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Giulio Cavalli

Ci vuole talento per continuare a scrivere leggi illegali

I predecessori, anche i più sfrontati come Andreotti o Berlusconi, almeno avevano il buon gusto di circondarsi di persone che le norme le conoscevano, le avevano studiate e possedevano abbastanza esperienza per riuscire a torcerle a proprio vantaggio.

Il governo Meloni ha scritto un costosissimo – per noi italiani, mica per loro – “decreto Albania” che anche uno studente al primo anno di giurisprudenza avrebbe riconosciuto come fallimentare. Bastava ripassare velocemente la gerarchia del diritto un secondo prima dell’interrogazione per sapere che il diritto europeo è superiore alle leggi del governo di turno e per ricordare che la Costituzione non si piega alle pulsioni autoritarie di nessun Consiglio dei ministri.

Ora anche la cosiddetta autonomia differenziata (che altro non è che una secessione morbida) riceve uno schiaffo dalla Corte costituzionale. La Consulta ravvisa sette profili di incostituzionalità su aspetti centrali della riforma, chiarendo che “il fine dell’autonomia non è certo di aderire alle pretese delle Regioni ma deve essere funzionale a migliorare l’efficienza degli apparati pubblici, ad assicurare una maggiore responsabilità politica e a meglio rispondere alle attese e ai bisogni dei cittadini”.

Nei corridoi della Lega ieri si bisbigliava che fosse andata «peggio del previsto». Prevedevano quindi di aver scritto una legge non del tutto legale, e nonostante questo, da mesi la peroravano come un’intuizione politica perfetta, mandando avanti il ministro Calderoli a fare il testimonial di una ciofeca.

Ora la maggioranza assicura che “interverrà in Parlamento”. Come non fidarsi?

Buon venerdì.

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Il turismo non è il Twiga. Che flop l’estate italiana!

Non bastavano le grane giudiziarie a rendere traballante la poltrona della ministra Daniela Santanchè. Ora ci si mettono anche i numeri – quelli veri – a certificare il fallimento della gestione a propulsione sovranista del turismo italiano. Mentre ad agosto la ministra si pavoneggiava annunciando trionfalmente che “sempre più turisti, soprattutto stranieri, scelgono di vivere l’estate sotto il sole italiano”, i dati Eurostat raccontavano una storia ben diversa. Come rivelato dall’analisi di Lorenzo Ruffino nella sua newsletter, l’Italia si è guadagnata il poco invidiabile primato di peggior performance turistica in Europa: 208 milioni di pernottamenti tra giugno e agosto 2024, con un calo dell’1,9% rispetto al 2023.

E mentre la media europea cresce dello 0,9%, noi perdiamo terreno insieme a Serbia e Francia in una classifica che vede brillare il Lussemburgo (+20,5%) e persino l’Albania (+16,1%). Ma il dato più allarmante è la fuga dei turisti italiani: -5,8% rispetto all’anno scorso. Per la prima volta dal 2011, gli stranieri (106 milioni) hanno superato i connazionali (102 milioni) nei pernottamenti estivi. Un segnale inequivocabile che la tanto sbandierata “estate italiana” sta diventando sempre più inaccessibile proprio per i connazionali. Mentre la ministra si destreggia tra aule di giustizia e dichiarazioni roboanti, il turismo italiano perde colpi. E non serve essere esperti di economia per capire che se persino l’Albania ci surclassa nella crescita turistica, forse è il caso di ripensare non solo le politiche di settore, ma anche a chi le gestisce. La verità è che non si può guidare il turismo italiano come si gestisce un Twiga qualsiasi. E i numeri, quelli veri, sono lì a dimostrarlo.

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Libero spara su Sos Mediterranee e la ong risponde per le rime

Oggi è il turno della Ong SOS Mediterranee, costretta a smontare un castello di accuse incrociate che arrivano dal quotidiano Libero e che sono state rilanciate da Fratelli d’Italia. L’Ong ha pubblicato una dichiarazione ufficiale per rispondere all’articolo dal titolo “Migranti intercettati, Ong boicottano trasporto clandestini in Albania” e al tweet del partito della premier Meloni che, sull’onda dello scoop del quotidiano, rilancia le accuse.

