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Giulio Cavalli

COP29, l’assenza di von der Leyen e Macron: l’ombra lunga dell’indifferenza europea

L’assenza annunciata della presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, alla prossima COP29 a Baku che inizierà lunedì suscita perplessità e preoccupazione tra gli osservatori climatici. L’Europa, storicamente pioniera nella lotta contro il cambiamento climatico e baluardo delle politiche ambientali globali, sembra vacillare proprio quando la crisi richiederebbe invece ancora più intransigenza. L’assenza di von der Leyen, definita da molti come “un segnale fatale”, ora rischia di minare ulteriormente la credibilità dell’Unione in un momento critico.

Cop29, l’Europa tra leadership e assenza

Ma non è solo von der Leyen a disertare l’evento. Anche altri leader europei chiave, come il presidente francese Emmanuel Macron e il cancelliere tedesco Olaf Scholz, hanno deciso di non partecipare alla COP29. La mole di assenze inevitabilmente solleva interrogativi sulla volontà politica dell’Europa di mantenere il proprio ruolo di guida nella lotta contro il cambiamento climatico.

Le conferenze internazionali sul clima, da anni, sono il palcoscenico dove i leader mondiali devono dare prova di leadership e assumere impegni tangibili. La scelta di von der Leyen e di altri leader di non partecipare alla COP29 viene letta da molti come un segnale di debolezza o, peggio, di indifferenza.

L’assenza segna un disallineamento tra le dichiarazioni solenni di Bruxelles e le azioni concrete necessarie per fronteggiare una crisi sempre più pressante. La COP29 si tiene in un contesto già teso, con emissioni globali che non accennano a calare e con la fiducia del pubblico che si sgretola sotto il peso delle promesse non mantenute.

La scelta di Baku: una sede controversa

A questo si aggiunge, il controverso ruolo dell’Azerbaigian come ospite della COP29. Sebbene il paese abbia investito in alcune iniziative energetiche rinnovabili, la sua economia resta fortemente dipendente dall’estrazione e dall’esportazione di combustibili fossili. In molti sottolineano come l’Azerbaigian abbia spesso adottato politiche contraddittorie, dichiarando ambizioni ecologiche mentre continuava a rafforzare la sua produzione di petrolio e gas.

L’Europa, che solo pochi anni fa aveva lanciato il Green deal europeo come strumento di rinascita economica e sostenibilità, sta cambiando. Le pressioni interne ed esterne, dai costi energetici alle divisioni politiche tra gli stati membri, hanno indebolito la capacità di von der Leyen e degli altri leader di sostenere un ruolo di primo piano nella diplomazia climatica.

Alcuni critici vedono in questa mossa un tentativo di evitare l’assunzione di nuove responsabilità o impegni troppo vincolanti, che potrebbero trovare resistenze nei governi più reticenti. Tuttavia, l’assenza non fa che ampliare il divario tra le parole e i fatti, minando la credibilità dell’Ue agli occhi dei partner internazionali e degli elettori europei.

Effetto Trump sulle politiche green

In parallelo, la COP29 si tiene in un contesto mondiale caratterizzato dal ritorno di politiche climatiche negazioniste. Donald Trump, nuovamente presidente degli Stati Uniti, ha riaperto la stagione delle dichiarazioni infondate e pericolose. In una recente intervista, ha affermato: “Il cambiamento climatico è una bufala. Non c’è nessuna prova che il clima stia cambiando a causa dell’attività umana.” Parole che riecheggiano vecchi slogan ma che, tornate in auge sulla scena mondiale, complicano ulteriormente la ricerca di soluzioni condivise.

Mercoledì, la Commissione europea in una nota aveva scritto: “La nostra leadership è dimostrata dalle nostre azioni coerenti a livello nazionale e internazionale. Siamo sempre una voce di spicco per la nostra ambizione nella lotta al cambiamento e non cambieremo atteggiamento anche quest’anno”. Non resta che vedere. 

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Asgi smonta il decreto Paesi sicuri: “Così è a rischio il diritto d’asilo”

Il Decreto Paesi sicuri del governo Meloni, a detta dell’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione (Asgi), rappresenta una forzatura che travolge il diritto di asilo con una lista di Paesi “sicuri” costruita su criteri più politici che reali. Apparentemente è una norma per velocizzare le pratiche, evitare lungaggini, risparmiare soldi pubblici. Ma, nella sostanza, Asgi solleva un dubbio pesante: chi stabilisce cosa sia sicuro e cosa no, e soprattutto, come può questa lista non essere una scorciatoia che fa saltare garanzie fondamentali?

