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Giulio Cavalli

La mafia che gocciola dai polsini del Re

La notizia dei 100 milioni versati da Silvio Berlusconi alla mafia secondo il foglio dattiloscritto e controfirmato da Vito Ciancimino secondo quanto scritto da Felice Cavallaro sul Corriere della Sera sarebbe una notizia solo in un Paese con la memoria andata in prescrizione dove un Governo ricattabile gioca a confondere i fatti con le opinioni, e a curare il cancro delle mafie con i cerotti. Quindi è una notizia.

Eppure, nell’Italia dell’informazione trasformata in vassoio per raccogliere le bave del re, l’ultima rivelazione di Massimo Ciancimino (e, per la prima volta, di sua madre Epifania Scardino) è passata come una brezza di ferragosto perfettamente inscatolata tra i “complotti” e le “invenzioni” che sono la ciclica difesa del fedele Ghedini a tutela servile del premier. Non importa nemmeno che l’anziana moglie di Don Vito dica «Si, mio marito incontrava negli anni Settanta Berlusconi a Milano… Ma alla fine si sentì tradito dal Cavaliere…». Eppure di un assegno di 25 milioni dato dal Cavaliere ai Ciancimino se ne parla ormai da sei anni, dopo un’intercettazione in cui il figlio Massimo parla della regalìa berlusconiana alla sorella dichiarando di avere ricevuto quei soldi direttamente dalle mani di Pino Lipari. Sarebbe una notizia, in un Paese normale. In questo ferragosto di battibecchi e divorzi è diventata invece una voce di corridoio.

O forse non è una notizia perché la memoria non si è appassita come qualcuno vorrebbe e ci si ricorda che nel processo Dell’Utri si legge che ogni anno arrivavano milioni in regalo direttamente da Arcore. Dichiarazioni di più pentiti ma (poiché il cecchino Feltri ci insegna che solo la “carta canta”) anche ben documentati: durante le indagini negli anni novanta sulla famiglia mafiosa di San Lorenzo infatti si ritrova un appunto nel libro mastro del pizzo che dice “Can 5 5milioni reg”. O forse ci si ricorda perfettamente che che i fratelli Graviano furono spediti a Milano a partire dal ’92 dove “avevano contatti importanti” e dove incontrarono più volte anche Marcellino Dell’Utri. Lo dice il pentito Gaspare Spatuzza ma (siccome vi diranno che Spatuzza non è credibile e i pentiti non possono deviare il corso della politica) lo dice anche l’ex funzionario della DC Tullio Cannella, politico per nulla pentito. E ci si ricorda che Gaetano Cinà, uomo d’onore della famiglia di Malaspina (un clan vicinissimo a Provenzano), visitava spesso gli uffici di Milano 2 e l’ex fattore di Arcore Vittorio Mangano sia un condannato mafioso con il tratto per niente eroico della vile omertà.

Nonostante il premier si affanni a scrivere pizzini a Cicchitto in cui gli raccomanda in Aula di parlare di mafia (avendo già altri nel partito che si occupano a parlare “con la mafia”), nonostante anche nel centrosinistra qualcuno insista per scambiare la mafia come sceneggiatura buona per le fiction piuttosto che cancro delle istituzioni, oggi Cosa Nostra può guardare dall’alto i frutti della propria strategia di tensione e poi cooperazione con le istituzioni: tra il ’95 e il 2001 sono state approvate alcune leggi che sono fatti, mica opinioni. Sono state chiuse le carceri di massima sicurezza di Pianosa e dell’Asinara. Con la scusa della privacy si è imposta la distruzione dei tabulati telefonici più vecchi di cinque anni. In modo bipartisan è stata riformata la legge sui collaboratori di giustizia con il risultato di una diminuzione sensibile dei pentiti (calpestando il modello di Falcone e Borsellino). Si è pressoché smantellato il 41 bis e con la riforma del “giusto” processo si è concessa la facoltà di non rispondere, elevando l’omertà ad un (eroico) diritto di stato. Alcuni parlamentari hanno anche provato a parlare di “dissociazione” mafiosa. Il ministro Alfano ha proposto una riforma che consentirebbe alle difese di chiamarei in tribunale un numero illimitato di testimoni, per ingolfare ancora meglio la palude dei processi. L’onorevole Gaetano Pecorella ha proposto il ricorso alla Convenzione Europea per la revisione dei processi (guarda caso, idea del vecchio Vito Ciancimino per annullare la sentenza del maxi processo di Palermo). Sempre ricalcando l’idea del vecchio boss Don Vito la Lega propone l’elezione dei giudici. Ad abbattere le difficoltà del riciclaggio ci ha pensato lo “scudo fiscale”.

