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Giulio Cavalli

A proposito degli scemi che si permettono di voler votare

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I giorni dell’isteria: l’ultima folata di sciocchezze è questa tiritera di un “eccesso di democrazia” che andrebbe controllato come se non bastassero tutti questi ultimi anni. Così mentre in molti ci propongono di dare il diritto di voto solo a quelli che votano come dicono loro (Monti, Gori e altri geni dell’ultima ora) in pochi pensano allo stato di salute delle due armi per sconfiggere l’ignoranza: la scuola e l’informazione. E a proposito di informazione forse vale la pena leggere Mantellini nel suo blog:

«In ogni caso l’aspetto più interessante è quello dell’informazione; sfuggito ormai da tempo ad ogni controllo economico del mercato, il ruolo dei media come elemento portante della corretta informazione (ridete ridete) è perfino più compromesso di quello della politica che parla parla ma che al posto di costruire biblioteche asfalta l’astaltabile, sogna il ponte sullo stretto o si applica alle prossime Olimpiadi di Roma. Detto diversamente: dove esiste un’informazione corretta i media giocano un ruolo fondamentale nella riduzione dell’analfabetismo funzionale. Dove invece gli stessi soggetti scendono direttamente in campo al di là di ogni deontologia, giornali radio e TV, pubblici o privati che siano, si trasformano in soggetti attivi nel mantenimento dell’incompetenza degli elettori. Questo accade dentro una eterogenesi dei fini fra il modello economico dei media (che hanno un padrone al quale rispondere) ed il loro ruolo presunto ma del tutto scomparso di sostegno alle democrazie in quanto garanti dei lettori.

Vogliamo elettori in grado di superare un ipotetico esame di cittadinanza che gli consenta di votare? L’unica strada possibile è quella di investire denaro per una vera politica culturale (Rai compresa) e forse – contro ogni tendenza – per immaginare nuove ipotesi di finanziamento pubblico all’editoria privata. Soldi tardivi, come certe vendemmie, denari dei cittadini in premio a chi abbia avuto il coraggio di informare con coscienza i propri lettori, fuori dall’immensa marea di fango che è il business dei media oggi, specie in Italia. Un’arena in peggioramento, che ormai non risparmia più quasi nessuno. Tutta gente che per una ragione o per l’altra ha un qualche interesse a mantenere i cittadini -perfino nei tempi della società digitale – ignoranti esattamente come prima. Ce lo ha detto Tullio de Mauro, ok, era vero, l’analfabetismo funzionale è un problema enorme. Ora magari proviamo a fare qualcosa. Che la patente per poter votare è certamente una cazzata, ma anche gli elettori che non sanno un accidente e che danno retta al Salvini di turno sono una faccenda mica da ridere.»

Brexit, nell’UE l’inglese resta la lingua ufficiale e gli inglesi se ne vanno

Pensa te, la lingua ufficiale in Europa (insieme a francese e tedesco) s’è persa per strada i suoi abitanti. L’inglese come lingua universale, ci dicevano, perché già ampiamente diffusa e perché era per noi la lingua delle multiculturalità, da tenere in tasca negli incontri multietnici che capitano nella vita, la lingua da imparare a scuola perché chiave universale di lettura e intelligenza. Per i nati negli anni ’70 e ’80 l’inglese (in senso largo) era il contenitore delle differenze e delle aperture. Prima del mito americano, insomma, erano loro la “terra promessa” della fantasia. Oggi l’Europa parla inglese mentre gli inglesi invece se ne vanno (i britannici, almeno, non ce ne vogliano gli irlandesi).

La questione non è linguistica e culturale ma è soprattutto politica: questa Europa ha riservato al Regno Unito un’attenzione particolare, una tensione all’accomodamento che ha permesso a Cameron e i suoi di stare nell’Europa con un piede dentro e uno fuori. Erano sì in Europa ma senza euro, piuttosto stretti alla loro sterlina, partner commerciali ma senza Schengen e con una narrazione tossica dell’Europa per la propaganda interna: la Gran Bretagna ha giocato sull’Europa una partita egoista e ora ne paga le conseguenze. “Populismo” dicono come al solito i commentatori dalle posizioni indefesse sprecando tempo per convincerci, al solito, che in un referendum ci sia una scelta giusta e una sbagliata mentre gli elettori sono banalmente una carta delle probabilità da tenerne conto fino al prossimo giro; ma non è populista il demagogo che cerca di rendere potabile la priorità del mercato sulle persone? Non è populista chi ha iniettato la finanza nella politica fino a renderla mera rappresentazione di una gestione di bilancio travestita da amministrazione di popoli? Non è populista chi usa referendum su temi così spessi e complessi per rinforzare il proprio peso all’interno di un governo o del proprio partito (come Cameron e come sta facendo Renzi, del resto)? Non è populista chi ha affidato alla statica burocrazia la ricerca di soluzioni per un mondo che sta cambiando così velocemente in un’orribile discesa di diritti, di salari, di benessere e di partecipazione alla vita pubblica?