A prima vista, il decreto è semplice: chi proviene da Paesi dichiarati “sicuri” non avrebbe diritto a un percorso di protezione completo. In sostanza, con questa norma, il governo spera di sfoltire le richieste di asilo, trattando intere categorie di richiedenti come “a basso rischio”. Asgi tuttavia sottolinea come questa semplificazione sacrifichi il diritto a una valutazione personalizzata, un aspetto che dovrebbe essere basilare quando si parla di vite umane. La lista dei Paesi sicuri, infatti, include Stati che la stessa comunità internazionale – per non parlare delle associazioni umanitarie – ha più volte dichiarato “problematici” per la tutela dei diritti umani. La Tunisia, per esempio, è nella lista, eppure Asgi ricorda che il Paese è stato segnalato per casi di tortura e repressione. Dichiararla sicura, sostiene Asgi, è un atto di comodo che ignora i fatti.

La presunzione di sicurezza che mette a rischio le tutele

Ma il problema non finisce qui: come osserva Asgi, il decreto introduce una “presunzione di sicurezza” che finisce per ribaltare l’onere della prova. Invece di tutelare chi chiede protezione, costringe chi proviene dai Paesi in lista a dimostrare in tempi strettissimi e con prove stringenti di essere a rischio “individuale e straordinario”. Chi fugge da questi Paesi deve correre contro il tempo, raccogliere documenti che spesso è difficile procurarsi, e tutto questo per convincere una macchina burocratica che non intende soffermarsi su storie individuali, ma applicare un principio generale: se vieni da lì, te la cavi.

Asgi avverte che il decreto taglia le garanzie: le decisioni arrivano entro un mese, troppo poco per chi fugge da persecuzioni, lasciando spesso tutto alle spalle, compresi i documenti. Non solo: con il decreto diventa praticamente impossibile presentare un ricorso efficace. E così si svuota il diritto alla difesa, una scorciatoia che potrebbe tradursi in respingimenti di persone che secondo i trattati internazionali avrebbero pieno diritto alla protezione. Asgi descrive il decreto come un sistema accelerato che però si basa su una logica pericolosa: non contano le ragioni individuali, conta solo da dove vieni. Un passo indietro, un passo verso il rischio di violare i principi sanciti anche dall’articolo 10 della Costituzione italiana, che garantisce asilo a chiunque scappi da violazioni dei diritti umani.

L’Asgi sottolinea che questa accelerazione della procedura, a scapito delle garanzie, contraddice i principi che l’Italia ha firmato nelle direttive europee, che impongono valutazioni individuali e aggiornate. Con il decreto, dice Asgi, il governo tratta situazioni complesse con uno schema burocratico che elimina la dimensione umana del diritto di asilo.

Il cuore del problema, secondo Asgi, è nella stessa nozione di Paese “sicuro”: come si fa a catalogare come sicuro un intero Stato, ignorando i diversi contesti locali e politici? Chi garantisce che per ogni richiedente asilo proveniente da quel Paese esista un livello di sicurezza accettabile? Il diritto di asilo, come sottolinea Asgi, non dovrebbe dipendere da una lista geografica, bensì da una valutazione del rischio effettivo per la persona. Il decreto invece fa esattamente l’opposto: tratta chi arriva da un Paese “sicuro” come un caso di basso rischio, lasciando indietro la complessità di storie e situazioni.

Dl Paesi sicuri, un automatismo che ignora la complessità delle storie individuali

Il quadro delineato da Asgi è chiaro: il decreto, con la sua lista di Paesi sicuri, rischia di creare un’automatizzazione pericolosa. Questa “presunzione di sicurezza” porta a respingere persone che, se ascoltate, potrebbero rientrare nei criteri di protezione. L’Italia si impegna, in apparenza, a rispettare il diritto d’asilo, ma questa nuova lista tradisce quello che dovrebbe essere un principio di umanità.

Asgi avverte che questo decreto non solo rischia di violare i trattati internazionali, ma rischia di mettere l’Italia al centro di possibili violazioni dei diritti umani. L’associazione denuncia un pericolo concreto: queste scorciatoie burocratiche non risolvono la crisi migratoria, la spingono solo lontano dalla vista. Chi rimane fuori dalle porte chiuse, che il governo chiama “efficienza”, è una persona, una vita che rischia. Perché il rischio di chi fugge da un Paese dichiarato “sicuro” non scompare con un decreto.

