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Giulio Cavalli

I #ciaone non finiscono: fanno giri immensi e poi ritornano

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Dice Rondolino che il Pd ha vinto. Dice il senatore Esposito da Torino che per il Pd non è andata così male come qualcuno vorrebbe far credere. Peccato che quel “qualcuno” siano gli elettori. Ma vabbè. Dicono in molti che non è un voto politico sul governo Renzi. Certo che no: è contro il governo Renzi. E il dispiacere (da italiano) più grosso è che in fondo i renzini e i renziani siano riusciti ad esibire così tanta arroganza che alla fine diventa difficile discernere il risentimento dalla politica. Comunque:

A Milano Beppe Sala vince male. Certo una vittoria è una vittoria ma quello che doveva essere un calcio di rigore si è trasformato in un successo strappato con fatica ai supplementari. E non so se davvero ci sia molto da festeggiare tenendo conto del fatto che Beppe Sala fosse appoggiato da Pisapia (piuttosto sbiadito), Renzi (ultimamente con un po’ di titubanza) mentre dall’altra parte Parisi dovesse sopportare di avere sullo sfondo le macerie del centrodestra e la faccia di Salvini (e la Gelmini e La Russa per citarne un paio).

A Napoli vince De Magistris contro tutti. Ancora. 
Mentre ci dicevano che non sarebbe mai stato in grado di governare in realtà si è fatto rieleggere dopo 5 anni da sindaco. A Napoli. E chissà se Renzi non si sia reso conto che anche qui le sue parole contro il sindaco sono state un ottimo volano.

A Roma vince la Raggi. Ma anche qui straperde il PD. Giachetti (con faccia sollevatissima) ha promesso opposizione dura in consiglio comunale.
 Lui, da vicepresidente della Camera. Fantastico. Ah, tra le altre cose non solo non c’è stata rimonta ma il risultato è peggio delle peggiori previsioni. Pagherei per avere la drammaturgia dei pensieri notturni di Ignazio Marino.

Torino, beh, Torino […]

(il mio buongiorno per Left continua qui)

Ora è sentenza: la ‘ndrangheta esiste

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Ne scrive Attilio Bolzoni per Repubblica:

La mafia non ci sarà ad Ostia – come assicurano i giudici della Corte di Appello di Roma – però, in Calabria, sicuramente la ‘ndrangheta c’è. Detta così potrebbe sembrare anche una banalità, ma per la prima volta — ieri — la Cassazione ha messo il suo bollo sull’esistenza in vita di questa associazione criminale segreta. Una sentenza di ultimo grado attesta che la ‘ndrangheta non è un’invenzione letteraria o giornalistica, è una mafia con i suoi capi e le sue regole, è una mafia pericolosissima che per lungo tempo ha considerato la Calabria il cortile di casa propria.

Se lo ricorderanno i boss di Reggio, e quelli della Piana di Gioia Tauro e gli altri dell’Aspromonte, il 17 giugno del 2016 — un venerdì 17, sarà un caso? — data indimenticabile per la giustizia italiana e anche per loro, i capi di una consorteria di assassini che per decenni è rimasta al riparo, lontana dai riflettori, nascosta, impenetrabile.

La ‘ndrangheta c’è, è una e una sola («Ha una struttura unitaria»), ha un governo («È un vertice collegiale chiamato “la Provincia”») composto da rappresentanti delle «locali» («Le organizzazioni che comandano sul territorio ») di Reggio Calabria, della costa tirrenica e di quella jonica e che ha potere in tutti i luoghi — il mondo intero — dove si è diffusa e radicata. Questa sentenza della Suprema Corte ha un valore che non è eccessivo definire storico. Come quello della Cassazione del 30 gennaio del 1992 sul maxi processo istruito da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, fino ad allora c’era una mafia dominante ma per la legge sempre presunta. Così oggi, come un quarto di secolo fa per Cosa Nostra, nel marmo della giurisprudenza viene scolpito il nome ‘ndrangheta.