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Grillo cambia rotta su #Brexit ma non l’ha deciso nessuno.

Con calma. Andate qui e leggete il punto 10:

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Ora basta affidarsi alla calce di google (qui) per leggere com’era:

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Ora una domanda semplice: ma chi ha deciso questa inversione di direzione politica (come testimoniano le foto qui nel post)? In rete? Il direttorio? Il gruppo parlamentare europeo?

Un governo (italiano) cameriere delle banche

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Io se fossi in voi, questa mattina, mi prenderei del tempo per ascoltare anche distrattamente la discussione alla Camera del decreto-legge 3 maggio 2016, n. 59, recante disposizioni urgenti in materia di procedure esecutive e concorsuali, nonché a favore degli investitori in banche in liquidazione. Il decreto, a detta del governo, dovrebbe servire a tutelare gli investitori che in questi anni (e in questo ultimo anno) hanno visto evaporare i risparmi di una vita grazie ai consigli di qualche funzionario compiacente che, in nome della banca per cui lavora, ha pensato bene di rifilare spazzatura travestita da investimenti.

Peccato che gli investitori siano cittadini in tutte le loro forme più fragili: pensionati, vedovi, ingenui, custodi dei guadagni di una vita, piccoli imprenditori previdenti, artigiani lungimiranti. Formiche. Formiche in un’epoca di cicaleccio. Aspiranti lungimiranti in un mondo invece di troppi furbi, troppo furbi. Le vittime delle banche, insomma, non sono strani tipi da decreto o editoriale ma siamo noi. Colpiti. Più o meno lontano. Più o meno direttamente.

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La riforma costituzionale? Insensata. Parla la costituzionalista Fernanda Contri.

Fernanda Contri (Ivrea, 21 agosto 1935) è giurista, magistrato e costituzionalista. È stata membro del Consiglio Superiore della Magistratura di nomina parlamentare, Ministro per gli affari sociali nel governo Ciampi e giudice della Corte costituzionale della Repubblica italiana su nomina del Presidente Oscar Luigi Scalfaro. Fu amica di Giovanni Falcone, che conobbe durante un convegno nel 1983. Nel 2013 si fece il suo nome per il rinnovo della Presidenza della Repubblica. Fernanda Contri, come ci sottolinea con passione e orgoglio, è vedova dell’avv. Giorgio Bruzzone, Partigiano nella 107 Brigata Garibaldi.

«Ai tempi della Costituente, nello scenario di un Paese devastato dalla guerra, si lavorò per consegnare agli italiani la Costituzione anche con accesi dibattiti, ma in modo unitario. Il governo si guardò bene dall’interferire, e si raggiunse un compromesso di altissimo livello con l’accordo della stragrande maggioranza dei Costituenti, eletti col metodo proporzionale. Oggi, nello scenario di un Paese devastato dalla crisi, si modifica la Costituzione in più di 45 articoli su proposta del Governo che di tale riforma fa la sua bandiera, in un clima di scontro pesantissimo fra maggioranza e opposizioni, in un Parlamento eletto in base a una legge dichiarata incostituzionale dalla Consulta. Come spiega queste radicali differenze di metodo e di stile?

Credo che alle radici della differenza, così evidente, ci sia la storia, la sofferenza, la sensibilità, il senso civico dei costituenti del 1946. Essi avevano sofferto la dittatura, la mancanza della libertà e soprusi di ogni genere.

Con la Resistenza gli italiani avevano finalmente smesso l’abito del suddito e, anche attraverso la scelta repubblicana, avevano riconquistato la piena libertà di cittadini. I Costituenti hanno scritto regole valide per tutti, proprio per tutti, all’insegna di un principio: “Perché non succeda mai più”. Le hanno ideate e approvate 70 anni fa anche per noi che viviamo in pace nel 2000 e per i nostri figli e per i figli dei figli e per i loro nipoti. Perché le massime regole, tutte, sono state pensate per evitare in via definitiva che la dittatura si riproponesse, che il fascismo si ripresentasse.