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Riparte la nave Libra con solo 8 migranti a bordo in rotta verso l’Albania

La nave Libra riparte, stavolta con solo otto persone a bordo. La marina militare mobilitata per un carico ridotto all’osso, una scena che sfiora il surreale: mentre arrivano i primi provvedimenti giudiziari che mettono in discussione il decreto Paesi Sicuri, gli 80 metri della Libra salpano con una dozzina di membri dell’equipaggio e, come passeggeri, otto migranti. Erano stati selezionati in nove, ma uno è stato lasciato a terra. Troppo fragile, ha detto il medico. 

La Libra salpa con 8 migranti: propaganda o fallimento?

Un’operazione costosa e dal sapore aspramente politico, un’operazione svuotata nei numeri, ma tenuta in piedi per mostrare che il governo “fa”. I fatti, però, sono un’altra storia. Su oltre 1.200 persone sbarcate a Lampedusa nelle ultime 48 ore, solo otto uomini adulti e soli, senza vulnerabilità apparenti, hanno soddisfatto le rigide condizioni per essere considerati “idonei” al trasferimento. Il decreto governativo che definisce i “Paesi sicuri” restringe tanto i criteri che, alla prova dei fatti, appare più esclusivo che applicabile.

Lo scorso ottobre una decisione della Corte di giustizia dell’Unione europea aveva lasciato chiaramente presagire il destino del modello Albania, sancendo che un paese può essere ritenuto “sicuro” solo se garantisce il rispetto dei diritti umani su tutto il territorio. Il governo italiano ha risposto stabilendo per decreto la lista dei Paesi sicuri. Un decreto già disapplicato dal Tribunale di Catania che nei giorni scorsi ha rigettato il trasferimento di un migrante egiziano. Dopo che il primo tentativo di portare in Albania 16 migranti era già culminato, tre settimane fa, in un fallimento. Le sentenze dei tribunali confermano che chi proviene da Paesi “sicuri” solo sulla carta, come l’Egitto o il Bangladesh, non può essere trattenuto né in Italia né all’estero. 

L’Albania, con i centri di Shengjin e Gjader, accoglierà questi migranti per una durata che difficilmente supererà le 48 ore. Le stesse 48 ore necessarie alla Libra per raggiungere le coste albanesi. Il governo lo sa, così come sa che il rischio di invalidazione dei trasferimenti è altissimo. Semmai accadesse, il governo spera che l’operazione appaia come l’iniziativa di un governo che si dà da fare. E se dovesse andare male, pazienza.

Sentenze europee e costi alle stelle

A terra, l’indignazione cresce. Costi enormi, una nave capiente per meno di dieci persone, carburante e risorse impiegate per una misura che, a conti fatti, è destinata a esaurirsi in un mare di carte bollate. E mentre la Libra sfida le perturbazioni in arrivo sul Mar Ionio, gli interrogativi aumentano: quanto ci costerà l’operazione Albania Quanto è disposto il governo a spendere per una politica migratoria che mostra tutti i suoi limiti strutturali?

“Una nave da guerra della Marina Militare viene utilizzata per trasportare 8 migranti da Lampedusa in Albania, – dice il portavoce di Europa Verde e deputato di Alleanza Verdi e Sinistra, Angelo Bonelli – se qualcuno aveva dei dubbi questa è la prova provata che ci troviamo di fronte ad un’operazione di propaganda politica che sperpera denaro pubblico. Un viaggio che costa ben 36 mila euro a migrante”.

Per Riccardo Magi di +Europa “siamo alle comiche, se non fosse che i Cpr albanesi sono fuori dal diritto europeo e costano ben 1 miliardo di euro ai contribuenti italiani, che pagano per dei centri che finora hanno ospitato solo 12 persone. Un enorme spreco di denaro pubblico, una ignominia sul nostro Paese che fa un altro passo fuori dal diritto europeo, una triste pagina per i diritti umani”. 

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Trump, Musk e la politica pagata a peso d’oro: chi ha il controllo degli Stati Uniti?

Nella vittoria di Trump Elon Musk non è solo l’imprenditore eccentrico e visionario, è il miliardario che ha trasformato la sua influenza in un motore politico capace di spostare masse e determinare risultati.

