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Giulio Cavalli

Libertà è partecipazione

“Libertà è partecipazione” G.Gaber

Per noi, nel nostro piccolo, è la costruzione di un grande sogno. Partecipare al sogno significa appoggiare una rivoluzione morbida e democratica che inizia con l’avventura della campagna elettorale. Non si tratta di nominare un delegato ma piuttosto di costruire una laboratorio sociale e di responsabilità che sia il cuore, la testa e lo stomaco per i prossimi anni.

Ora è il tempo di conoscere, conoscersi e farsi conoscere. Come una tavola da apparecchiare radunando e contando gli ingredienti. Vorremmo finire questa campagna elettorale con la soddisfazione di avere la certezza di essere consapevolmente scelti (o non scelti) per un giudizio che sia maturato dalla possibilità di un incontro, un confronto.

Partecipare alla nostra campagna oggi significa soprattutto parlarci. Il più possibile. Nei vostri paesi, nel vostro quartiere o nella vostra prossima riunione in cui credete che la mia presenza possa essere un’ottima stretta di mano.

Partecipare alla nostra campagna oggi significa soprattutto parlarne. Il più possibile. Nei vostri siti, nei vostri blog e sui vostri social network.

Il mio impegno politico è il nostro impegno politico.


Volete partecipare alla campagna elettorale? Volete organizzare qualche evento nel vostro Comune con Giulio? Avete delle proposte da sottoporre? Volete partecipare alle riunioni programmatiche? Volete aiutarci? Volete esserci?
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Due parole e qualche fatto su “via Bettino Craxi”

“Più sono le leggi, più sono i ladri”
Bettino Craxi

Attenzione: la patetica idea dell’ormai prevedibile sindaco Moratti di intitolare a Bettino Craxi una via in Milano non è meramente un problema solo politico: è lo specchio di un’impunità culturale che in tutti i campi è diventata un trofeo con tutto intorno una sonnolenza scoraggiata e martellata secondo le regole della prostituzione pubblicitaria piuttosto che quelle della memoria politica di un paese. Già la proposta avanzata dal sindaco Moratti indica che il limite della dignità verso la memoria è stato superato; al di là degli esiti pratici è un’onta che puzza di sugo rancido che ci teniamo sulla giacca di questa città già imbrattata.

Quella stessa parte politica che ultimamente scalcia goffa ululando al rispetto delle istituzioni oggi ci dichiara chiaramente che la Memoria di questo paese (quella con la M maiuscola che è figlia unica della storia) non è affidata ai Fatti ma alle opinioni di pessimi opinionisti prestati a tempo indeterminato al mestiere indegno di apriporte o lucida ottoni al servizio degli interessi di pochi.


