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Giulio Cavalli

I rifiuti sul sangue di Peppino Impastato

Nei giorni scorsi, qualcuno ha messo un cartello sul casolare di contrada Feudo: “Vergogna, non avete rispetto per questo luogo”. Giovanni Impastato lancia un appello: “Salviamo il casolare e tutto ciò che qui attorno conserva l’ultimo respiro di Peppino”. Il casolare è diventato una discarica.

Quando imparerò a vivere la vita

“Fu uno dei giorni più belli della mia vita, il giorno in cui vissi la mia vita e non pensai affatto alla mia vita”.

(Jonathan Safran Foer, Molto forte, incredibilmente vicino)

I Siciliani, giornalismo contro la mafia

Durante il periodo natalizio del 1982 esce nelle edicole dell’isola il primo numero del mensile I Siciliani diretto da Pippo Fava. L’inchiesta principale, che accende i riflettori sul nuovo giornale, è I quattro cavalieri dell’apocalisse mafiosa in cui si attaccano i quattro principali imprenditori catanesi da diecimila posti di lavoro complessivi: Mario Rendo, Carmelo Costanzo, Francesco Finocchiaro e Gaetano Graci.

Il dispiegamento pubblico delle collusioni e commistioni tra gli imprenditori e la mafia accende la curiosità della stampa nazionale, che si trova di fronte a una realtà colpevolmente sconosciuta a soli quattro mesi dall’uccisione del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa a Palermo.

Il giornalismo catanese, infatti, non si era mai occupato di raccontare e svelare gli intrecci tra mafia, imprenditoria e politica fino a quando Giuseppe e i suoi colleghi non si assunsero quest’onere decidendo di fondare un nuovo mensile che avesse come linea editoriale il “concetto etico di giornalismo”, ovvero, come diceva Fava, di “un giornalismo fatto di verità”.

Ed è proprio questo nuovo modo di essere (non di fare il) giornalista che ha infastidito il sistema editoriale catanese, che ancora oggi è monopolizzato da Mario Ciancio Sanfilippo, ex presidente della Fieg, la federazioni degli editori di giornali, indagato per concorso in associazione mafiosa. Tutta l’informazione, scritta, radiofonica e televisiva di Catania è sempre passata dalle mani di Ciancio, a parte il mensile diretto da Fava.

In questo contesto I Siciliani è una rivista scomoda, irriverente e preoccupante per la classe dirigente dell’isola, che invano tenta di comprare il giornale attraverso Mario Rendo, il quale propone al direttore la gestione di una nuova emittente televisiva.

La sera del 5 gennaio 1984, a Catania, dopo undici numeri del periodico, Pippo Fava viene ucciso. Sono ormai passati ventisei anni, ma la situazione a Catania non è cambiata di molto. A parte l’accusa ex art. 416 bis per Ciancio, il monopolio informativo è rimasto lo stesso.

Per questo accolgo con entusiasmo l’annuncio dell’amico Riccardo Orioles sulla rinascita de I Siciliani. Il primo numero dovrebbe debuttare già dal prossimo novembre in formato pdf e da febbraio 2012 dovrebbe uscire nelle edicole siciliane. Ringrazio anche i sostenitori del progetto, le persone che hanno convinto Riccardo a mettersi a disposizione per il risveglio di un mensile che non poteva finire tra i ricordi: i magistrati Giambattista Scidà e Giancarlo Caselli e il prof. Nando Dalla Chiesa.

Sono convinto che il concetto etico di giornalismo, che accompagna ancor’oggi Orioles e gli altri redattori che daranno vita a I Siciliani, sarà la giusta cinghia di trasmissione tra lavecchia esperienza e la nuova e sarà l’ennesima occasione per dimostrare che si può essere giornalisti senza svendersi al miglior offerente. Il “risveglio” de I Siciliani è un filo rosso che qualcuno voleva nascondere sotto la sabbia e invece soffia forte. E noi soffiamo insieme perché Riccardo e I Siciliani corrano veloci.

PUBBLICATO SU IL FATTO QUOTIDIANO

Ecco la soluzione: far girare la patonza

“Vedi Gianpaolo – si legge nella trascrizione del quotidiano tratta dagli atti dell’inchiesta – ora al massimo dovremmo averne due a testa. Perché ora voglio che anche tu abbia le tue, se no io mi sento sempre in debito. Tu porta per te e io porto le mie. Poi ce le prestiamo. Insomma, la patonza deve girare”. Ci salverà l’economia della patonza.

I referendum come timone

Mentre a Firenze discutiamo di buone pratiche e di beni comuni con i tanti amministratori che resistono più ad una crisi politica prima che economica si accende una riflessione collettiva sui referendum. Perché non ci sono solo le firme da raccogliere per abolire il porcellum (che non può bastarci come soluzione ma ha senso solo se è la pars destruens necessaria per scrivere una legge elettorale che rispetti il senso pieno della rappresentanza) ma soprattutto c’è da applicare i referendum già scritti e votati. Referendum che non sono una vittoria della partecipazione che abbassa la serranda alla sera. E quel risultato chiede (anzi, impone) alla politica di declinarne i risultati in atti, di difendere quella volontà con i denti e raccontare in modo chiaro che forma ha quel risultato. Da Milano, al Pirellone fino al paese più minuscolo. Ora i referendum sono il timone.