Il fumo delle accuse: tra propaganda e realtà

Secondo Libero le navi delle Ong, come la Ocean Viking di SOS Mediterranee, verrebbero impiegate per “intercettare” i migranti con l’obiettivo – si legge nell’articolo – di ostacolare i trasferimenti verso l’Albania, in ottemperanza al recente accordo di cooperazione stipulato dal governo italiano. Non solo: le Ong, secondo questa narrazione, avrebbero instaurato una strategia di “coordinamento” volta a mantenere la rotta verso l’Italia come approdo preferenziale, incuranti delle direttive nazionali. Ma quanto di tutto questo trova conferma nei fatti?

SOS Mediterranee, con una risposta immediata, rispedisce al mittente le accuse. Secondo Valeria Taurino, direttrice di SOS Mediterranee Italia, “non c’è mai stata né una richiesta, né tanto meno un ordine, alla nostra Ocean Viking o ad altre imbarcazioni di trattenere migranti per impedire il loro trasferimento”. SOS Mediterranee anzi denuncia come la rappresentazione sia stata distorta, spinta all’estremo con parole che generano ostilità, stigma, confondendo la funzione di salvataggio con una manovra politica.

La risposta di SOS Mediterranee: soccorso, non sabotaggio

Ma c’è di più. Libero, citando fonti anonime del Viminale, parla di un documento riservato, eppure – fa notare Taurino – di tale documento non esiste traccia verificabile. Anche il Viminale tace, mentre la confusione mediatica viene lasciata incancrenirsi in un paese dove l’immigrazione è già terreno di contesa politica. E proprio su questo tasto batte Fratelli d’Italia, che attraverso i propri canali social rilancia: “Le Ong stanno boicottando l’accordo con l’Albania. Gli italiani devono sapere la verità.” Una verità che, però, non trova né conferme né riscontri: nessuna Ong, SOS Mediterranee in testa, è mai stata formalmente avvertita di un presunto boicottaggio delle operazioni di trasferimento. Gli unici ordini che la Ocean Viking segue – precisano – sono quelli previsti dalle leggi internazionali e dai regolamenti Sar (Search and Rescue), e il loro mandato è e resta il salvataggio in mare.

SOS Mediterranee svolge il proprio lavoro in uno dei tratti di mare più pericolosi al mondo, un cimitero liquido che ha visto già oltre 30mila vite spezzarsi negli ultimi anni. Le operazioni di salvataggio sono obblighi, non scelte, che rispondono al diritto marittimo internazionale e alle convenzioni Sar, firmate anche dall’Italia. Il comunicato dell’Ong non lascia spazio a interpretazioni: “Non esiste coordinamento strategico tra le Ong e nessuno si sta opponendo ai piani del governo per boicottare le espulsioni”. Una dichiarazione limpida, che però non sembra sufficiente a fermare la macchina della disinformazione, implacabile quando si tratta di avvelenare il dibattito.

È  la solita china pericolosa che il governo Meloni sta imboccando: l’uso dei media per trasformare le Ong in un nemico di comodo, da dare in pasto all’opinione pubblica in momenti di tensione politica. L’accordo con l’Albania, celebrato con enfasi dalla premier Giorgia Meloni, prevede il trasferimento di migranti in strutture oltremare, sollevando molte domande su gestione e diritti, ma queste domande restano sospese, mentre si punta il dito contro chi salva vite. Così focus non è più sulla realtà dei fatti, ma su un’illusoria “collusione” che trasforma la missione umanitaria in azione politica.

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Ursula von der Leyen in bilico: la Commissione Ue in stallo tra nazionalismi e ricatti

Nel groviglio di ambizioni e vendette che oggi caratterizza la politica europea, il Partito popolare europeo (Ppe) sembra aver imboccato la strada che lo porta sempre più vicino alla destra sovranista, abbracciandone linguaggio e strategie. I recenti attacchi alla candidata socialista Teresa Ribera sono emblematici di una nuova fase: l’aggressività verbale, già conosciuta nei circoli dell’estrema destra, si manifesta anche tra i Popolari, soprattutto sotto la guida del capogruppo Manfred Weber.

