viaggio, evitando che i migranti venissero cotti dal sale e dal sole. Ci vuole una gran fantasia per convincersi che una donna a rischio della propria vita per la difesa dei diritti umani decida di arruolarsi nella criminalità organizzata per qualche spiccio da guadagnare con una traversata. 

Il 31 dicembre dell’anno scorso viene arrestata e sbattuta in carcere. Lei reclama la sua innocenza, arriva a pesare 38 chili per uno sciopero della fame. Più della condanna teme ovviamente il rimpatrio in Iran. 

Dopo quasi 11 mesi ieri il tribunale di Crotone ha accolto l’istanza del suo avvocato e Maysoon Majidi ha potuto dormire da donna libera, in attesa della sentenza di assoluzione che dovrebbe arrivare il 27 novembre. Ah, gli scafisti. 

Buon giovedì. 

Foto dalla pagina facebook Maysoon Majidi

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Italia e Austria in pressing per inserire la Siria nell’elenco dei Paesi sicuri

Inserire la Siria nell’elenco dei paesi sicuri. No, non è l’inizio di una barzelletta ma l’ultima trovata di Italia e Austria che vorrebbero riscrivere la geografia della sofferenza umana con la penna dell’ipocrisia. Secondo fonti Ue, il governo di Giorgia Meloni starebbe lavorando a stretto contatto con il premier austriaco per fare pressioni su Bruxelles chiedendo all’Unhcr, l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, una verifica sull’esistenza di aree della Siria che possano essere considerate sicure per il rientro di alcune categorie di richiedenti asilo.

Facciamo un passo indietro: nel 2015, quando un milione di rifugiati siriani bussava alle porte dell’Europa, la Germania di Angela Merkel spalancava le braccia dicendo “Ce la possiamo fare”. Oggi, quasi dieci anni dopo, l’Italia di Giorgia Meloni e l’Austria di Karl Nehammer vorrebbero convincerci che quel paese, dove Assad ha usato armi chimiche contro il suo stesso popolo, sia improvvisamente diventato un resort a cinque stelle.

La realtà dei numeri non mente

Ma i numeri, si sa, sono testardi. Parliamo di 4,5 milioni di siriani fuggiti dal loro paese, un quinto della popolazione prebellica. Scappavano da una guerra civile che ha trasformato intere città in cimiteri a cielo aperto. E l’Europa, quella stessa Europa che oggi vorrebbe voltare loro le spalle, ha concesso protezione internazionale a 1,3 milioni di loro tra il 2015 e il 2023.

La realtà è che nel 2023 i siriani rimangono il gruppo più numeroso a chiedere protezione internazionale nell’UE. Più di 180.000 richieste solo l’anno scorso, con un incremento rispetto alle 130.000 dell’anno precedente. E il 90% di queste richieste viene accettato. Perché? Perché ogni singola autorità competente riconosce che rimandare queste persone in Siria significherebbe esporle a “un rischio sostanziale di danni gravi”.

Nehammer ha una prova inconfutabile della sicurezza siriana: 200.000 persone hanno attraversato il confine dal Libano alla Siria durante l’attuale crisi con Israele. Come se fuggire da una zona di guerra verso un’altra zona di guerra fosse la dimostrazione che la seconda è un paradiso terrestre. Per il premier austriaco cadere dalla padella alla brace significa che la brace era “sicura”. 

L’Agenzia dell’Unione europea per l’asilo (EUAA) è cristallina: un paese sicuro è quello dove “la legge è applicata democraticamente e le circostanze politiche non portano generalmente e costantemente a persecuzioni, torture, trattamenti o punizioni disumani”. La Siria di Assad, quello stesso Assad che l’UE ha sanzionato per l’uso di armi chimiche e torture sui civili, non rientra neanche lontanamente in questa definizione.

L’EUAA, nell’aprile 2024, definisce il governo di Assad come “un attore principale della persecuzione e dei gravi danni nel paese”. In alcune aree, come il governatorato di Aleppo, la sola presenza di un civile costituisce “un rischio reale di gravi danni”. Ma evidentemente per alcuni leader europei questi sono dettagli trascurabili.

L’ipocrisia europea al servizio della convenienza politica

La verità è che la proposta di “paese sicuro” è l’ennesimo tentativo di mascherare il fallimento delle politiche migratorie europee dietro una facciata di presunta legalità. È come dire a qualcuno che sta annegando che l’acqua non è poi così profonda.