Cosa dobbiamo aspettare perché sia un diritto (e soprattuto un dovere) raccontare e dire del rapporto adultero tra le mafie e questa Seconda Repubblica? Quando si riuscirà a gridare che il marcio di questo Stato sta uscendo dai polsini dei nostri governanti?

Mafia é mafia. Senza sinonimi, senza moderazioni.

Si sfilaccia il Governo, fuori i contenuti

Abbiamo passato anni a sentirci dire che nel lato “democratico” del Paese era necessario (e utile) smussare gli angoli e democristianare gli animi per non rimanere schiacciati dal berlusconismo. E mentre tutti si esercitavano in un opposizione sempre più pia e a tratti reverenziale abbiamo reso possibile che un uomo come Mister B. e le sue cricche diventassero un “sistema” stabile, collaudato e proprietario delle istituzioni. In una lenta e nemmeno sotterranea OPA lanciata con successo alla res publica.

Alla mia generazione hanno detto di stare tranquilli, di non fare colpi di testa, di non scialacquare la nostra giovinezza in attesa di ottenere il certificato DOC dello spettatore prematuramente disarmato mentre vede e commenta i giochi di Palazzo. Ci hanno raccontato che non bisognava attaccarlo frontalmente ma giocare di sponda (chissà, forse per un attaccamento alle buone maniere) in un’opposizione che a guardarla oggi ha l’odore acre del “concorso interno”. Ci hanno fatto raccontato che erano tutti impegnati nell’esercitare la propria “vocazione maggioritaria” per costruire visioni e progetti per il paese e oggi, al primo spiraglio, balbettano Tremonti come neo statista salvifico e una coalizione “magna” (nel senso latino e romanesco del termine) con centristi adescatori di niente e neo legalitari con la firma in calce alle leggi-regalo alla mafia e al riciclaggio di questi ultimi anni.

Abusare della pazienza degli onesti è un gioco vile e codardo tanto quanto opprimerli e, ora, la misura è colma. Quello che stiamo vivendo non è né uno sfascio né una crisi: è un’opportunità. Il momento che si aspettava per esporre i modi e i contenuti. In poche parole per raccontare e illustrare la propria identità. E allora dica il PD se è voglioso di andare a braccetto con questo “nuovo” centro che cambia i simboli ma mai le facce, ci dicano i finiani quanto oltre a pentirsi sono disposti a correggere, scendano in campo i movimenti con il proprio diritto costituzionale a manifestare e (finalmente) anche a pretendere.
Con chiarezza, onestà intellettuale e senza remore. Ognuno con la fierezza della propria posizione, se serve. Ma non perdiamo l’occasione del riassestamento per pescare ancora una volta nelle zone d’ombra, ritrovandoci con una valigia di consenso che non possiamo e non vogliamo rappresentare. Il Governo bollito racconta la fine della strategia del grigio e della chiarezza ad intermittenza. Qui fuori c’è il partito più grande d’Italia, senza colonnelli né nominati: il Partito degli astensionisti. Costruiamo coerenza, concretezza e partecipazione e ripartiremo a discutere di lavoro, famiglia, scuola e salute. Con fuori tutti i corrotti e i corruttori di una mignottocrazia che oggi non interessa a nessuno.
È saltato il tappo, fuori i contenuti.

Una barba di storia: Nino Agostino. Ammazzato per niente.