A Bruxelles, Ribera, già vicepremier del governo Sanchez e candidata a vicepresidente della Commissione, è stata oggetto di critiche personali e virulente che lasciano poco spazio alla diplomazia. Il Ppe, e in particolare il Partido Popular spagnolo, sembrano decisi a indebolirla, alimentando una polarizzazione che rischia di bloccare l’Europa in un momento critico.

L’assalto a Ribera: tra ambizioni e vendette

L’aggressione del Ppe a Ribera infatti ha gettato nel caos la coalizione europeista che aveva sostenuto Ursula von der Leyen. Il patto tra popolari, socialisti e liberali sembra essersi infranto nel momento in cui il Ppe ha annunciato che non sosterrà Ribera. La rottura è una minaccia alla stessa maggioranza pro-europea, come ha evidenziato la presidente del gruppo socialista, Iratxe Garcia Perez, denunciando l’atteggiamento distruttivo del Partido Popular spagnolo. Al tempo stesso, il Ppe pretende che il Parlamento europeo approvi Raffaele Fitto come vicepresidente, un ruolo che il gruppo sovranista Ecr – di cui Fitto fa parte – intende usare come leva politica.

Non è un segreto che l’Europa stia cercando faticosamente un compromesso per la prossima Commissione, prevista in carica dal primo dicembre. Alla tensione tra Ppe e socialistici si aggiunge l’intervento diretto di leader come Giorgia Meloni, che utilizza la retorica del “voto contro l’Italia” per difendere la candidatura di Fitto, dimenticando il precedente del suo partito con Paolo Gentiloni. La presidente del Consiglio italiana, allineandosi al Ppe, dipinge ogni dissenso su Fitto come un attacco al Paese, sfruttando una narrazione nazionalista che punta il dito sui socialisti europei, accusati di discriminare l’Italia. Ma la realtà è ben diversa: i socialisti fanno formalmente parte della maggioranza pro-Europa, mentre il gruppo Ecr, cui appartiene Fitto, no.

Nel tentativo di trovare una via d’uscita, von der Leyen ha cercato di mediare tra le parti, incontrando Weber, Garcia Perez e la presidente dei liberali di Renew, Valérie Hayer. Tuttavia, anche questi tentativi di riconciliazione sono falliti, trasformando ogni incontro in una sequela di accuse e recriminazioni. I socialisti, esasperati, hanno deciso quindi di non appoggiare Fitto né il commissario ungherese Oliver Varhelyi, vicino al governo di Viktor Orban, che il Ppe invece difende. In risposta, Weber ha lanciato un ultimatum: il Ppe sosterrà Ribera solo se socialisti e liberali daranno via libera a Fitto e Varhelyi. Un aut aut aggravato dalle richieste che Ribera si presenti davanti al Congresso spagnolo per giustificare la sua gestione delle recenti inondazioni in Valencia e che si dimetta in caso di inchiesta.

Una Commissione ostaggio del sovranismo?

Dietro la facciata di questo braccio di ferro c’è una partita tutta politica più di potere che di ideali. Il Ppe sembra volersi assicurare un controllo sempre più forte sulle istituzioni europee, utilizzando la retorica populista e l’aggressività che da sempre caratterizzano i suoi alleati sovranisti. La pressione esercitata su Ribera e il sostegno granitico a Fitto dimostrano un cambio di passo. Lo stesso Fitto è diventato una pedina in questo gioco di potere, trasformato in simbolo di una battaglia tra opposti schieramenti. Lungi dall’essere una semplice contesa su incarichi istituzionali, la crisi getta un’ombra sulla capacità della futura Commissione di garantire un governo stabile all’Europa.