Una delle preoccupazioni dominanti nei Costituenti fu quella di varare una Costituzione che fosse una barriera contro il ritorno del fascismo sotto qualsiasi forma e contro il pericolo di una nuova guerra. Alcuni sostengono che è opportuno modificare la Costituzione anche perché tali rischi sarebbero tramontati.

Purtroppo il rischio non è per niente tramontato; basta pensare a quel che succede in Austria, in Francia, negli Stati Uniti e a tanti orribili segni di razzismo così presenti nel nostro Paese, per non parlare della dilagante paura che si trasforma in aggressione.

Non dobbiamo dimenticare che su 550 Costituenti solo una sessantina furono di diverso avviso. Le riforme, sopra tutto le più importanti e radicali, devono essere condivise e votate dal maggior numero possibile degli aventi diritto. Mi viene da ricordare il non felice esito delle modifiche apportate al titolo V nel 2001 approvate con esile maggioranza: gli errori non dovrebbero essere ripetuti. Nella Costituente è sempre prevalsa la continua ricerca del maggior consenso possibile; nessuna norma è stata scritta per favorire in futuro un raggruppamento politico piuttosto che un altro; mai il Governo dell’epoca ha fatto pesare la sua “forza”.

Non si dimentichi che i membri della Costituente sono stati investiti di un preciso compito attraverso elezioni finalmente democratiche, mentre le proposte di modifica vengono da un parlamento eletto in base ad una legge incostituzionale, rimasto in vita solo per il principio della necessaria continuità.

La riforma costituzionale, abbinata alla nuova legge elettorale – l’Italicum – consegna al partito più votato (per ipotesi, dopo il primo turno in cui nessuno raggiunge il 40%, vince un partito al 29%) il 54% dei parlamentari della Camera, conferendo di fatto a tale partito e al suo leader un potere smisurato alla luce della riduzione dei poteri del Senato e del numero dei suoi membri. Sembra che non siano stati studiati gli opportuni contrappesi e sia stata sottovalutata la questione della divisione dei poteri.

Direi di più. Essendo ritenuti fastidiosi gli opportuni contrappesi (studiati a quel nobile scopo) e con disprezzo della tripartizione dei poteri, si vuole facilitare l’accesso al comando con buona pace del popolo sempre meno sovrano! Mi trovo d’accordo con chi si esprime in favore di una piena garanzia, piuttosto che di una pretesa efficienza.

Elezioni-in-Albania-l-incognita-dell-astensionismoAssistiamo da tempo – in particolare dall’inizio degli anni 90 – ad un apparentemente inarrestabile aumento della disaffezione al voto, che indica un profondo scollamento fra elettori ed eletti. Secondo lei la riforma consentirà presumibilmente un’inversione di tendenza o c’è il rischio addirittura di un aumento dell’area dell’astensione?

L’inarrestabile aumento della disaffezione non verrà certamente fermato dalla riforma appena votata, né dalle proposte modalità di consultazione, che potrebbero allontanare ancora altri elettori. Un’inversione di tendenza potrebbe derivare dall’impegno di tutti – e sopra tutto dall’impegno di chi ha responsabilità – all’osservanza scrupolosa di un articolo della nostra Costituzione: l’art 54 tanto vistosamente e ripetutamente dimenticato e violato (ndr: art. 54: “Tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi. I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge”).

Ho sempre pensato che la Carta scritta col sangue dei Partigiani dovesse essere prima di tutto attuata nell’interesse di tutti gli italiani. Non dimentico mai che la Costituzione voluta dal popolo italiano non è l’ombra di un passato, né un rifugio nostalgico: è il nostro patto sociale nato nel confronto più ampio, il disegno futuro della nostra società liberata dal fascismo, da custodire libera. Come sovente ha ricordato il Presidente Ciampi, la Costituzione non è una legge come tante, ma essendo identificazione di storie e memorie sacre, è il nostro breviario laico. Da considerare con il massimo rispetto e da non asservire a scopi di parte.»