È il gran finale di una battaglia portata avanti dallo Stato dopo anni di colpevole «dimenticanza» dell’aristocrazia criminale calabrese, un’associazione ritenuta a torto «minore» e che in virtù della scarsa considerazione che godeva negli apparati investigativi-giudiziari — ma anche perché aveva strategicamente scelto di non fare la guerra alle Istituzioni come la Cosa Nostra di Totò Riina in Sicilia — nel cono d’ombra è riuscita a conquistarsi spazio e ricchezza. E, stagione dopo stagione, fama di mafia più ricca e potente d’Europa con ambasciatori e alleati dall’Australia al Venezuela, dal Messico al Portogallo. Naturalmente con una capacità enorme di infiltrazione anche in Italia, soprattutto a Roma, a Milano, in Emilia, in Piemonte.

Una scalata silenziosa fino all’assassinio a Locri nell’ottobre del 2005 del vicepresidente del consiglio regionale Francesco Fortugno e fino alla strage di Duisburg dell’agosto del 2007, sei ragazzi di San Luca uccisi fuori da un ristorante sulle rive del Reno. Da quel momento anche la ‘ndrangheta è diventata un’«emergenza nazionale». Sono cominciate le indagini vere dopo gli anni del «dialogo» e della non belligeranza con le cosche, del quieto vivere. A Reggio è arrivata una squadra di primissima scelta di investigatori dell’Arma dei carabinieri, della polizia e della finanza con il nuovo procuratore Giuseppe Pignatone e il suo vice Michele Prestipino (a loro si sono affiancati nei vari gradi di giudizio i pubblici ministeri Giovanni Musarò e Antonio De Bernardo) che hanno portato in Calabria un «metodo» — collaudato nelle «campagne» di Palermo — che ha rivoluzionato le indagini. Così è nata nel 2008 l’inchiesta «Crimine» fra le procure distrettuali di Reggio Calabria e di Milano e così si è messa la parola fine, con la sentenza della Cassazione di ieri pomeriggio, alle incertezze più o meno interessate sull’esistenza di una ‘ndrangheta come mafia dotata di una sua classe dirigente e con un’ossatura capillare non solo nelle terre di origine ma con presenze significative anche in tutti e cinque i Continenti.

È appena sei anni fa — il 30 marzo del 2010 — che il legislatore ha aggiunto a «Cosa Nostra» e a «Camorra», la parola «’Ndrangheta» fra le pieghe dell’articolo 416 bis, l’associazione di tipo mafioso. È nel 2008 che sono partite le prime indagini che hanno scoperto la realtà di una mafia calabrese, non un insieme di bande slegate una dall’altra ma un’organizzazione unica. È nel luglio del 2010 che sono stati firmati 121 provvedimenti di custodia cautelare contro altrettanti personaggi. I capi di Rosarno e di Gioia Tauro, di Palmi, di Locri, di Platì, di Africo. In primo grado, l’8 marzo del 2012, ne sono stati condannati una novantina e, soprattutto, ha retto l’impianto accusatorio sull’«unitarietà » dell’organizzazione. In secondo grado, il 27 febbraio del 2014, condanne quasi

tutte confermate e tesi dei pm che hanno tenuto al vaglio dei giudici d’Appello. Adesso la Cassazione ha scritto l’ultimo capitolo su una mafia considerata in passato di serie B. E che invece, dopo le stragi siciliane del 1992, ha salvato con le sue trame il sistema criminale italiano.

Referendum: la Rai dedica 7 ore al Sì e 1 minuto al No. Non è uno scherzo.