I liberali, intanto, osservano con preoccupazione l’escalation, mentre l’immobilismo del Ppe rischia di lasciare scoperta la Commissione di von der Leyen proprio quando l’Unione dovrebbe fare fronte comune su questioni cruciali come la transizione climatica, la sicurezza e la gestione delle crisi internazionali. La stessa Ursula von der Leyen è in bilico, la sua figura messa in discussione dalla radicalizzazione delle posizioni del suo partito, che mina la sua autorità come presidente di una coalizione sempre più frammentata. In quest’ottica, Fitto diventa la leva per condizionare non solo i socialisti ma anche von der Leyen, spingendola a sostenere una linea più conservatrice in cambio della stabilità istituzionale.

Il rischio quindi è che la Commissione nasca debole, ostaggio di un equilibrio instabile tra i compromessi necessari per accontentare ciascun gruppo. L’appoggio del Ppe a Varhelyi, commissario ungherese, è particolarmente delicato: il suo profilo è rifiutato da molti, sia per le sue posizioni filo-Orban, sia per la mancanza di fiducia che ispira nel Parlamento europeo.

Ora, la palla passa ai socialisti e ai liberali. Se non faranno un passo indietro, il voto del 27 novembre potrebbe diventare il terreno di scontro definitivo, con il rischio di una Commissione bloccata prima ancora di partire.

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Migranti e tribunali, la nuova linea: cercasi giudici che dicano sì al governo

Tradendo un’evidente difficoltà nella comprensione delle leggi italiane e una manifesta debolezza politica nel governarle, il governo Meloni decide ora di tornare alle vecchie tradizioni berlusconiane e punta direttamente sui giudici. Se la sezione immigrazione del Tribunale di Roma prende decisioni che vanno di traverso alla maggioranza, si cambia semplicemente il giudice, poiché non possono “licenziarli” come farebbe l’eccentrico Elon Musk.

L’emendamento è firmato da Sara Kelany, deputata di Fratelli d’Italia, che lo ha presentato nel Decreto flussi in Commissione Affari Costituzionali, proponendo di modificare la normativa sulle convalide dei trattenimenti e di spostare la competenza dalle sezioni dei tribunali specializzate in materia migratoria alla Corte d’Appello.

La sezione immigrazione del Tribunale di Roma è stata istituita nel 2017 in seguito al decreto Minniti-Orlando, che prevedeva la creazione di sezioni specializzate per l’immigrazione, la protezione internazionale e la libera circolazione dei cittadini dell’Unione Europea. L’obiettivo principale di quella riforma era “migliorare l’efficienza e la specializzazione nella gestione dei procedimenti legati all’immigrazione, rispondendo all’aumento delle domande di asilo e alle sfide poste dai flussi migratori”.

L’emendamento proposto dalla deputata Kelany sembra suggerire che “l’emergenza migranti” sia quindi superata, spostando la gestione giuridica alla già sovraccarica Corte d’Appello. Oppure, più semplicemente, questo governo sarebbe disposto ad affidare le decisioni perfino ai salumieri, pur di trovare qualcuno che gli dia ragione.

Buon giovedì.

In foto la presidente Meloni e il presidente Rama il 5 giugno 2024 a  Gjader in Albania

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Il tandem Musk-Trump già provato con Berlusconi

Non ci vuole molta fantasia per capire l’impatto che Elon Musk potrebbe avere sui cittadini USA e sugli Stati Uniti nel palcoscenico internazionale. Noi italiani quel film l’abbiamo già visto. Il 26 gennaio 1994, un miliardario proprietario del media più importante del momento (la televisione) annunciò il suo ingresso in politica. La promessa era la stessa: contrastare la sinistra e portare un’impronta imprenditoriale e modernizzatrice nel sistema politico. Le voci a favore erano simili a quelle che si sentono ora per Musk: “Se un uomo ha avuto tanto successo nella vita, perché non dovrebbe portare tutti noi al successo come le sue aziende?”.