Con la sua super PAC “My America PAC” — un comitato di azione politica che può raccogliere e spendere somme illimitate di denaro per sostenere candidati senza coordinarsi ufficialmente con le loro campagne — Musk ha diretto l’operazione di mobilitazione elettorale più massiccia mai vista, spendendo oltre 175 milioni di dollari per raggiungere quasi 11 milioni di elettori nelle zone chiave. Mentre Trump affidava il suo destino politico a un outsider, Musk dettava le regole di un gioco che la democrazia americana stenta a riconoscere. Canvassers, ossia volontari o professionisti incaricati di contattare gli elettori porta a porta, venivano pagati, con bonus per reclutare voti, persino incentivi economici mascherati da appelli al patriottismo: tutto pur di accendere un riflettore su un sistema dove la voce di chi ha denaro urla più forte di quella degli elettori.

Il connubio tra Trump e Musk non è solo un’alleanza elettorale. È la prova che la politica si è fatta spettacolo per pochi ricchi protagonisti, e Musk – con la sua piattaforma X trasformata in megafono personale – ne è il regista e attore principale. Le tattiche sfacciate, dagli incentivi al controllo delle operazioni sul campo, mostrano come le campagne politiche si stiano trasformando in laboratori per esperimenti finanziati da miliardari.

“Una stella è nata”, ha detto Trump tra applausi e sorrisi, mentre Musk pianificava già le prossime mosse per influenzare le elezioni di midterm. E così, in un’America sempre più strattonata tra potere e capitale, resta una domanda inquietante: quanto è lontana la democrazia quando la politica diventa l’affare personale dei miliardari?

Buon giovedì. 

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La profezia di Lewis materializzata da Trump

Nel 1935, mentre l’Europa guardava con inquietudine l’ascesa del nazifascismo, Sinclair Lewis decise di raccontare una storia che i suoi contemporanei liquidarono come assurda fantapolitica. “Qui non è possibile”, la intitolò. E invece.

Il romanzo racconta di un senatore americano, Berzelius “Buzz” Windrip, che conquista la presidenza cavalcando il malcontento popolare. La sua tattica è semplice: promette denaro facile (5.000 dollari all’anno a ogni cittadino), si erge a difensore dei “veri americani” e dei loro valori tradizionali, trasforma ogni critica in un attacco alla nazione. Presentandosi come un campione dei valori tradizionali americani, Windrip sconfigge facilmente i suoi avversari. 

Ma non è tanto il personaggio a essere inquietante, quanto il meccanismo che Lewis descrive con chirurgica precisione: l’erosione quotidiana delle istituzioni democratiche, la progressiva normalizzazione dell’inaccettabile, la metamorfosi del dissenso in tradimento. Nel romanzo la maggioranza degli americani approva le misure autoritarie considerandole “passi necessari benché dolorosi”. I più scettici si consolano ripetendosi che “qui non è possibile”.

È questa la vera profezia di Lewis: non tanto l’ascesa di un demagogo, quanto la nostra infinita capacità di autoassolverci mentre l’impossibile accade sotto i nostri occhi. Il fascismo, ci mostra, non ha bisogno di camicie nere per manifestarsi. Può presentarsi in giacca e cravatta, parlando di patriottismo e prosperità.

Rileggere oggi “Qui non è possibile” significa riconoscere, uno dopo l’altro, i segni del nostro tempo: la demonizzazione degli avversari politici, la manipolazione della realtà attraverso la propaganda, la trasformazione del patriottismo in una clava contro il dissenso. D’altronde, cosa c’è di più americano di un uomo d’affari che promette di rendere l’America di nuovo grande?

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Trump fa felici tutte le autocrazie e mette in apprensione l’Europa

È successo: Donald Trump ha vinto di nuovo. La sua riconquista della Casa Bianca è stata accolta con una sfilza di congratulazioni, ma il fervore maggiore viene dai leader che governano con pugno di ferro. Come a trovare in lui uno specchio delle loro ambizioni, capi di Stato di paesi autoritari hanno salutato Trump come un alleato, un modello di forza politica e autonomia da celebrare. E mentre in Europa le congratulazioni si mantengono sul filo della diplomazia, in Italia si accendono le prime controversie.

Orban e la “vittoria necessaria” di Trump

Il primo ministro ungherese Viktor Orban, senza mezzi termini, ha esaltato la vittoria di Trump come “necessaria per il mondo”, un segno che la storia politica si può riscrivere sfidando ogni previsione. Con la sua nota retorica populista, Orban saluta un presidente che interpreta la politica come una sfida ai limiti imposti dai diritti umani e dalle istituzioni internazionali. Per Orban, Trump rappresenta una conferma: la sovranità si difende ad ogni costo, non importa quale sia il prezzo per la democrazia.