E mentre i politici giocano con le definizioni, ci sono siriani in Europa che lavorano, studiano, contribuiscono alle nostre società. Persone che, come ricorda Eva Singer del Consiglio danese dei rifugiati, “vengono costantemente ricordate che potrebbero non essere autorizzate a rimanere qui”.

La Danimarca ci ha già provato dal 2019, sostenendo che Damasco fosse sicura. Risultato? Nessun siriano è stato deportato. Perché anche i tribunali sanno che la realtà non si può piegare alla convenienza politica.

L’ipocrisia ha le gambe corte, dice il proverbio. Ma evidentemente cammina abbastanza veloce da raggiungere i palazzi del potere europeo. La Commissione europea continua a ricordare che metà della popolazione siriana è sfollata e i bisogni umanitari sono ai massimi storici ma per alcuni governi, evidentemente, questi sono solo dettagli che intralciano la narrazione. 

La verità è che non esistono scorciatoie nella gestione dei rifugiati. 

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Dubbi sul rispetto dei diritti umani, Ursula alle prese con la grana Tunisia

L’accordo tra Unione europea e Tunisia, firmato nel luglio del 2023 e fortemente voluto dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni, è tornato sotto i riflettori grazie a un’indagine avviata dal Mediatore europeo. Dietro l’apparente formalità di un accordo politico, volto a rafforzare il controllo delle migrazioni irregolari, si nasconde una questione ben più profonda: il rispetto dei diritti umani. E proprio qui entra in gioco l’inchiesta dell’Ombudsman, che ha evidenziato l’opacità della Commissione europea nella gestione e nella comunicazione di questo delicato aspetto.

Diritti umani sotto esame: l’ombra sull’accordo Ue-Tunisia

Non è la prima volta che un’iniziativa dell’Ue, specie in materia migratoria, viene accusata di mettere i diritti umani in secondo piano. Ma stavolta la vicenda assume contorni più inquietanti, poiché l’Ombudsman ha esplicitamente criticato la Commissione per non aver condotto una valutazione adeguata dell’impatto sui diritti umani (Human Rights Impact Assessment, HRIA) prima della firma dell’accordo con la Tunisia. La questione non è solo una mancanza procedurale, ma un sintomo di come la politica migratoria europea continui a camminare sul filo sottile tra sicurezza e diritti, spesso sbilanciandosi sul primo aspetto.

Il Mediatore, nel suo rapporto, sottolinea che nonostante la Commissione avesse dichiarato che non fosse necessaria una valutazione formale dell’impatto sui diritti umani, è emerso che un esercizio di gestione del rischio sia stato comunque effettuato. Peccato che la Commissione non abbia ritenuto opportuno condividerlo con il pubblico, né con i principali attori coinvolti come le organizzazioni internazionali per la tutela dei diritti umani.

Il protocollo d’intesa tra Ue e Tunisia è un documento che non si limita a indicare linee guida sulla gestione della migrazione. Include anche il sostegno finanziario per la fornitura di attrezzature, la formazione e il supporto tecnico per le autorità tunisine nel controllo delle frontiere. Tuttavia, sono proprio le notizie provenienti dalla Tunisia che fanno sorgere i maggiori dubbi sulla correttezza di tali iniziative. Le denunce sui trattamenti disumani inflitti ai migranti, gli abusi e le violenze perpetrate dalle autorità locali mettono in discussione l’efficacia e l’eticità dell’accordo. Nonostante le rassicurazioni della Commissione sulla supervisione delle operazioni, l’assenza di una trasparente valutazione del rischio alimenta la sfiducia e i timori di violazioni sistematiche.

Trasparenza e responsabilità: le richieste del Mediatore europeo

Il Mediatore europeo ha chiesto alla Commissione di pubblicare una sintesi dell’esercizio di gestione del rischio e, soprattutto, di stabilire criteri chiari e pubblici per la sospensione dei finanziamenti qualora venissero identificate violazioni dei diritti umani. Questo punto è cruciale: l’Unione europea, che si pone come garante dei diritti fondamentali, non può permettere che i suoi fondi vengano utilizzati per alimentare pratiche contrarie a quei principi su cui è fondata. La trasparenza è il primo passo per garantire che gli aiuti non siano un’arma a doppio taglio.