L’Italia promessa da Silvio Berlusconi stava tutta nelle sue televisioni: donne bellissime per spingere gli ascolti e quindi i consumi; linguaggio greve per rivendicare un nuovo modello di libertà, quella di badare ai propri interessi senza disturbi; un inno alla ricchezza insieme allo sdoganamento dei poveri come falliti; attacchi contro il fastidio portato dalla magistratura e dalle regole (ve lo ricordate Sgarbi nella sua trasmissione “Sgarbi quotidiani”?); il mito del self-made man, che deve essere messo in condizione di decidere da solo senza l’impiccio dei meccanismi istituzionali. Come sia andata lo sappiamo bene, ce lo ricordiamo (quasi) tutti. Il mondo di Elon Musk sta nel suo potentissimo social X, trasformato in un’osteria di squinternati in cui vince chi spara il complotto più grosso, dove la calunnia è scambiata per informazione e il falso è “la verità nascosta”. Un’altra cosa accomuna Berlusconi e Musk: la politica è la via indispensabile per proteggere gli affari e trovare riparo giudiziario. L’abbiamo già vista, questa storia.

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Esposto di Sea Watch contro l’Italia e Musk torna alla carica

Nel cuore del Mediterraneo, su acque ormai troppo spesso segnate da drammi inumani, si è consumata una tragedia che Sea Watch – l’organizzazione non governativa tedesca che da anni monitora e soccorre i migranti alla deriva – non vuole permettere che passi sotto silenzio. È il 2 settembre 2024 quando ventuno persone perdono la vita in un naufragio a poche miglia da Lampedusa, nell’attesa di un intervento che non arriverà. Sea Watch ha presentato ieri alla Procura di Agrigento un esposto contro le autorità italiane, accusandole di aver omesso i soccorsi.

Secondo il rapporto dell’organizzazione, l’intervento sarebbe stato richiesto per ore ma gli operatori della Guardia costiera italiana hanno negato il soccorso immediato, attendendo invece che fosse la cosiddetta Guardia costiera libica ad intervenire. Risultato: le persone a bordo di quella barca, che non aveva altra speranza che vedere una nave all’orizzonte, sono diventati numeri in più da contabilizzare nelle statistiche dei morti nel Mediterraneo.

Attacchi alle Ong e diritti umani ignorati: ora ci si mette anche Musk

A queste accuse, che toccano il cuore della gestione dei soccorsi, si è aggiunto oggi Elon Musk che con un tweet accusatorio, ha definito gli attivisti di Sea Watch “criminali”. Il fondatore di Tesla e proprietario della piattaforma X (e ora nella squadra di governo di Trump) ha insinuato che le Ong, come Sea Watch, non stiano salvando vite, ma alimentando un sistema illegale di immigrazione. La Ong non si è lasciata intimidire. Ha risposto a Musk con parole nette, ricordando che il vero crimine è l’abbandono in mare e l’omissione di soccorso: “Chi crede che il nostro dovere morale di soccorrere vite sia un crimine, non conosce la legge internazionale”. “Non ci facciamo intimidire da bulli antidemocratici – scrive Sea Watch – che minacciano chi rispetta i diritti umani, giudici o Onf. Ci chiama criminali. Il nostro unico “crimine” è testimoniare le brutali politiche in mare, come l’omissione di soccorso del 2 settembre, costata la vita a 21 persone”. 

L’attacco all’Ong è doppio: da un lato quello dei governi, sempre più insofferenti di fronte alla supplenza che le organizzazioni non governative esercitano rispetto a quelli che dovrebbero essere compiti degli Stati, e dall’altro quello di figure pubbliche di rilievo internazionale che alimentano accuse già smontate da diverse sentenze. Di fronte a tutto questo, Sea Watch rilancia l’accusa: la violazione dei diritti umani è un peso che non è possibile  ignorare.

Il decreto Paesi Sicuri: sulla Nigeria tutto da rifare

Intanto, dopo il decreto Paesi Sicuri varato dal governo, si apre per i richiedenti asilo provenienti dalla Nigeria la possibilità di reiterare le istanze precedentemente respinte. Il Paese africano, indicato inizialmente nel decreto interministeriale come Paese sicuro, è stato depennato dall’elenco proprio con l’adozione del decreto legge 158, con il quale l’esecutivo ha riproposto, aggiornandola, la lista dei Paesi di provenienza per i quali è possibile espletare le procedure accelerate prendendo atto della sentenza della Corte di giustizia europea del 4 ottobre sorso. Ma ora, i cittadini nigeriani che sono stati assoggettati a procedura accelerata sulla base del precedente decreto interministeriale, potrebbero richiedere, proprio in base al nuovo decreto legge, il riesame dell’istanza con procedura ordinaria. Come ha stabilito un decreto del 7 novembre scorso del Tribunale di Napoli che ha infatti accolto l’istanza di sospensione – reiterata da un richiedente nigeriano – che era stata rigettata in prima istanza, prima della pubblicazione del nuovo decreto Paesi sicuri.