Bolsonaro: “Il ritorno del guerriero”

In Brasile, Jair Bolsonaro lo definisce un “guerriero” capace di tornare alla guida del paese dopo “persecuzioni” e “processi ingiusti”. Con una narrativa che riflette la sua stessa vicenda, Bolsonaro vede in Trump un amico e un esempio di come il consenso possa sfidare la giustizia e le opposizioni. È quasi una chiamata alle armi per i movimenti conservatori, che sperano di risalire con lui in tutto l’Occidente.

Erdogan e l’amico Trump

Non meno caloroso, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha salutato Trump come un “amico”, augurandosi che la sua vittoria sia “benefica” per il popolo turco e per tutto il mondo. Erdogan, che spesso si è opposto alla pressione occidentale in favore dei diritti umani, guarda a Trump come a un leader disposto a tollerare l’autocrazia, pur di mantenere rapporti strategici. In fondo, il presidente turco vede nella Casa Bianca di Trump la speranza di una politica americana meno critica e più accomodante verso il suo stile di governo.

Le reazioni in Europa alla vittoria di Trump

In Europa, le congratulazioni sono più contenute. Emmanuel Macron, il presidente francese, ha inviato un messaggio formale, dicendosi “pronto a lavorare insieme”, ma senza lo slancio di altri. Ursula von der Leyen, presidente della Commissione Europea, ha espresso la speranza di continuare a lavorare per un’“agenda transatlantica forte”. In realtà, i leader europei osservano con prudenza, consapevoli che Trump rappresenta un’incognita nelle relazioni tra Stati Uniti ed Europa.

Le congratulazioni italiane e il dibattito nel governo 

Anche in Italia, la vittoria di Trump ha sollevato discussioni all’interno della maggioranza. Giorgia Meloni, presidente del Consiglio, ha augurato a Trump “buon lavoro”, sottolineando la volontà di rafforzare i legami con gli USA. Tuttavia, Matteo Salvini, leader della Lega e vicepresidente del Consiglio, ha trovato occasione per rilanciare il suo tema preferito: l’immigrazione. Secondo Salvini, la vittoria di Trump è “una lezione” che mostra come si possa gestire l’immigrazione senza l’intralcio dei giudici, una frecciata alla magistratura italiana.

Nel fronte opposto, Mariolina Castellone del Movimento 5 Stelle ha messo in evidenza le contraddizioni interne alla maggioranza, osservando come Trump incarni posizioni vicine a quelle della coalizione al governo. Il presidente del M5S Conte parla di “una vittoria netta, estesa anche al voto popolare” e tra le sfide del neo presidente cita anche “fermare le guerre in corso”. E non sono mancate le critiche dal centro-sinistra: Ivan Scalfarotto di Italia Viva ha parlato di un rifiuto del modello di “democrazia liberale” da parte dell’elettorato americano, mentre Carlo Calenda, leader di Azione, ha descritto l’elezione di Trump come un segnale che “l’Occidente vive la sua ora più buia”. Per Lia Quartapelle, Pd, saranno “quattro anni molto duri”. 

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Siamo il Paese dei veleni, Sei milioni di italiani vivono in aree inquinate

In Italia, sei milioni di persone abitano in zone classificate come gravemente inquinate, secondo un recente rapporto dell’Istituto Superiore di Sanità (Iss). Le aree, distribuite su tutto il territorio nazionale, comprendono 42 Siti di Interesse Nazionale (Sin), che coprono circa 170mila ettari di terra e 78mila ettari di mare, e 36.814 Siti di Interesse Regionale (Sir), per un totale di oltre 43mila ettari da risanare. Sono frutto di attività industriali ormai chiuse o in declino, presentano concentrazioni elevate di sostanze tossiche e cancerogene, con un’incidenza significativa di tumori, malattie respiratorie e altre patologie tra i residenti.

Sei milioni di italiani tra veleni e malattie

Per Legambiente la questione delle bonifiche è un’emergenza nazionale: nonostante i fondi stanziati, le opere di risanamento restano ferme in molti dei principali Sin, tra cui Porto Marghera, Taranto, Priolo, Augusta e Napoli Orientale. Le conseguenze si manifestano nella salute pubblica e nell’ambiente ma anche a livello sociale ed economico. In queste aree industriali si registra un incremento dei tassi di malattie gravi e di mortalità, soprattutto per tumori e problemi respiratori, legati alla presenza di contaminanti come metalli pesanti, diossine e altre sostanze tossiche. L’inquinamento, unito alla mancanza di risanamento, limita inoltre il potenziale sviluppo economico e crea spazi desertificati.