Tutta colpa di Orfini

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Fantastico. Alla fine dicono la Madia e Giachetti che a Roma la sonora sconfitta del PD abbia un nome e cognome: Matteo Orfini. Sarebbe il già vecchio giovane turco l’uomo che ha portato i democratici nella palude e, dice la Madia, che con lui si sono perse le periferie, si sono persi voti e si è pagato lo scotto per Mafia Capitale.

Da quando la politica ha preso i tempi del turborenzismo, tutta presa dall’ansia del cambiamento e dall’ossessione della narrazione veloce, anche la memoria sembra essersi corrotta in mezzo alla fretta: la rimozione di Ignazio Marino, voluta e ordinata da Matteo Renzi (come lo stesso ex sindaco ha raccontato),  è stata l’inizio di un declino che non sarebbe stato difficile immaginare concludersi con un fallimento simile.

Credere che i cittadini romani possano ritenere affidabile un partito che rimuove il proprio sindaco, tra l’altro con un vigliacchetto appuntamento da un notaio senza passare dal Consiglio Comunale, significa avere perso non solo la connessione con i propri elettori ma addirittura con il buon senso.

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Gli italiani che derubano sui rom

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Ogni tanto la cronaca regala drammaturgie finissime, inaspettate come saprebbe fare solo la penna di un creativo potente: a Roma, dopo una campagna elettorale (fiacchetta) di salvinate contro i rom succede ancora una volta che un’indagine della magistratura racconti quanta gente continui a lucrare sui campi rom. Illegalmente. Rubano sui campi rom e sono italiani, italianissimi. Romani al midollo.

I problemi in Italia sono problematici solo per quelli che non ci guadagnano: i rom, i rifugiati, gli ammalati, gli anziani, i disabili, i disoccupati, i senza casa e molti altri fragili ancora sono una miniera d’oro per chi ha lo stomaco di non intenerirsi. E oltre a essere un’ottima palude per un funzionale sistema correttivo si può anche fingere di intenerirsi o odiarli secondo le bisogna. Cosa c’è di meglio di un nemico da abbattere disponibile a diventare un’emergenza stabile?

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A Roma chiudere l’ufficio rom, intanto.

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A proposito degli arresti di oggi a Roma vale la pena leggere l’intervento di Claudio Stasolla, presidente dell’Associazione 21 luglio:

«La prima volta che ho incontrato Virginia Raggi è stato in una giornata di fine estate del 2013 quando, come consigliera comunale, mi chiese di organizzare una visita presso alcune baraccopoli della Capitale. Da alcuni giorni donne e bambini rom vagavano lungo le strade di Tor Sapienza dopo il primo sgombero organizzato dalla Giunta Marino, che aveva messo per strada 35 famiglie in precedenza scappate da Castel Romano. Andammo da loro e per strada, sotto un telone di nylon, ascoltammo le loro storie di persone alle quali le ruspe comunali, oltre alla abitazioni, avevano abbattuto i diritti fondamentali. Virginia pianse.

Poi, sulla strada del ritorno, passammo a visitare una famiglia nella baraccopoli di Salone. Ad accoglierci fu Maria che ci parlò dei suoi quattro figli, del marito incensurato che non ce la faceva più a raccogliere ferro, della dermatite dovuta all’ansia che le aveva macchiato il volto e le braccia. Fu una visita breve ma intensa. Al ritorno in macchina le solite frasi di rito, dettate dalla rabbia e dalla frustrazione: «Questi campi non devono più esistere. Dobbiamo fare qualcosa!»

Oggi Virginia Raggi – che da quel giorno ho incontrato più volte nel tentativo di trovare insieme risposte al superamento delle baraccopoli – è diventata sindaco e quel «Dobbiamo fare qualcosa!» assume un valore diverso perché entra nella sfera della possibilità concreta. Ma per farlo occorre seguire un ordine di priorità chiaro e definito anche se, dopo gli arresti delle ultime ore, una cosa è urgente realizzare: chiudere l’Ufficio Rom del Comune di Roma, da vent’anni chiamato a gestire la vita all’interno dei cosiddetti “campi nomadi” della Capitale.

Non sarà una cosa facile! Si tratta di rimuovere dirigenti, funzionari delle forze dell’ordine, assistenti sociali, sedicenti “rappresentanti rom” direttamente o indirettamente collusi con un sistema dove scorrono mazzette, dove si parla il linguaggio del sopruso, dove la corruzione è sempre presente dietro l’angolo. Lo denunciamo senza mezzi termini da anni: c’è una massa cancerogena all’interno dell’amministrazione capitolina, che va estirpata alla radice perché con la sua presenza sarebbe garantito il fallimento di ogni intervento di discontinuità. La prima volta che lanciai questa raccomandazione fu nel corso di un convegno in Campidoglio, alla presenza dell’assessore di turno. Seguì un lungo brusio che tagliava un’aria pesante. Due mesi dopo la Guardia di finanza perquisì gli uffici dell’assessorato ed eseguì un arresto.