Durante un matrimonio, matrimonio mica da persone normali, ma tra fecce di mafia. Quei matrimoni con il sapore acre del gangsterismo e per di più nel dorato Canada. A sposarsi è Nicola Rizzuto, uomo di Cosa Nostra trapiantato nel profondo nord americano, e tra un flute di champagne e una mezza ostrica e saliva Oreste Pagano intercetta un bisbiglìo: “Ero al matrimonio di Nicola Rizzuto, in Canada. C’era un rappresentante dei clan palermitani, Gaetano Scotto. Alfonso Caruana mi disse che aveva ucciso un poliziotto perché aveva scoperto i collegamenti fra le cosche ed alcuni componenti della questura. Anche la moglie sapeva, per questo morì.” Una storia di desolazione mica normale, quella del poliziotto Nino Agostino ammazzato con la moglie Ida Castellucci a Villagrazia di Carini il 5 agosto del 1989. Con una nascitura di cinque mesi nel grembo morta prima di nascere, come quelle storie che finiscono sempre per essere di seconda mano. Perché se muori ammazzato d’agosto sulle strade che portano al mare senza favole o poesie ma solo a forma di due cadaveri e mezzo e un cespuglio folto di punti di domanda, nel nostro disperato Paese, finisce che sei pure un morto ammazzato di serie b. Nella gogna del ricordo che divora vittime come fosse un gorgo. Eppure Nino Agostino era un poliziotto di quelli che ci credono al proprio lavoro, di quelli che in missione ci sono da sempre, senza decreti di governo o premi in busta paga, in una Sicilia assolata che in quegli anni passa sui morti come fossero un colpo di sole. Eppure Nino Agostino, da vivo prima che da morto, è una storia italiana con tutti gli ingredienti della melma: un collega e (presunto amico) Guido Paolilli, oggi in pensione, che indaga sul caso e chiude il faldone parlando di “delitto passionale”. Come nelle più becere e scontate storie di pavidità d’indagine; una presunta collaborazione di Nino con i servizi segreti e un coinvolgimento nelle indagini per la cattura del boss dei boss Bernarso Provenzano; un foglietto, stropicciato, nel portafoglio in cui si legge “Se mi succede qualcosa andate a cercare nell’armadio di casa”, e nell’armadio di casa, ovviamente, arriva prima di tutti una perquisizione che verbalizza di non avere trovato nulla di interessante.

Oggi Nino Agostino è un fantasma. Un fantasma con in tasca una storia sempre troppo poco conosciuta e un serie di incroci che lambisce anche Bruno Contrada. Suo padre Vincenzo, insieme alla moglie Augusta, caracolla per l’Italia raccontando di una famiglia sparata prima ancora di sbocciare rivendicando la giustizia. Ha la rabbia degli onesti traditi senza risposte e lo sguardo lieve di chi non ha mica smesso di voler essere padre di suo figlio, e una barba lunga che gli si appoggia all’altezza del cuore che non taglierà finché non avrà risposte.

Nel calderone altisonante della mafia epica la storia di Nino e Ida Agostino é una barba di storia. Nella quotidianità della memoria esercitata la storia di Nino e Ida Agostino é una storia da tenersi in tasca. Per ricordarsi almeno quante storie ci dimentichiamo, dimenticandoci che non ce le hanno nemmeno raccontate per intero.

Lustratevi gli occhi: la politica del “favore” del PDL in Lombardia

A raccontarlo al bar sarebbe una storiella che strappa una pacca sulla spalla. E subito dopo si ordina un secondo giro senza pensarci più. Ma poiché (e per fortuna) carta canta qui ci sarebbe da scrivere più un trattato di antropologia politica piuttosto che prenderla come una barzelletta.

Il Governo nazionale (guidato dalla forzuta e ultimamente un po’ sfilacciata compagine del PDL) conclude il varo dell’ultima manovra finanziaria. Una manovra sventolata come (l’ennesima) vittoria sugli sprechi, sulle burocrazie e sull’inutilità dei piccoli comuni che vengono declassificati come sparuti e sparsi comitati elettorali della holding del Presidente del Consiglio. Una sorta di franchising aziendalista piuttosto che di istituzioni con l’obbligo di vicinanza ai cittadini. Nella manovra c’è un articolo (14 del DL 78 del 31.05 scorso) che mette nero su bianco che i comuni con meno di 5000 abitanti debbano “esercitare le funzioni fondamentali unicamente in forma associata con altri enti e non più singolarmente”. Qui si potrebbe essere d’accordo o meno, come sempre spetta al libero esercizio delle opinioni politiche.

Ma qui viene il bello: il coordinatore del PDL di Campione d’Italia non ci sta e, piuttosto che aprire un dibattito all’interno del proprio partito (padre di questo articolo di legge) pensa bene di chiedere una mano all’amico Onorevole Alessio Butti per emendare la norma. Per tutti? ovviamente no. Per il proprio prestigioso comune. Ottenuta la gratificazione (degna del più becero particolarismo e miope egoismo), piuttosto che tenersi la soddisfazione della vittoria nel silenzio più intimo decide di sventolare il tutto in questa lettera (scaricabile in pdf qui) parlando di come solo il PDL sia garanzia di difesa di Campione d’Italia contro sè stesso. Una masturbazione con i coriandoli finti di un innamoramento. E giù scroscianti gli applausi.

Ora sarebbe bello inviare questa lettera a tutti i comuni lombardi sotto i 5000 abitanti che hanno la sfortuna di non avere santi in paradiso o amici in Parlamento. Almeno per sentire la loro opinione, due paroline, un mezzo giudizio anche al bancone del bar, su quale sia oggi il valore della “collettività”.