Un’analisi del costo delle mancate bonifiche suggerisce che un investimento nel risanamento delle aree SIN potrebbe generare importanti benefici economici. Secondo una stima di Confindustria, un impegno di dieci miliardi di euro nelle bonifiche genererebbe 200mila nuovi posti di lavoro, con un ritorno economico per lo Stato di circa 4,7 miliardi in entrate fiscali e contributi sociali. Il calcolo include le possibilità di impiego nell’ambito dei green jobs e della rigenerazione ecologica, settori in crescita, che nel 2023 hanno toccato i 3,1 milioni di lavoratori, pari al 13,4% degli occupati italiani, secondo il rapporto GreenItaly realizzato da Fondazione Symbola e Unioncamere.

La bonifica mancata: tra fondi e responsabilità

A livello normativo, in Italia esiste il principio “Chi inquina paga”, che obbligherebbe le aziende responsabili dell’inquinamento a finanziare le attività di bonifica. Tuttavia la sua applicazione è spesso difficile e le responsabilità, in molti casi, sono vaghe o difficili da attribuire. Le organizzazioni ambientaliste denunciano la carenza di attuazione di questo principio e chiedono che venga applicato con maggiore rigore. In una recente campagna, Acli, Agesci, Arci, Azione Cattolica Italiana, Legambiente e Libera hanno lanciato l’iniziativa “Ecogiustizia subito”, con l’obiettivo di sensibilizzare l’opinione pubblica e di stimolare l’azione politica a favore di una giustizia ambientale concreta. La campagna, che partirà il 27 novembre 2024 e toccherà alcune delle aree più colpite, mira a portare visibilità alla problematica e a chiedere impegni certi per il risanamento di queste aree.

Sul fronte delle risorse, il mancato risanamento delle aree SIN si accompagna anche a un problema di investimento per la transizione ecologica. In molte delle aree inquinate, la riconversione economica è rimasta sulla carta mentre in altre i fondi sono stati ridotti, bloccando il potenziale di sviluppo. La carenza di fondi e di iniziative coordinate tra Stato e Regioni è un fattore chiave che – secondo Legambiente – contribuisce al ritardo. Per risolvere questa situazione, gli enti locali e le associazioni ambientaliste chiedono che il governo istituisca una task force dedicata, con la finalità di accelerare il processo di bonifica e di garantire che i fondi vengano utilizzati in modo efficiente.

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“Dal governo risorse inadeguate”, allarme dell’Alleanza contro le povertà

In un Paese in cui ogni giorno la povertà morde più forte, la legge di Bilancio non contiene le risposte concrete e strutturali che la drammatica situazione imporrebbe. È questo il giudizio dell’Alleanza contro le povertà in Italia, sigla che unisce un ampio numero di soggetti sociali tra cui Acli, Arci, Caritas, Cgil e Cisl, espresso in audizione alle Commissioni riunite Bilancio dei due rami del Parlamento. 

La povertà assoluta in Italia è una realtà che ormai coinvolge stabilmente oltre 5,7 milioni di persone, il 9,7% della popolazione, come attestano i più recenti dati dell’Istat. Numeri che non conoscono sosta e che, piuttosto, disegnano un panorama di crisi sistemica, diffusa e consolidata, in cui l’8,4% delle famiglie italiane vive al di sotto di una soglia di dignità minima. A fronte di questo quadro, ci si aspettava dal governo un piano all’altezza. Ma l’Alleanza contro la povertà denuncia apertamente le gravi lacune del disegno di legge di bilancio, che – come dichiarato dal portavoce Antonio Russo – “non prevede risorse adeguate e rifiuta il principio dell’universalismo selettivo, puntando su misure che escludono ampie fasce della popolazione”.

Un Paese sempre più povero: numeri che chiedono risposte

L’assegno d’inclusione (ADI), il perno delle nuove misure, è, per l’Alleanza, una risposta insufficiente. Vincolato a categorie specifiche, infatti, è destinato esclusivamente a famiglie con minori, disabili o anziani. Così si trasforma in una misura limitata, che ignora una parte consistente dei nuovi poveri e tradisce l’impianto del Reddito di cittadinanza, che rappresentava uno strumento universalistico di protezione per chiunque si trovasse in difficoltà. A peggiorare il quadro, sottolinea l’Alleanza, è la drastica riduzione del Fondo di finanziamento dell’ADI, che ha subito prima un taglio di 200 milioni, poi ulteriori 100 milioni, segnando un divario doloroso rispetto ai bisogni reali.