Mentre Sea Watch porta avanti la sua battaglia per la verità e la giustizia, il decreto sui Paesi sicuri mostra crepe evidenti nei tribunali italiani e le deportazioni in Albania rimangono bloccate in attesa della Corte di giustizia europea. La narrazione ufficiale che vorrebbe dipingere la migrazione come un problema di sicurezza interna rischia di sgretolarsi sotto i colpi delle sentenze, mentre sullo sfondo rimane la tragedia umana di chi continua a morire nel Mediterraneo.

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Pugno di ferro e affari, Trump si prende l’America

L’impero ritorna, o almeno è questa l’idea. Donald Trump non si limita a vincere le elezioni, vuole costruire un’amministrazione che suoni come un grido di guerra, come un sigillo che promette tempi cupi. A guardare i volti, i nomi e i trascorsi di chi sta selezionando per i ruoli più alti del governo, sembra che l’ex presidente non si accontenti di tornare sulla poltrona della Casa Bianca: vuole ridefinire il potere americano come una fortezza impietosa, governata da un élite di falchi e attivisti dalle vedute suprematiste se non addirittura xenofobe. 

Perché questo è il nuovo mantra dell’amministrazione: l’efficienza, ma alla maniera di Elon Musk. È lui, il miliardario dai proclami altisonanti, che Trump mette a capo del Dipartimento per l’Efficienza, un nome che suona quasi ironico se pensiamo alle battaglie con la giustizia e alle accuse di conflitto d’interessi che circondano il suo impero. Musk, con Vivek Ramaswamy, dovrebbe sfoltire la giungla di regolamentazioni che, secondo Trump, ha messo in ginocchio l’America. Musk, che si è schierato più volte contro politiche pro-migranti, è l’alleato ideale di un presidente pronto a tagliare con l’accetta ogni vincolo, ogni norma che sembri frenare il “progresso”, una parola che nel loro vocabolario significa solo affari e profitti.

L’efficienza secondo Trump: Musk e Ramaswamy contro ogni regolamento

La selezione non sorprende: l’amministrazione Trump II è popolata di fedelissimi e di falchi. Kristi Noem, governatrice del South Dakota e figura amata dalla destra più dura, prende la Sicurezza Interna. Con una carriera costellata di posizioni controverse – è celebre la sua decisione di sparare al suo stesso cane “perché non ubbidiva” – Noem sembra la scelta perfetta per un presidente che vuole l’America dura, spietata, priva di empatia. È l’alfiere ideale di una politica che vede nei migranti un nemico da respingere, nelle frontiere una trincea da blindare.

E poi c’è Pete Hegseth, il volto della propaganda a stelle e strisce su Fox News, nominato al Pentagono. Un anchorman con un passato da militare, il suo sguardo è tutto rivolto all’interno, al culto dell’America First, a una politica estera fatta di minacce, muri e sospetti. Sotto di lui, il Pentagono non sarà un organo di difesa: diventerà uno strumento di pressione, di retorica e di spada sguainata contro chiunque non si allinei.

Altri volti conosciuti: Stephen Miller, già ideatore delle politiche migratorie più rigide e divisive dell’era Trump, torna come Vice capo di gabinetto. È Miller che orchestrò la famigerata politica della “tolleranza zero” contro i migranti, quella che strappava i figli dalle braccia dei genitori al confine. Per Miller, la sicurezza americana non è solo una questione di difesa, è una guerra senza tregua contro chi non appartiene a questa terra. E Trump, evidentemente, lo vuole di nuovo sul campo di battaglia.