Io, nel mio piccolo, giro prossimamente la domanda al Presidente del Consiglio Lombardo Davide Boni, fiero rappresentante della Lega. Risposta prevista al rientro dalle ferie. Sempre che i valligiani bresciani e bergamaschi non se li siano mangiati di rabbia prima.

Al ricordo della strage di Bologna i mandanti sono assenti

La strage di Bologna, compiuta sabato 2 agosto 1980, è uno degli atti terroristici più gravi avvenuti in Italia nel secondo dopoguerra. Per Bologna e per l’Italia è stata una drammatica presa di coscienza della recrudescenza del terrorismo.

Alle 10:25, nella sala d’aspetto di 2º classe della Stazione di Bologna Centrale, affollata di turisti e di persone in partenza o di ritorno dalle vacanze, un ordigno a tempo, contenuto in una valigia abbandonata, esplose, causando il crollo dell’ala ovest dell’edificio. L’esplosivo, di fabbricazione militare, era posto nella valigia, sistemata a circa 50 centimetri d’altezza su di un tavolino portabagagli sotto il muro portante dell’ala ovest, allo scopo di aumentarne l’effetto; l’onda d’urto, insieme ai detriti provocati dallo scoppio, investì anche il treno Ancona-Chiasso, che al momento si trovava in sosta sul primo binario, distruggendo circa 30 metri di pensilina, ed il parcheggio dei taxi antistante l’edificio.

L’esplosione causò la morte di 85 persone ed il ferimento o la mutilazione di oltre 200.

20 anni dopo, 2 agosto 2010, di Bologna ci rimangono i nomi dei presunti esecutori (Valerio Fioravanti e Francesca Mambro), qualche nome eccellente tra i depistatori (come Licio Gelli, cancro della prima repubblica e inventore della seconda) e un esercito di sopravvissuti: vedove, figli, madri e padri. Eppure nessun membro di questo governo di vili parteciperà alla manifestazione. E’ la codardìa del sultano e la sua corte che si sfila dai luoghi e dalle commemorazioni dove non è riuscito ad imporre la propria verità. Dove non è riuscito a prostituire il favore del popolo all’immagine pubblicitaria che vuole dare di questo Paese. La nuova strategia (che in realtà di nuovo ha ben poco) è evitare di partecipare a tutte quelle cose che non si vogliono affrontare e raccontare. Perché nella Telecrazia meno si parla e si fa parlare di qualcosa e meno magicamente comincia ad esistere. Come un gioco di spot applicati alla coscienza, un aggiotaggio dell’informazione e della conoscenza. Il Re vuole solo bocche aperte di meraviglia o bocche piene; niente fischi o sdegni. In una tirannìa del consenso espresso dove l’olio di ricino e i manganelli sono stati sostituiti dall’arma dell’oblìo. Un arma che gli abbiamo costruito (e regalato con colpe politiche bipartisan) nel momento in cui al Re Berlusconi è stato concesso (o addirittura “garantito” come ha riferito alla Camera l’allora capogruppo dei DS Luciano Violante) di diventare il detentore unico della memoria presente, del revisionismo storico e del pensiero unico futuro.

A Bologna l’assenza del governo non è bile da condominio (con La Russa che si può permettere di dire “Gli altri anni i ministri li avete fischiati. E allora avete già la risposta al perché non viene nessuno…”) e nemmeno l’ennesimo atto di una codardia che conosciamo ormai troppo bene (dalle manganellate agli aquilani fino al valzer triste su Falcone e Borsellino): a Bologna si celebra l’assenza impunemente possibile coltivata da anni di indifferenza, di superficialità e di inconsistenza politica di un popolo che è bravissimo nelle cerimonie ma latitante nella ricerca della verità. A Bologna si celebra uno Stato a cui permettiamo di non dare risposte.

Adesso sventoliamo la Costituzione

C’è un passaggio importante, una linea per nulla sottile, in un Governo che si affloscia come una torta cotta male appena uscita dal forno: le regole. Non cadiamo nell’errore di credere (e di farci credere) che il divorzio che si è consumato tra i berluscones e i finiani sia una questione politica. Nel deserto democratico di questi ultimi anni un processo strategico di disinformazione e disarticolazione delle Istituzioni, princìpi fondamentali come la Giustizia, l’Uguaglianza e le uguali opportunità (nel lavoro, ma più largamente nel vivere sociale) sono stati violati nella loro obbligatorietà costituzionali e rivenduti come mere “visioni diverse” nella gestione dello Stato.