“Risorse risparmiate, piuttosto che reinvestite per contrastare la povertà stessa,” denuncia Russo. L’ADI copre oggi solo poco più della metà delle famiglie che beneficiavano del Reddito di cittadinanza nel primo trimestre 2023: se prima erano 1,3 milioni, oggi sono appena 695.000 i nuclei sostenuti, un calo del 52,5% che ha ristretto drammaticamente la platea. Davanti a questi dati, l’Alleanza richiama il governo a un impegno chiaro e a investimenti concreti: circa un miliardo di euro per modifiche essenziali che renderebbero davvero incisiva la lotta alla povertà. Tra le proposte, la piena indicizzazione dell’ADI per proteggerlo dall’inflazione e una revisione della scala di equivalenza, a sostegno delle famiglie numerose, soprattutto con figli. Fondamentale è anche l’allargamento della soglia di accesso per chi vive in affitto e il diritto per i lavoratori poveri di cumulare parzialmente reddito da lavoro e sussidio, elementi che garantirebbero maggiore equità.

ADI e misure inefficaci: l’appello dell’Alleanza contro le povertà

L’alleanza denuncia come il governo preferisca puntare su provvedimenti marginali e temporanei, come la carta “Dedicata a te”, rivolta alle sole famiglie con ISEE inferiore a 15.000 euro, e destinata a non lasciare alcuna traccia durevole nella struttura di welfare del Paese. E c’è poi il bonus alla nascita, che con la promessa di un importo indipendente dalla condizione economica, appare come un incentivo a tempo, limitato ai nuclei con neonati e privo di qualsiasi impianto di stabilità. Si sceglie la carità occasionale al posto di politiche organiche: scelte che, secondo l’Alleanza, mancano di coraggio e determinazione.

“Non è con bonus saltuari che si spezza il circolo della povertà”, spiega Russo. “Invece di rafforzare l’Assegno unico e universale per chi ha figli, si preferisce introdurre nuovi incentivi, peraltro concentrati su pochi eletti. Così, mentre il divario tra ricchi e poveri si amplia, si perpetua un modello di sostegno esclusivo, che si accontenta di misure di facciata, senza costruire un sistema di sicurezza sociale davvero inclusivo”. Il rischio, avverte l’Alleanza, è che il provvedimento porti a un “minore investimento di oltre un miliardo nel 2024, che potrebbe arrivare a 3-4 miliardi nei prossimi anni.”

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Buongiorno, notte

Buongiorno, notte. Donald Trump è il quarantasettesimo presidente degli Stati Uniti. Ha appena dichiarato che aiuterà “il Paese a guarire”, ringraziando il miliardario fondatore di Tesla, Elon Musk, definendolo «una stella, un genio».
Trump ha vinto, puntando sui suoi bersagli di sempre: omosessuali, migranti, poveri (anche quelli che ha illuso con guerre tra disperati), donne e giornalisti. Ma, soprattutto, la vittoria di Trump racconta il divario tra il Paese e chi prova a descriverlo.
Trump ha trionfato grazie a coloro che per mesi hanno tentato di convincerci della lucidità e salute di Joe Biden, per poi sostituirlo di corsa, avallando narrazioni che chiamavano “complottiste.”
Trump ha vinto per chi costruisce campagne elettorali sul “meno peggio” e scivola nel peggio. Ha vinto perché per molti l’erosione dei diritti è un boccone ghiotto, una deriva reazionaria che tenta gran parte dell’elettorato conservatore.
Mentre Trump trionfava, in Arizona i “sì” vincevano al referendum per estendere il diritto all’aborto.
Trump ha vinto anche per colpa di una stampa Usa – come quella italiana – affondata nella perdita costante di credibilità. La sua vittoria rappresenta il trionfo del consumismo informativo, una gigantesca eco di complotti amplificati.
Questa vittoria trasforma gli Usa nella prima grande teocrazia occidentale, mentre per anni si sono occupati di quelle degli altri. Buongiorno, notte. La strada davanti è lunga, ed è buia.

Buon mercoledì.

 

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Trump vs Harris: una sfida culturale globale che l’America esporta al mondo

Le ultime ore della campagna elettorale americana si sono trasformate in una contesa dal palcoscenico globale. Trump e Harris non si limitano a contendersi il cuore degli elettori americani: le loro campagne parlano ormai al mondo intero, con alleanze e antagonismi che disegnano un quadro geopolitico complesso. E mentre Trump arringa le folle tra promesse di restaurazione e scenari di terrore, Harris cerca di raccogliere un consenso basato su valori di uguaglianza e inclusività. Non è solo una battaglia per il voto ma una sfida aperta tra due anime dell’Occidente.