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Ne ha scritto Marco Palombi:

Sette ore contro un minuto e 19 secondi contando tutti i programmi gestiti dai telegiornali Rai (Tg1, Tg2, Tg3 e Rainews) nei 47 giorni che corrono dal 20 aprile al 6 giugno scorso. Le sette ore sono quelle in cui Matteo Renziha parlato del referendum costituzionale di ottobre o è stata riportata la sua posizione sul tema, mentre il minuto e 19 secondi è il tempo che la tv pubblica ha dedicato per lo stesso motivo ad Alessandro Pace, uno dei più importanti costituzionalisti italiani e presidente del Comitato per il No.

Questi due dati sono contenuti nelle tabelle (grezze) su cui l’Autorità per le comunicazioni (Agcom) effettua poi le sue rilevazioni e danno l’idea dell’aria che tira nella tv di Stato rispetto alla “madre di tutte le sfide”, come la chiama il premier, ovvero il voto che tra qualche mese gli italianisaranno chiamati a dare sulla riforma Boschi. I dati, come detto, sono grezzi: riguardano solo il minutaggio riferito al referendum costituzionale. In gergo viene rilevato il “tempo di parola” (quello in cui il soggetto parla) e il “tempo di notizia” (quello in cui si parla di ciò che ha detto o fatto il soggetto): la somma dei due è il cosiddetto “tempo di antenna”, quello che Renzi ha avuto per 7 ore e Pace per 79 secondi.

Martedì le opposizioni avevano chiesto un’audizione del direttore generale Rai, Alessandro Campo Dall’Orto, per chiedergli conto dell’occupazione di governo e sostenitori del Sì delle reti Rai (con annesso bavaglio al No); ieri le tabelle dell’Agcom – che Il Fatto ha potuto visionare – hanno dimostrato che non si trattava di un vaneggiamento. Ovviamente, i dati sono grezzi: il tempo di notizia, in particolare, andrebbe analizzato secondo criteri oggettivi, ma la “preferenza” accordata al Sì è patente. Restando al tempo di antenna, oltre alle 7 ore di Renzi, va segnalata l’ora e 25 minuti appannaggio di Maria Elena Boschi e i 36 minuti di Giorgio Napolitano.

Il costituzionalista Pace, come detto, ha avuto un minuto e 19 secondi, mentre il capofila del fronte del No (finché non cambia idea) è Silvio Berlusconi con 55 minuti di presenza in Rai, più del doppio dei venti minuti di Luigi Di Maio del direttorio 5 Stelle, a sua volta imparagonabilmente più seguito dell’ex vicepresidente della Consulta Valerio Onida.

Più affidabili, quanto a significato politico ed editoriale, sono i dati del “tempo di parola”, cioè quanto effettivamente i vari protagonisti hanno parlato del referendum. La classifica per il periodo 20 aprile-6 giugno è questa: primo Renzi con 1 ora e 40 minuti; segue Boschi con 33 minuti; poi Berlusconi con 27 minuti, Napolitano con 19 e Gianni Cuperlo(minoranza Pd, schierato per il Sì) con 16 minuti, Di Maio con 13, Brunetta con 10. Il primo “tecnico”, per così dire, è Onida (7 minuti e 50 secondi). Carlo Smuraglia, partigiano e presidente dell’Anpi, più volte insolentito dalla ministra Boschi, ha avuto tre minuti e mezzo per replicare.

Il conteggio supera di parecchio i cento nomi e sigle, fino alle minuzie tipo i 18 secondi a testa strappati dai renziani Alessia Rotta e Ernesto Carbone o i 13 della grillina Carla Ruocco. Le tabelle dell’Agcom, però, forniscono pure l’interessante dato percentuale del “tempo di parola” nei programmi giornalistici della Rai. Qui il dominio del governo e dei sostenitori del Sì si fa più evidente del puro minutaggio: il solo presidente del Consiglio, infatti, ha accumulato il 26,3% di tutte le dichiarazioni in merito al referendum costituzionale nei 47 giorni presi in considerazione.