Falchi e fedelissimi: la nuova guardia della Casa Bianca

Ma l’ombra più inquietante si staglia con la nomina di Marco Rubio a Segretario di Stato. Il senatore della Florida ha le mani pronte a stringere alleanze con i regimi più discutibili, ma sempre a favore dell’imperativo suprematista di chi considera l’America come una roccaforte da difendere a ogni costo, anche a scapito dei diritti umani e della dignità. Rubio, che a ogni crisi internazionale reagisce con dichiarazioni che trasudano nazionalismo, sarà il volto di una politica estera implacabile, per nulla incline alla mediazione.

In mezzo a tutto questo, troviamo un’idea che Trump non fa nulla per nascondere: la sua seconda amministrazione non sarà una democrazia liberale, sarà una macchina efficiente, senza ostacoli morali, senza freni né mezze misure. I suoi uomini e donne, dai miliardari agli ideologi, sono lì per un solo motivo: smantellare quel che resta della tolleranza e dell’inclusività nella burocrazia americana. Li ha scelti perché sono volti che hanno dimostrato fedeltà cieca, e perché, nei rispettivi ruoli, rappresentano un’ideologia precisa e violenta.

Trump, alla fine, non è solo un uomo che ha riconquistato la presidenza, è il regista di un film distopico che, questa volta, ha deciso di mettere in scena non nei confini della fantasia ma in quelli della realtà americana. E la sua realtà, adesso, è una squadra di fedelissimi pronti a trasformare ogni dissenso in un’onta da estirpare, ogni diritto in un beneficio revocabile. Con queste nomine, la storia americana non si limita a ripetere il proprio passato oscuro: lo riporta in vita, con una nuova veste e volti che, come spettri, promettono di rimanere impressi nella memoria collettiva.

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Mille euro per nascere nel 2024: il bonus di Meloni è un copione già visto e fallito

Da sempre Giorgia Meloni ha puntato il dito contro quello che chiamava il “Paese dei bonus,” definendo le erogazioni una tantum come il simbolo di una politica debole, concentrata sui consensi facili piuttosto che su riforme strutturali. Oggi, alla guida del governo, si ritrova ad applicare proprio il metodo che criticava: per i nuovi nati del 2024 propone un bonus bebè da mille euro, riprendendo una vecchia formula che si è già dimostrata inadeguata. A dimostrarlo ci sono i dati: i bonus bebè già introdotti dai governi passati hanno mostrato risultati inconsistenti, se non fallimentari, nel tentativo di stimolare la natalità.

Dai proclami contro i bonus alla replica di un fallimento: Meloni e il bonus bebè del 2024

Come spiega Pagella politica in una sua analisi, già nel 2006 il governo Berlusconi lanciò un bonus bebè di mille euro, rivolto a tutte le neo-mamme senza restrizioni di reddito. L’obiettivo era chiaro: invertire la tendenza delle nascite in calo e sostenere le famiglie. Risultato? Dopo un anno, l’Istat registrò un lieve incremento delle nascite, ma l’effetto non durò. Senza misure continuative, la natalità non si stabilizza. Così, con il governo Letta nel 2013, arrivò un nuovo tentativo: un altro bonus per le nascite, questa volta con limiti di reddito. Un assegno singolo, nonostante le aspettative, non ha la forza di cambiare i bilanci familiari né di sostenere le famiglie con figli a lungo termine.

Nel 2015 ci provò Renzi con un bonus rinnovato: una somma mensile per ogni figlio fino ai tre anni, con tetto ISEE fissato a 25.000 euro. Una misura più articolata, che doveva rappresentare un passo avanti. Ma anche qui, i risultati non furono quelli sperati. Tra il 2015 e il 2020, il numero di nascite ha continuato a calare: nel 2015 sono nati 485.780 bambini, ma nel 2020 siamo scesi a 404.892, il minimo storico. Il bonus mensile, nonostante il tentativo di renderlo più stabile, si è rivelato insufficiente: i mille euro all’anno per i figli di famiglie con Isee basso non hanno risolto nulla.