L’accusa del generale Fini non è sui programmi, sui progetti o sui modelli di gestione, ma più drammaticamente, sulla legittimità e legalità di un uomo al governo. Non siamo alla scissione dell’atomo o dei particolarismi da politicanti, siamo di fronte al riconoscere pubblicamente che quei vecchi confini tra i partiti dell’arco costituzionale oggi sono diventati un dirupo chiaro, un burrone che obbliga a scegliere: o si sta dalla parte delle regole o con chi le regole se le compra e le subaffitta. Senza se, e senza ma.

In poche parole: dalla parte della nostra Costituzione. Senza cittadini meno uguali degli altri, senza federalismi fumettistici, senza protoneofascismi rivenduti come libertari, senza atteggiamenti antisolidali in nome di un falsa sicurezza, senza nuovi idoli dell’ultim’ora con le cravatte che puzzano di Prima Repubblica. E nessuna si prenda i meriti di un’infezione che è ben lontana dall’essere una rivoluzione. Il “Futuro e Libertà” sventolato dai finiani come vessillo della vittoria (mentre è il tovagliolo della carcassa piena di mosche delle scelte di cui si sono resi camerieri) è già scritto nella nostra Costituzione, lottato in un “passato e oppressione” dai Padri di questo paese. Padri costituenti che non hanno bisogno di spille sulla giacca ma, banalmente, di figli assennati. Con giudizio, prudenza e maturità.

Acqua pubblica: Formigoni prepara il blitz di ferragosto

Agosto non è mese per stare tranquilli. E’ la politica che vive sulla distrazione del popolo per infilarsi in legiferazioni che altrimenti rischierebbero di alzare un polverone, o perlomeno quella che in democrazia si chiamerebbe discussione. Sull’onda (è il caso di dirlo) di una straordinaria mobilitazione popolare che ha visto un milione e quattrocento mila firme del Forum italiano dei movimenti per l’acqua e settecentocinquantamila dell’Italia dei Valori, oggi una politica responsabile dovrebbe fermarsi e costruire le basi di un serio dibattito sulla gestione dell’acqua come prezioso bene comune da sottrarre ad affaristi e grumi di potere.  Proprio ieri (il 28 luglio) è stata approvata (122 a favore; 41 astenuti; 0 contrari) all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite una risoluzione intitolata “Il Diritto Umano all’Acqua e all’igiene”.

Il “celeste” Formigoni invece, dalle segrete stanze della Giunta lombarda, prepara la liberalizzazione secondo i dettami del decreto Ronchi (con il servizio di erogazione dell’acqua nelle mani di tante società miste controllate al 60% dalle Province e per il restante 40% in mano ai privati con appetiti per il business dell’acqua pubblica) proprio in questi ultimi scampoli prevacanzieri. Con l’Aula del Consiglio Regionale “dimenticata” nella discussione e impegnata a discorrere di merli e richiami vivi. Tutto secondo copione, con i luoghi di discussione e i canali di informazione narcotizzati mentre una delicata fase politica decide di assoggettare un diritto universale alle regole della domanda e dell’offerta. Come merce o privilegio piuttosto che un diritto. In una politica per accordicchi o decreti sulla fiducia che svuota, ogni giorno di più, le istituzioni dal proprio senso di luogo di dibattito e democrazia e, in Lombardia, si prepara a svuotare anche il bicchiere.

E allora bisogna parlarne, scriverne, farne parlare. Perchè almeno sappiano che sappiamo. E che faremo tutte le domande e le azioni alla riapertura delle attività. Per una responsabilità che, in questo momento di desolazione politica, non va proprio in vacanza.

La politica del fare? mettere il naso nella discarica di Bollate

http://www.youtube.com/watch?v=zNI77l8R8Ck


Bollate, periferia di Milano, oggi è una di quella città che scottano. Dopo l’ultima operazione contro la ‘ndrangheta (che ha portato in dono 160 arresti solo in Lombardia) intere zone si sono scoperte impudicamente nude di fronte alla potenza e prepotenza delle famiglie criminali che ormai da anni infestano il territorio. A Bollate comanda(va?) Vincenzo Mandalari, originario di Guardavalle (CZ). residente a Bollate e oggi latitante. Mandalari, come gli altri “guappi” ‘ndranghetisti, si dilettava nel campo dell’edilizia, in quel giochino facile facile che è la movimentazione terra; ovvero spostare, nascondere, caricare e scaricare macerie e merda per riciclare denaro. A Bollate (ce lo dimostra oggi un’inchiesta dell’Associazione SOS RACKET USURA completata da un video girato con una telecamera nascosta) c’è una discarica in cui sicuramente si vede qualcosa di curioso: rifiuti scaricati con estrema facilità, formulari non compilati e qualche dubbio sul personale incaricato.