L’Ombudsman ha anche proposto che la Commissione incoraggi la creazione di meccanismi di reclamo accessibili, attraverso i quali le vittime di abusi possano segnalare le violazioni. Un segnale forte, che sottolinea quanto la questione dei diritti umani non possa essere relegata ai margini, soprattutto in un contesto così delicato come quello dei migranti. Non si può pensare di risolvere il problema delle migrazioni irregolari con una militarizzazione delle frontiere, senza al contempo assicurarsi che vengano rispettati i diritti delle persone coinvolte.

La Commissione, da parte sua, ha dichiarato di monitorare continuamente la situazione attraverso le relazioni dei partner internazionali come l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM) e l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani (UNHCR). Tuttavia, il Mediatore ha sottolineato che la delega del monitoraggio a terzi non può sostituire una valutazione d’impatto formale e periodica, che garantisca una visione chiara e completa della situazione.

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Tra tribunali e governo chi sta esondando davvero?

C’è qualcosa di poeticamente perfetto nel tempismo con cui il Tribunale di Roma ha rigettato la richiesta di sorveglianza speciale per Giacomo Baggio di Ultima Generazione, proprio mentre il ministro Nordio tuonava contro la magistratura rea di “esondare”. Viene da chiedersi chi stia davvero esondando in questo Paese dove i fiumi tracimano con regolarità tragica mentre il governo si affanna a criminalizzare chi protesta per il clima.

La sentenza del Tribunale è cristallina: le azioni di Baggio non sono espressione di pericolosità sociale ma di appartenenza a un movimento che persegue l’ideale di contrastare il disastro ambientale. Una lezione di diritto e di democrazia servita su un piatto d’argento a chi vorrebbe trasformare il dissenso in reato.

È la terza volta che i tribunali respingono tentativi di applicare la sorveglianza speciale agli attivisti climatici. Tre schiaffi al tentativo grottesco di equiparare la disobbedienza civile nonviolenta alla criminalità organizzata. Ma questo governo preferisce sprecare tempo e risorse per intimidire chi ha il coraggio di alzare la voce mentre il Paese affonda nel fango.

Il DDL sicurezza è l’ultimo atto di questa deriva autoritaria. Un provvedimento talmente “iniquo” e “illiberale” da spingere persino i penalisti allo sciopero. Ma mentre la politica si arrampica sugli specchi della repressione, la magistratura ci ricorda che in uno Stato di diritto la protesta pacifica non può essere silenziata.

La storia insegna che nessuna repressione ha mai fermato le idee giuste. E di giusto, in questa storia, c’è solo chi ha il coraggio di alzarsi in piedi per difendere il futuro di tutti.

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Dal Silos alle strade, Trieste emblema del fallimento sui migranti

Per comprendere il fallimento totale della propaganda basta fare un salto a Trieste. Lì il Silos, un tempo rifugio precario per chi attraversava il buio della rotta balcanica, oggi è solo un moncone recintato. Sgombrato in poche ore, il 21 giugno 2024, dalle forze dell’ordine. E come in uno dei più tragici paradossi italiani a un edificio vuoto corrispondono strade colme di umanità alla deriva. A tre mesi dalla chiusura, Trieste è diventata il simbolo di un fallimento annunciato, una città trasformata in bivacco per migranti che dormono all’aperto, dimenticati da uno Stato che li ha trasformati in un problema da spostare altrove.

Il rapporto “Silos Vuoto, Strade Piene” è la cronaca dei danni della propaganda. A Trieste ogni notte centinaia di persone si riparano sotto i portici della stazione, come ombre che infestano le mura. Secondo i dati del report nei tre mesi successivi allo sgombero più di 5.000 persone sono transitate per la città. Migranti in viaggio, migranti in attesa, migranti lasciati al freddo e alla pioggia, come se la chiusura di quel vecchio edificio avesse potuto cancellare la loro esistenza. Invece l’umanità s’è sparpagliata, ancora più disperata. 