Quando scrivo di “massa cancerogena” mi riferisco a persone in carne ed ossa che da Veltroni ad oggi, passando per Alemanno, Marino e due commissari straordinari, sono sempre rimasti al loro posto, tra sgomberi, trasferimenti forzati, aperture e chiusure di nuove baraccopoli, incontri istituzionali, convegni,… Le stesse che in questi anni, la mattina operano sgomberi forzati a braccetto con i “capi rom” consenzienti, all’ora di pranzo li ritrovi dietro una scrivania degli uffici comunali, alla sera li incontri in un aperitivo a conversare con rappresentanti istituzionali o di organizzazioni che operano nel sociale. Tutto intorno a loro è cambiato ma loro sono sempre rimasti al loro posto, come pedine di una partita dove chi vince sono i furbi e i perdenti sono i cittadini rimasti indietro. Perché anche a questo servono i “campi rom” della Capitale: ad acquisire potere e ad accumulare fortune. E da questi Virginia Raggi dovrà ripartire da subito per dare un segnale di legalità e di rispetto dei diritti perché è davvero giunto il momento nel quale «Dobbiamo fare qualcosa!».

Quelli che a sinistra si attaccano alle braghe di De Magistris

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A urne chiuse, tra vincitori e vinti, rimbomba la caduta di una sinistra che ormai sembra sprofondare nell’endogamia politica e culturale. Mentre il PD perde voti, in un momento che sarebbe stato ghiottissimo per riproporre quegli stessi temi che Renzi ha definitivamente abbandonato (e che il PD sembra incapace di sostenere dopo la sua mutazione genetica), la sinistra riesce non solo a non guadagnarne ma, dati alla mano, nemmeno a mantenerli. Banalmente: la sinistra non vota più il PD ma non vota nemmeno questa sinistra. Pensa te.

I deludenti risultati di Fassina a Roma, Giraudo a Torino e Basilio Rizzo a Milano hanno aperto una crisi interna (Sinistra Italiana è in pieno subbuglio ma anche gli altri non stanno meglio) che ripropone per l’ennesima volta il tema di una credibilità che si fatica a ricostruire. La sinistra (anzi sarebbe meglio dire le sinistre) ha perso la connessione con il suo popolo ma in questo momento sembra immobilizzata dalla miopia delle sue letture della realtà.
Come ripartire? La moda delle ultime ore porta al nome di Luigi De Magistris. Dovrebbe essere lui, secondo i calcoli dei dirigenti a sinistra, l’uomo nuovo su cui puntare e fa niente se fino a qualche settimana fa lo stesso De Magistris è stato trattato come disturbante “elemento esterno” della sinistra nazionale: nel disastro c’è sempre bisogno di una salvatore, evidentemente. Anche a sinistra.

(continua qui)

Mi chiamo Erdogan e sparo ai bambini. Pagato dall’Europa.

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L’Europa piange lacrime di polistirolo per celebrare la Giornata Mondiale del Rifugiato che, visto il quadro generale, sembra uno scherzo mal riuscito. Invece no. Ieri tutti i burocrati hanno finto almeno per un minuto di essere tutti contriti per poi lasciarsi andare all’ammazzacaffè. La Giornata Mondiale del Rifugiato è un po’ come il progetto di un distributore automatico di diritti: buono per farci sopra narrazione da campagna elettorale ma poi alla fin fine semplicemente una perversione da calendario.

Intanto, ventiquattro ore prima, le guardie turche (i militari servetti di una nazione indegna di essere considerata democratica eppur profumatamente pagata dall’Europa per “risolvere” il problema dei rifugiati) hanno pensato di schiacciare il grilletto per disinfettare il confine: sarebbero otto morti di cui quattro bambini. Un presepe di cadaveri. Una cosa così.

Le fonti ufficiali turche (che valgono più o meno come le dicerie da bar) dicono e non dicono, confermano ma non troppo e infine cercano di raccontare la difficoltà di “vigilare i confini”.

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