Oggi presenterò un’interrogazione urgente al presidente della Regione Lombardia per chiedere che vengano effettuati quanto prima dalla politica e dalle autorità preposte tutti i controlli necessari per chiarire la gestione dei rifiuti e delle macerie della “ex cava Bossi” a Cascina del Sole in Viale Friuli a Bollate. Con più di un dubbio e una mezza idea sulla “funzione” della discarica nell’economia criminale della zona. Qualche mio collega in Consiglio Regionale propaganda spesso la “politica del fare”, “metterci la faccia” dicono: su quella discarica oggi ci metto la mia.

La denuncia di SOS RACKET E USURA

Siamo entrati nella cava-discarica di Bollate a bordo di un furgone e, senza compilare il formulario, abbiamo scaricato rifiuti di ogni tipo, tutto rigorosamente in nero, ed abbiamo visto una decina di lavoratori boliviani ed albanesi che vi lavorano per sei euro l’ora, senza contratto di lavoro.

Questa è la storia di una cava in odore di N’drangheta.

È una mattina di giugno del 2010 e riusciamo, insieme al giornalista del Fatto, Davide Milosa, a convincere un imprenditore di Garbagnate Milanese a portarci – a bordo del suo furgone – in un luogo dove scaricare rifiuti di ogni tipo, i cosidetti rifiuti ‘sporchi’. Arriviamo così nella cava discarica di Bollate, a Cascina del Sole in viale Friuli ed esattamente nell’ex cava Bossi.

Con una microtelecamera nascosta, cominciamo a filmare il carico del nostro camion e, arrivati all’ingresso della cava, ci viene chiesto subito se vogliamo dare il formulario o pagare in nero. “Non c’e problema ci dice l’omino all’ingresso della cava andate più avanti che i ragazzi vi dicono dove dovete scaricare”.

Percorse alcune centinaia di metri ci troviamo di fronte ad una decina di ragazzi boliviani ed allbanesi che, senza chiederci il contenuto del camion, ci fanno scaricare il furgone con la ribalta in un piazzale dove sono ammassati cumuli di rifiuti di ogni tipo alti una decina di metri.

È un inferno Dantesco quello che si presenta con questi lavoratori che sotto il solo cocente mettono le mani nei rifiuiti smistando ogni cosa: eternit, bidoni e liquidi; legno, carta, plastica, polistirolo, macerie sporche provenienti da chissà quali lavori senza nessuno che controlla cosa stiamo scaricando.

Ci dicono che prendono sei euro l’ora e lavorano senza contratto, praticamente sono lavoratori in nero e dicono anche che quelle rare volte che vengono “i controlli”, i proprietari della cava vengono avvisati e noi scappiamo’.

Pochi minuti dopo, finito lo scarico, andiamo a pesare il camion e paghiamo 90 euro per il nostro scarico. Se avessimo presentato il formulario ci sarebbe costato 15 euro… L’omino della discarica si premunisce anche di darci un numero da segnare per le prossime volte che saremmo tornati a scaricare, numero da segnare sul formulario. Mi raccomando, ci dice, non mettete la data, così se vi ferma la Polizia voi dite che l’avete dimenticata altrimenti per voi sono grossi problemi.

Ci rilascia una ricevuta fasulla e noi andiamo via.

Bollate, terra di quella ‘ndrangheta decimata da una colossale operazione delle DDA di Milano e Reggio Calabria, dove a capo della Locale vi è Vincenzo Mandalari, padrino sfuggito all’arresto, tuttora latitante.

È lui che comanda su tutto il territorio, ed è sempre lui che cosrtuisce, asfalta, fa il movimento terra a Bollate e circondario.

Alcuni mesi fa, in un bar di Bollate, una microspia ambientale intercetta Vincenzo Mandalari ed un imprenditore edile, tale Rocco Ascone, anche lui arrestato in questa operazione, che parlano dell’arrivo di un carico di rifiuti tossici provenienti da Brescia, che devono essere smaltiti in una cava di Bollate.

Nella cava-discarica di Bollate abbiamo visto frantoi e numerosi escavatori, che risultano essere di propietà di tale Nicola Grillo, grande amico di Vincenzo Mandalari e proprietario dell’impresa SDS Srl che lavora per Mandalari.

Nicola Grillo e suo fratello Stefano vengono chiamati vent’anni fa da un paesino della provincia di Catanzaro, Davoli, proprio da Vincenzo Mandalari che gli dice “venite su che qui di lavoro al nord ce nè tanto”.