Con l’arrivo del governo Conte II nel 2020, si introdusse un “assegno temporaneo” da 80 euro al mese per figlio, un’altra misura che aveva come obiettivo quello di sostenere le famiglie a basso reddito. L’investimento, pari a oltre un miliardo di euro, sembrava indicare un cambiamento, ma di nuovo il risultato fu deludente: alla fine del 2020, Istat confermò il calo delle nascite, con 404.892 nuovi nati, mentre nel 2021 si toccò un nuovo record negativo, con 400.249 nascite. Insomma, i bonus bebè di breve periodo, per quanto rinnovati, non sono in grado di sostenere un aumento stabile della natalità in Italia.

Il vero sostegno alla natalità: gli esempi di Francia e Svezia

A questo punto, bisogna chiedersi: perché i bonus una tantum o i contributi per pochi anni non hanno funzionato? La risposta è semplice e chiara nei numeri. Mettere al mondo un figlio è una decisione che implica costi sostenuti per anni e che richiede condizioni di stabilità, un contesto economico e sociale che possa supportare la crescita della famiglia. È proprio ciò che altri Paesi europei hanno compreso bene. La Francia, ad esempio, ha stabilito da anni un sistema di sostegno alle famiglie che include congedi parentali ben pagati, asili nido gratuiti e agevolazioni fiscali significative, con un investimento pari a oltre il 2,8% del PIL nel 2022, contro l’1,1% dell’Italia. La Francia è uno dei pochi Paesi europei dove la natalità è più stabile, un fatto che ha radici in politiche di welfare concrete e durature, non in bonus spot.

Un altro caso significativo è la Svezia, dove il governo copre fino al 75% delle spese per i servizi di cura dell’infanzia e offre incentivi alle aziende che favoriscono la flessibilità per i genitori. Questa struttura permette alle famiglie di progettare il loro futuro con maggiore sicurezza. L’Italia, invece, ha riproposto sempre le stesse soluzioni, pensando che bastasse un piccolo incentivo una tantum per risolvere un problema sociale complesso. Ma come dimostrano i dati dell’Istat, la popolazione continua a calare e i nati del 2024 non saranno certo incentivati a sufficienza dai mille euro offerti dal governo Meloni.

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I “fantamiliardi” di Soros e il silenzio su Musk: l’ipocrisia sovranista tra complotti e veri miliardari

Matteo Salvini e Giorgia Meloni per anni hanno concimato l’idea che un miliardario americano (di cui non dimenticavano mai di sottolineare l’origine ebrea) George Soros decidesse le sorti del mondo con i suoi fantamiliardi favorendo l’immigrazione clandestina per rovesciare le democrazie europee. 

I loro più fervidi seguaci propugnano tutt’oggi questa ipotesi, soprattutto su quella latrina che è diventata l’ex Twitter ora X. Nessuno è mai riuscito a spiegarci perché Soros avrebbe scelto come hobby quello di boicottare Lega e Fratelli d’Italia ma questo sembra non interessare a chi lamenta “le ingerenze di un miliardario” nel placido sovranismo italico. 

Un miliardario americano di origine sudafricana, Elon Musk, con i suoi soldi ha comprato il social X trasformandolo in un contenitore di propaganda e di ingerenza politica. Padrone dell’algoritmo il miliardario Musk sfrutta la sua vasta eco per rilanciare calunnie, millanterie e rutti sui sistemi democratici del mondo (ieri contro il sistema giudiziario italiano). 

Musk è la dimostrazione di come denaro e social rendano un soggetto ricco anche un soggetto politico, alla faccia del “popolo”, della “democrazia” e di un altro paio di concetti su cui si poggiano le democrazie liberali occidentali. 

Meloni e Salvini in questo caso tacciono, anzi addirittura gongolano. Di Musk e di Trump hanno detto che sono il simbolo della “vittoria del popolo sulle élite”. E questo è tutto quello che c’è da dire sull’attuale momento storico. 

Buon mercoledì. 

Nella foto: Giorgia Meloni e Elon Musk (fb ufficiale G.Meloni)

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