Vattene. In tutte le lingue.

Geh nur, was Besseres kann Italien gar nicht passieren! Lo dicono in tedesco. La lingua della culona inchiavabile.
Un presidente del consiglio che si fa organizzare festini con minorenni. Che si fa ricattare da ruffiani. Che getta nel fango il suo paese e che vorrebbe scappare via dall’Italia. Finora in Germania ci si è più meravigliati che indignati di questi ed altri passi falsi del premier. Però con il suo stile di vita e la sua politica Berlusconi danneggia l’Italia e con essa l’Unione Europea. Non deve stupire che lui la pensi in maniera completamente diversa, dato che fa parte della sua complessa personalità, rimandare le questioni spiacevoli, ignorare i problemi e minimizzare gli errori.

“Mamma” è evaso. Ditelo a Maroni

Antonio Pelle è evaso dall’ospedale di Locri. Uno dei boss che è finito nella lista dei “grandi arresti” se ne è andato alla chetichella come quei vecchietti che sgaiattolano dagli infermieri per comprarsi le sigarette. Centinaia di pedinamenti, intercettazioni e ore di lavoro svanite con uno sbuffo. Adesso aspettiamo tutti una pomposa conferenza stampa per raccontarci di chi è la responsabilità di questa leggerezza omicida (e ignorante) nella gestione di uno dei boss più sanguinari della cosca di San Luca.

Io abito a Palermo

Il ragazzo è piccolo di statura e si è seduto nell’ultimo banco, in fondo all’aula. Appena entro (è una prima, sono tutti un po’ spaventati, è la primissima ora del primissimo giorno, nessuno si alza, pochissimi mi salutano), appena entro so già che tra qualche giorno dovrò spostarlo in avanti: è troppo piccolo per quel posto. Ma ha lo sguardo attento e vivace. Io dico: «Be’, ragazzi, non ci conosciamo, io mi presento, mi chiamo così, vivo in quest’altro paese, vi insegnerò latino per un paio di anni» e aggiungo altre cose (troppe altre cose, ora che ci penso). Poi li chiamo per nome, uno a uno; chiedo loro di dirmi almeno dove abitano, loro eseguono, imbarazzati. Mi dicono «io sono di questo paese qui», «io abito in quest’altro paese qui», «io abito in questo paese a 10 chilometri di distanza dalla scuola». Chiedo loro anche come arrivano a scuola; loro mi dicono in pullman, qualcuno in treno, altri in battello o accompagnati in auto dal padre o dalla madre. Quando arriva il turno del piccolo ragazzino seduto in fondo, uno degli ultimi dell’elenco, mi dice: «Io abito a Palermo». Poesia geografica su Sempre un po’ a disagio, da leggere fino in fondo.

Caro D’Alema, si contenga

Sulla desolante uscita di Massimo D’Alema sui matrimoni gay, Sergio Lo Giudice analizza la serie di corbellerie messe in fila dal lìder Massimo:

1. L’art.29 della nostra Costituzione non dice per nulla che il matrimonio debba essere tra persone di sesso diverso, né che debba essere finalizzato alla procreazione. Chi dice che la Costituzione impedisce al Parlamento italiano di legiferare sul matrimonio gay, dice una falsità smentita dalla sentenza della Corte Costituzionale 138 del 2010 e da tanti autorevoli costituzionalisti, a partire da Stefano Rodotà.

2. Le organizzazioni serie di gay non hanno mai chiesto di potersi sposare in chiesa, e nemmeno quelle meno serie si sono mai azzardate ad avanzare una simile richiesta, perché non siamo al circo Barnum. Le organizzazioni serie di gay e lesbiche, a partire da Arcigay, chiedono da anni e a gran voce, invece, di potersi sposare in Comune perché stiamo parlando del matrimonio civile che, come lei dovrebbe sapere, è cosa un tantino distinta dal matrimonio religioso.

3.Negare il diritto fondamentale al matrimonio ad una parte della popolazione perché questo offenderebbe la sensibilità di un’altra parte è uno degli argomenti più osceni che possano essere avanzati in politica, utilizzato nella storia per negare diritti alle donne, ai neri, agli ebrei, agli omosessuali e per soffocare la libertà d’espressione dei cittadini.

Oggi anche all’interno del Partito Democratico si sta facendo spazio finalmente una posizione favorevole all’estensione del matrimonio civile alle coppie dello stesso sesso: la battaglia, gentile D’Alema, oggi è questa e lei, se ne renda conto, non è parte della soluzione, ma è parte del problema.