Stefano e Nicola Grillo sono amici di altri boss, i fratelli Pietro e Santo Maviglia di Nova Milanese che, guarda caso. hanno un magazzino di fronte ad un’altra cava, sempre a Nova in via delle cave.

I proprietari della cava di Bollate tentano alcuni mesi fa anche di costruire decine di palazzi sull’area della cava stessa, offrendo in cambio alla passata Giunta guidata dal sindaco Stelluti la donazione di metà area, ma il progetto non passa. Nell’ ufficio di Vincenzo Mandalari ci sono decine di targhe che la passata giunta bollatese si è premurata di consegnare, per riconoscenza dei lavori eseguiti dall’imprenditore Mandalari. Da Rho, Pero, Cesate, Garbagnate Milanese, Novate, Senago, Cesano Maderno, Bresso, Cormano, ed altre decine di comuni dell’hinterland, è cosa nota che chiunque voglia scaricare rifiuti di ogni tipo, tossici o “sporchi”, può andare alla cava dei veleni di Bollate.

Tutti gli imprenditori edili, piccoli o grandi, scaricano veleni in quella cava; la cosa è nota a tutti, e noi quel giorno abbiamo visto decine di camion che scaricavano ogni cosa.

L’Associazione SOS Racket e Usura chiede al Sindaco del comune di Bollate, Stefania Lorusso, di intervenire tempestivamente su questo scandalo da noi denunciato.

Alla Polizia Provinciale Ambientale, che propio a Bollate Ha un grosso distaccamento, chiediamo di eseguire immediati controlli sul terreno all’interno della cava.

All’Ispettorato del Lavoro di verificare che i lavoratori siano in regola con contratto di lavoro e sopratutto chiediamo – per i reati che abbiamo documentato – la chiusura immediata della cava.

L’associazione chiede che venga aperta un’inchiesta da parte dell’Autorità giudiziaria al fine di verificare i gravi fatti da noi denunciati, Al Consigliere regionale dell Idv Giulio Cavalli chiediamo una presa di posizione politica con una interrogazione in Consiglio Regionale da presentare sui gravi fatti da noi denunciati al fine di far cessare questo gravissimo scandalo.

Milano 22 luglio 2010

Frediano Manzi

Presidente Associazione SOS Racket e Usura

Hanno avuto ragione: Santa Giulia è già il simbolo di Milano

A vederla nei bozzetti un milanese qualunque poteva immaginarsela mentre sfilava la carrozza di Luigi XII e una corte di nani e ballerine: l’area Santa Giulia, Montecity-Rogoredo doveva essere il quartiere modello della Milano da esportare in tutto il mondo con Centro Congressi, Multisala, futuribile arredo urbano, mezzi ecologici ad attraversarla. Il tutto in un verde bioparco con i colori da Alice nella Milano delle meraviglie. Il simbolo della Milano che vogliamo. E oggi, dopo i sigilli della procura possiamo finalmente dire che ce l’hanno fatta: Montecity è il quartiere simbolo della Milano di oggi.

Ci sono i veleni (arsenico, cloroformio, cromo esavalente) che inondano e perdurano in nome del massimo profitto e della minima attenzione in una regione che a grandi passi punta al podio del prossimo Rapporto Ecomafie stilato da Legambiente (dove, bisogna ammetterlo, anche quest’anno è già riuscita a fare la sua pessima figura nel suo silenzio tutto padano).

Ci sono i progetti brevi tipici delle grandi opere. Quelli che finiscono appena smesso di stampare l’ultima brochure pubblicitaria per stuzzicare il palato. Perché oggi, a Milano ma generalmente nel paese, la “realizzazione” è un privilegio per pochi fortunati. Così conta passare l’idea, costruire il messaggio, confezionare la propaganda come per l’Aquila, i rifiuti a Napoli e oggi quel cantiere avvelenato che dovevano essere i nostri  Champs Elysèes. Non contano poi le lamentele dei creduloni. Qui da noi se di un problema non si scrive o non si dice, non esiste. Se se ne dice poco è un male minore.

C’è il re delle bonifiche, sempre lui. Giuseppe Grossi guadagna bonificando il meno possibile perché ci tiene ad essere misurato. Giuseppe Grossi che a Milano è nome dagli echi importanti: da Paolo e Silvio Berlusconi fino alla moglie del “faraone” Giancarlo Abelli che non riesce a fare in tempo a scendere dalle cronache di ‘ndrangheta per risalire subito con le bonifiche. In un ottovolante del “lombardismo” più sfrenato applicato alla politica.