E allora non stupisce che si decida di dedicare una via proprio a colui che per primo trasformò in Sistema quel meccanismo infame di corrotti e corruttori che premia il miglior offerente a scapito del più capace. Quel sistema che ha trasformato la meritocrazia in un privilegio piuttosto che un diritto. E quando i diritti diventano privilegi da supplicare significa che qualcuno insieme ai soldi si è rubato anche le regole del gioco, che la partita è impari, che la democrazia è diventata un souvenir.
Craxi è stato condannato con sentenza passata in giudicato a: 5 anni e 6 mesi per corruzione nel processo Eni-Sai il 12 novembre 1996; 4 anni e 6 mesi per finanziamento illecito per le mazzette della metropolitana milanese il 20 aprile 1999. Per tutti gli altri processi in cui era imputato (alcuni dei quali in secondo o in terzo grado di giudizio), è stata pronunciata sentenza di estinzione del reato a causa del decesso dell’imputato. Fino a quel momento Craxi era stato condannato a: 4 anni e una multa di 20 miliardi di Lire in primo grado per il caso All Iberian il 13 luglio 1998, pena poi prescritta in appello il 26 ottobre 1999; 5 anni e 5 mesi in primo grado per tangenti Enel il 22 gennaio 1999; 5 anni e 9 mesi in appello per il Conto Protezione, sentenza poi annullata dalla Cassazione con rinvio il 15 giugno 1999; 3 anni in appello bis per il caso Enimont il 1° ottobre 1999. Bettino Craxi morì condannato “volontariamente sottratto alla custodia cautelare, agli arresti domiciliari, al divieto di espatrio, all’obbligo di dimora o ad un ordine con cui si dispone la carcerazione” : Bettino Craxi morì latitante secondo l’articolo 296 del Codice di Procedura Penale.
Un grande statista (ma anche un mediocre politico) deve (almeno) affrontare i processi, piuttosto accetta di diventare un collaboratore di giustizia, contribuisce in maniera decisiva al risanamento etico e giuridico della classe politica italiana; e piuttosto responsabilmente accende una stagione di prosperità e rigore che lo può vedere protagonista, ruolo a cui il suo “pentimento”  gli darebbe piena legittimazione. Invece il piccolo Craxi è fuggito ed ha vissuto i suoi ultimi anni in latitanza eludendo di fatto le leggi del suo Paese.
E allora mi scuserà la sindachessa se proprio non riusciamo ad esserne orgogliosi, in una Milano che mentre lascia la mafia sotto il tappeto e gli operai sopra i tetti si preoccupa di mettere in strada un monumento a Bettino. Un riconoscimento all’anti-memoria che, per amor del vero, esiste già non solo in altre città ma ci viene propinato tutte i giorni a tutte le ore su quelle televisioni figlie del craxiano “decreto Berlusconi” varato per salvare l’allora imprenditore Silvio Berlusconi dalla decisione dei pretori di Torino, Roma e Pescara di oscurare i canali televisivi della Finivest. Quelle televisioni che sono lo spot pubblicitario continuo dell’omicidio della meritocrazia imprenditoriale in questo paese. Quelle televisioni che per uno strano gioco di uguaglianze sono figlie (nella modalità della nascita) non di una democratica di discussione in Parlamento ma di un monocratico voto di fiducia; nello stesso modo innaturale e antiparlamentare con cui opera abitualmente questo attuale governo.
Mi scuserà il sindaco Moratti se mi permetterò di raccontare ai miei figli, prima di chi fosse Bettino Craxi, che questa è la città di Guido Galli, di Ambrosoli, di Alessandrini e molti altri. Se mi permetterò di raccontargli che Craxi oggi esce ingigantito solo per il paragone con i nani dell’attualità. Mi scuserà se mi viene da sorridere pensando che addirittura Bobo Craxi (che a 25 anni era già segretario del Psi milanese per discendenza diretta) arrivò a dire “Non mi sono mai considerato craxiano” (10-9-92).
L’aforisma di un anonimo arabo dice: Onesto è colui che cambia il proprio pensiero per accordarlo alla verità. Disonesto è colui che cambia la verità per accordarla al proprio pensiero.
E allora se davvero come disse Silvio Berlusconi il 21 settembre del ’94 “io a Craxi non devo nulla. Ho sempre riconosciuto il ruolo dei magistrati nella lotta al sistema perverso della Prima Repubblica. TV e giornali della Fininvest sono sempre stati in prima linea a difendere i magistrati e in particolare Di Pietro!” non cerchi oggi di chiedere scusa con una via.
Non dico per rispetto di Giustizia, non dico per Memoria; almeno per Dignità, se ne è avanzata un po’.

Un paio di osservazioni sulla “antimafia dei fatti” di questo Governo

Di fronte all’ennesima fanfara di numeri sventolata dal Governo nella recente campagna pubblicitaria intitolata “antimafia dei fatti” credo che vadano precisati alcuni punti. Non tanto per entrare nella desolante arena dialettica di un esibizionismo politico impacchettato con proclami in confezione regalo quanto almeno per un’onestà dei Fatti che sarebbe un vero peccato non prendersi la briga di raccontare.

Il 90% degli “arresti eccellenti” snocciolati dai recenti proclami (così come i loro patrimoni sequestrati) in questo ultimo anno sono il risultato o di rivelazioni di pentiti che hanno esercitato la parola nelle sedi competenti ( piuttosto che l’eroismo dell’omertà di manganiana memoria) o di quelle stesse intercettazioni che questo stesso governo sta trasformando in un desueto e antico fenomeno di costume. Ma la dicotomia più comica è che i magistrati che arrestano i mafiosi e sequestrano patrimoni sono gli stessi che a Palermo processano Dell’Utri per concorso esterno e indagano sulle trattative Stato-mafia. Gli stessi che a Caltanissetta e Firenze hanno riaperto le indagini sui mandanti occulti delle stragi del 1992-93. Gli stessi che a Napoli hanno chiesto e ottenuto un ordine di custodia per il sottosegretario Cosentino, ovviamente subito “stoppato” dalla Camera. Ed è proprio un peccato che in questa “trionfale marcia di numeri” il Governo abbia perso con Cosentino la possibilità di aggiungere un trofeo nella teca dell’antimafia.