Trump e il richiamo alla forza: un’America divisa tra paura e restaurazione

Donald Trump, nel suo ultimo tour elettorale, accentua un’immagine fosca dell’America odierna: la vede come una nazione occupata dalla “decadenza” e dalla “debolezza” imposte dai democratici. Propone rimedi duri e netti, promette di “liberare” il Paese, di punire con la morte i migranti colpevoli di crimini e di ridare agli americani una prosperità che sembra, secondo la sua visione, appannata. Al suo fianco, si schiera anche Joe Rogan, influente podcaster e voce di un’America che si riconosce nei toni populisti e crudi del tycoon. Rogan non ha esitato, alla vigilia del voto, a dare il suo endorsement a Trump, lodandone le politiche di “pace attraverso la forza” e la “determinazione” economica. Nonostante i numerosi scandali.

Harris e la visione dell’inclusività: un messaggio di speranza tra le tensioni globali

Dall’altra parte, Kamala Harris trascorre il giorno prima del voto tra Reading e Pittsburgh, in Pennsylvania, accompagnata da figure iconiche come Alexandria Ocasio-Cortez e Andra Day. In un’atmosfera vibrante, i suoi sostenitori le riservano cori, abbracci e lacrime di emozione: è la visione di un’America inclusiva, che sostiene i diritti civili e promette di lottare contro ogni forma di discriminazione. L’obiettivo della Harris è chiaro: dimostrare che l’alternativa non è solo possibile, ma necessaria per ridare una stabilità all’America che non faccia leva sulla paura o sull’odio.

Intanto, fuori dai confini nazionali, il mondo osserva e spera, o teme, a seconda dei propri interessi. Vladimir Putin, che nel 2016 aveva visto nell’elezione di Trump un’opportunità per indebolire la presenza americana in Europa, questa volta non si fa illusioni. Alla Duma non ci sono più i brindisi e nessuno a Mosca crede alle promesse di Trump, che afferma di poter fermare la guerra in Ucraina in un solo giorno. Da quando Trump è stato alla Casa Bianca, la Russia ha visto solo nuove sanzioni e una NATO rafforzata sul suo confine. Per alcuni, il sogno è che Trump possa portare a una sorta di “guerra civile americana”, uno scontro interno che indebolisca gli Stati Uniti dall’interno.

Un mondo in attesa: Trump vs Harris come sfida geopolitica globale

Israele invece non ha mai nascosto le sue preferenze. Benjamin Netanyahu, fedele alleato di Trump, sogna una vittoria del suo amico americano e, in questo, non è solo: secondo l’Israel Democracy Institute, quasi tre israeliani su quattro sperano che sia lui a vincere. La vicinanza tra Netanyahu e Trump è ormai consolidata, e Israele teme che con Harris alla Casa Bianca l’impegno statunitense in Medio Oriente possa essere più tiepido. La Cina, invece, rimane cauta e in bilico: Pechino sa che qualsiasi esito non sarà comunque favorevole. Tra le minacce di nuovi dazi e la possibilità di un’America più isolazionista, Xi Jinping non può ancora stabilire quale dei due scenari sia più conveniente per i suoi piani di espansione.

E in Europa, la posta in gioco è altissima. Ursula von der Leyen, presidente della Commissione Europea, e molti leader del continente appoggiano apertamente Harris. La linea comune è chiara: Trump rappresenta un rischio per la stabilità della NATO e per l’economia europea, già provata dalla crisi energetica e dall’inflazione. Il protezionismo economico che il repubblicano ha già minacciato rischierebbe di dimezzare la crescita del Vecchio Continente. Ma l’Europa, stavolta, è meno compatta: il premier ungherese Viktor Orbán, alla guida dell’UE fino alla fine dell’anno, e Giorgia Meloni fanno il tifo per Trump. 

Le ultime ore della campagna elettorale americana si chiudono così. Da un lato, l’uomo che parla alla pancia di un’America divisa, promettendo la vendetta contro un sistema che egli definisce corrotto; dall’altro, una donna che cerca di convincere che l’unione, anche se faticosa, è ancora possibile. Un’elezione che, questa volta più che mai, non riguarda solo gli Stati Uniti ma i destini intrecciati di un pianeta intero.

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