C’è il reato ambientale. Un reato che nella legislazione della responsabilità dovrebbe essere il meno sopportabile, nel compimento di uno stillicidio di natura che si propaga velenoso in delitto molto spesso decennale. Il reato perfetto per i pavidi che riescono a farla pagare ai figli ed ai nipoti senza nemmeno il rumore di uno sparo. Un reato che, uscendo dalle tempistiche del mandato elettorale, da diritto naturale si trasforma in una gentile concessione di qualche politico particolarmente benevolo. Proprio oggi, proprio a Milano, dove un PGT mangiasuolo ci è stato offerto come una strategia da nobel per l’ambiente.

Intorno, tutto intorno rimane una città che oltre che brutta puzza come un pesce da troppi giorni sul bagnasciuga, soldi che diventano merda sotto terra per qualche lire al chilo, politica impreparata ed ecoignorante anche solo per fingere di parlarne e i soliti noti con la pancia piena. Diversi (neanche troppo) i nomi, diverse le facce, diversi i luoghi, diversi i modi, ma quello che conta qui nell’eccellente Milano è il Sistema. ‘O Sistema, come lo chiamerebbe Roberto Saviano.

ORA QUALCUNO CHIEDA SCUSA

Adesso qualcuno deve chiedere scusa. Non bastano i comunicati, non contano le facce contrite davanti alle telecamere per dire che anche la Lombardia è caduta nel mercimonio politico mafioso che infesta tutto il Paese, da nord a sud, in un’unità d’Italia fatta di mala politica prostituita alla mafia. Trecento arresti sono uno schiaffo alla ‘ndrangheta calabrese lombardizzata ma non solo; trecento arresti sono cinque dita in piena faccia di chi come il sindaco Moratti ha giocato per una vita a sottovalutare, minimizzare, negare e coltivare indifferenza. Trecento arresti sono una sberla a tutti quei sindachetti e polituncoli padani che hanno tranquillizzato tutti per anni dicendo che il fenomeno non esisteva, che al massimo era “una cosa loro”, che le cittadine lombarde sono “immuni dalla mafia”, appoggiati da rappresentanti delle istituzioni che sfoggiano una pavidità e un’ignoranza utili ad una pacifica e tranquillizzante carriera. Trecento arresti oggi fanno sentire l’odore acre della lombardia. E non bastano più i “deodoranti” della Lega e del Pdl. Non funzionano più i convegni buoni per fare l’antimafia da souvenir per la fiera della Milano da bere. Scrivevamo un anno fa io e Gianni Barbacetto in A CENTO PASSI DAL DUOMO:

“L’impunità dentro le teste (oltre alle tasche) dei capibastone ‘ndranghetisti o dei prestanome camorristi o dei ragionieri di Cosa Nostra in Lombardia è una responsabilità politica. Risolvibile semplicemente con la voglia e l’onestà di volere dare al di là di tutto un segnale. Per restituire dignità anche nella forma. Una regione che controlla la carta d’identità di un mojito e cammina su fiumi di cocaina. Una regione che s’abbuffa alle conferenze stampa delle grandi opere e che inciampa al primo gradino del primo subappalto. Una regione che convoca gli stati generali dell’antimafia per ribadire di stare tranquilli. Una regione che ci convince di aver risolto tutto spostando i soldatini del Risiko con la scioltezza di un tiro di dadi. Una regione che se il fenomeno criminale non emerge allora non esiste. Una regione che mette i moniti dei procuratori antimafia nei faldoni di “costume e società”. E intanto ride. Nel riflesso degli eroi diventati onorevoli che “la mafia l’hanno debellata decenni fa” e se così non fosse è semplicemente perchè non l’hanno mai trovata. Una regione che è sacerdotessa della clandestinità diventata finalmente illegale e intanto finge di non sapere che l’illegalità pascola clandestina. Nel gioco dei segnali così caro alla pochezza criminale, se esistesse un santo dell’estetica contro il diavolo della politica per comunicati stampa, da domani partirebbero le ronde della legalità nei crani dei politici a cercare con il lumicino la responsabilità della dignità.”

Insieme a Gaetano Liguori siamo andati ad urlarlo in giro per l’Italia. Mi sono meritato qualche chilo di minacce, qualche accusa di allarmismo, sorrisini da “professionista dell’antimafia” e i rimbrotti di qualche maresciallo che ha dovuto fingere di credermi. Adesso si alzano le voci di chi sapeva e si sprecano le lettere di vicinanza. Addirittura spuntano democratici esperti dell’ultima ora. Tutti pronti a cavalcare; tanto hanno già pagato gli altri, nel bene e nel male.

Oggi ai cittadini qualcuno dovrebbe chiedere scusa.

http://www.youtube.com/watch?v=Lcy8GIqfjkI

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