Senza dimenticare il segnale culturalmente criminale dell’emendamento della finanziaria passato anche in Senato che consente la vendita degli immobili confiscati alle mafie; che potrà finalmente dare il via ad una numerologia di confische e restituzioni alle mafie come in una meravigliosa partita a Monopoli sulla tavola della legalità. Del resto è quasi stucchevole ricordare come siano proprio le mafie ad avere in questo momento la liquidità più facile per aspettare i 90 giorni passati dalla confisca senza assegnazione ed inviare qualche “testa di legno” amica all’asta di vendita. E, attenzione, non si tratta di pessimistiche ipotesi: i comuni di Canicattì in provincia di Agrigento e Nicotera in provincia di Vibo Valentia sono stati sciolti per mafia per avere assegnato beni confiscati a prestanome dei mafiosi colpiti dalla confisca. Un emendamento che riesce nella mirabolante impresa di tradire in poche righe sia il buon senso legislativo (affidando il meccanismo di vendita degli immobili ai funzionari locali del Demanio che per esposizione ambientale non sono nella posizione migliore di gestire “condizionamenti” nella vendita) sia alle centinaia di ragazzi che sotto la bandiera di Libera decidono di dedicare il proprio tempo e le proprie vacanze al volontariato sui beni confiscati a Corleone, Castelvolturno, San Giuseppe Jato e altri. E per finire in bellezza calpestando in un colpo solo quel milione di cittadini che nel ’96 firmarono l’appello di Don Ciotti per l’uso sociale dei beni confiscati alla mafia e la loro restituzione alla collettività: mandare sul marciapiede la dignità di un paese per fare cassa è azione da piazzisti piuttosto che Statisti.

In questo luccicante contesto di “antimafia dei fatti”, il recente scudo fiscale oltre a permettere il rientro di capitali dall’estero con penali da Repubblica delle Banane ha anche in parte cancellato e in parte indebolito l’obbligo di segnalare operazioni sospette rendendo pressoché sterile il sistema di rilevamento di possibili casi di riciclaggio. Infatti (come avverte Roberto Scarpinato) l’art. 13 bis, comma 3, del Dl n. 78 del 2009 ha disposto che non si applica l’obbligo della segnalazione delle operazioni sospette per tutti i casi i cui i capitali rimpatriati o regolarizzati derivino da una serie di reati sottostanti che vengono estinti dallo scudo fiscale: i reati tributari di omessa dichiarazione dei redditi o di dichiarazione fraudolenta e infedele. Vengono inoltre estinti una lunga serie di reati quando siano stati commessi per eseguire od occultare i reati tributari, ovvero per conseguirne il profitto: alcuni reati di falso previsti dal codice penale (articoli 482, 483, 484, 485, 489, 490, 491 bis e 492), di soppressione, distruzione e occultamento di atti veri, nonchè dei reati di false comunicazioni sociali previste dal codice civile (articoli 2621 e 2622): capitali di origine illegale immessi nel mercato a seguito di tale normazione e del regime di invisibilità assicurato ai capitali ‘scudati’. Si è venuta a determinare per il vastissimo popolo degli imprenditori collusi l’opportunità di fare rientrare dall’estero capitali sporchi dei loro soci mafiosi occulti, spacciandoli falsamente come frutto di evasione fiscale per poi immetterli nel circuito produttivo.

Non mi risulta che Presidente e Ministri abbiano deleghe da Catturandi per acciuffare latitanti (ed è un peccato, perché almeno le auto delle Forze dell’Ordine non avrebbero il problema di cadere a pezzi e avere il serbatoio vuoto), e non mi risulta nemmeno che abbiano deleghe di magistratura (senza volere suggerire un’idea…) per le indagini; sicuramente hanno la responsabilità politica di quanto scritto sopra. E questi sono Fatti. Quale forma abbiano non lo so. Ma, sicuro, l’antimafia è un’altra cosa.