E allora eccoli lì, gli “invisibili” del Silos, ammassati in Piazza Libertà. Un uomo siriano, piegato dalla fatica e dalla disperazione, si racconta così: “Siamo fantasmi. Nessuno ci vede, nessuno ci aiuta”. Eppure sono lì, ogni sera, con il corpo segnato dal freddo e dalla pioggia, bambini infreddoliti e respinti . “Il mio bambino ha la febbre”, dice un padre curdo, “non so più cosa fare. Camminiamo, ci spostiamo, ma non ci accolgono. Il Silos era una speranza, ora non c’è più nulla”. 

Silos vuoto, promesse mancate

Lo sgombero del Silos avrebbe dovuto essere, nelle intenzioni, una soluzione. È il culto dello sgombero propagandato come risolutorio. La realtà è un’altra: chiudere quel rifugio di fortuna ha solo spostato il problema. Era stato promesso l’ampliamento dell’Ostello di Campo Sacro, l’installazione di moduli abitativi per aumentare la capacità di accoglienza. Parole. Perché i posti restano insufficienti, e i lavori si trascinano. Nel frattempo, Piazza Libertà si anima ogni sera come un teatro di disperazione, tra volontari che distribuiscono cibo e vestiti e bambini che dormono sui marciapiedi. 

La retorica del governo Meloni sul “controllo delle frontiere” si scontra contro la cruda realtà di Trieste. Un sistema che espelle, rimuove, e per precisa scelta politica non accoglie. Ogni promessa è un vuoto che si allarga. Mentre Frontex parla di un calo del 77% dei flussi migratori lungo la rotta balcanica i numeri reali dicono altro: solo nei primi otto mesi del 2024, sono arrivati 8.686 migranti a Trieste, quasi 150 persone a settimana. Nonostante i proclami di sicurezza, la gente continua a camminare, disperata, verso un’Europa che si blinda.  

Trieste, specchio di un fallimento nazionale

Ecco il grande tradimento: il Silos vuoto e le strade piene sono la fotografia perfetta del Paese. Trieste non è un caso isolato ma un simbolo della mancanza di una politica di accoglienza efficace in Italia. Il sistema di accoglienza straordinaria (Cas) è saturo, e le strutture di bassa soglia, come i dormitori, non sono sufficienti a coprire i bisogni immediati.

Un uomo siriano che, dopo aver perso la sua famiglia durante il viaggio, si è trovato a dormire all’aperto per settimane, senza un pasto caldo né la possibilità di lavarsi. “Siamo esseri umani, ma qui ci trattano come fantasmi”, dice. “La sera, quando la città dorme, noi ci rifugiamo nei pochi angoli che troviamo. Nessuno ci vede, nessuno ci aiuta”. Lui non lo sa ma è il nemico perfetto per la propaganda. 

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Anche i buoni sul razzismo sono distratti

Se la stampa e il dibattito pubblico non prestassero il fianco alle considerazioni sagraiole di un vicepresidente del Consiglio e ai conseguenti rutti dei suoi tifosi oggi avremmo potuto riflettere con serietà sulle conclusioni della Commissione europea contro il razzismo e l’intolleranza (Ecri) del Consiglio d’Europa. 

Leggendo nel rapporto che in Italia “ci sono numerosi resoconti di profilazione razziale da parte delle forze dell’ordine che prendono di mira in particolare i rom e le persone di origine africana (…) Si tratta di una forma di potenziale razzismo istituzionale” potremmo ricordarci del rapporto Onu di qualche giorno fa che confermava le discriminazioni nel sistema carcerario italiano, evidenziando “il persistente razzismo sistemico contro gli africani e le persone di origine africana”. “In Italia persiste in maniera significativa il razzismo sistemico contro gli africani e le persone di origine africana da parte della polizia e dei sistemi di giustizia penale”, scriveva quindici giorni fa l’Onu nella sua relazione presentata al Consiglio per i diritti umani a Ginevra. 

Qualcuno ne aveva scritto ma in quei giorni il governo non aveva l’urgenza di seppellire la figuraccia internazionale da rimpatrioti che deportano migranti avanti e indietro. Così la notizia – sostanzialmente identica a quella di ieri – era scivolata come una fastidiosa burocrazia umanitaria degli appassionati del genere. 

Viene il lecito dubbio, dunque, che la frastornante propaganda di governo abbia come inconsapevoli alleati anche i presunti giornali progressisti e il Quirinale che si fanno dettare l’agenda dagli strilli più che dai fatti. 

Buon mercoledì. 

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