Tradotto: per oltre un minuto ogni quattro, se qualcuno stava parlando di referendum in Rai, si chiamava era Matteo Renzi. Buona seconda Maria Elena Boschi, che ha collezionato il 9% del tempo di parola nella tv di Stato. La trimurti delle riforme si completa con Giorgio Napolitano, quarto classificato, col 5% del microfono di viale Mazzini: i tre assieme fanno oltre il 40% del “tempo di parola” in Rai sulle riforme. Se si tiene conto di tutti i personaggi apertamente schierati per il Sì si arriva ail 54% del totale, a cui va aggiunto un 10% circa dedicato alle cariche istituzionali (Boldrini e Grasso) e alla sinistra Pd (schierata per il Sì, ma tiepidamente).

Il conto del No – in cui domina Forza Italia (Berlusconi ha il 7,3% del tempo di parola, Brunetta il 2,8%) – arriva al 33% contando però tutta una serie di mini-dichiarazioni di pochi secondi. I “professori” del No, cioè quelli che stanno raccogliendo le firme per chiedere il referendum, in questo calderone sono praticamente annullati: tutti insieme non arrivano al quarto d’ora. Se non è un bavaglio, gli somiglia.

(fonte)

Brucia la Sicilia

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Carmelo Di Gesaro scrive un appello senza mezze misure:

«Il fuoco e le fiamme di queste ore sono un chiaro attacco allo Stato. Non ci sono i mezzi e gli uomini per gestire situazioni di pericolo così ampie e vaste, “organizzate”, “accaduti”, con uno stile terroristico, più o meno come gli attentati di Parigi e con danni al patrimonio, come accadeva ai tempi dei “Corleonesi” (Roma e Firenze), praticamente un evento terroristico-mafioso atto a destabilizzare la nostra Regione e non solo.

Accertare le responsabilità è chiaramente il primo atto da compiere. Aiutare i territori compiuti il primo ad ex aequo.

Appare fin troppo evidente il “piano organizzato” per colpire le istituzioni, terrorizzare i siciliani,  immobilizzare l’economia e la vita di centinaia di famiglie oltre che le risorse di ognuna di loro.

Ci hanno attaccato, ferito e abbiamo il dovere di reagire, di solidarizzare e di sostenere. Roma metta immediatamente dei fondi per aiutare famiglie e le aziende che da subito devono rimettersi in piedi. La Regione Siciliana si premuri a trovare strumenti per potenziare le risorse a disposizione per la tutela del territorio. La Protezione Civile attivi dei protocolli di emergenza per ricostruire quanto è andato perso. Si militarizzino i nostri boschi e le nostre riserve. Non possiamo dormire sapendo di  aver già perso mezzo polmone di Sicilia e rischiando che ci colpiscano ancora.»

(continua qui)

Jo Cox. Quando muoiono i buoni.

C’è qualcosa che fa paura nell’omicidio della giovane deputata laburista Joe Cox, ammazzata per strada per la Gran Bretagna in questi caldi giorni di discussione sul referendum in cui gli inglesi si esprimeranno su una loro eventuale uscita dall’Unione Europea ed è un particolare che merita attenzione perché sembra essere il campanello d’allarme di un’esasperazione che esce dai confini inglesi e suona in tutta l’Europa: qui si uccidono i buoni. In quanto buoni.

Jo Cox non è un nome abbastanza altisonante per poter ipotizzare l’azione di un mitomane in cerca di fama; non è però nemmeno appartenente alla schiera dei fragili seminascosti che troppe volte subiscono violenza perché hanno troppa poca voce per chiedere aiuto, essendo la Cox una parlamentare; non ricopriva comunque una carica fondamentale nei gangli amministrativi né aveva il potere di poter condizionare pesantemente il referendum; uccidere Joe Cox non ha un particolare interesse (deviato) per la strategia militare essendo stata uccisa mentre passeggiava sola, sul marciapiede, nel suo quartiere. Jo Cox è stata uccisa perché buona.

Che poi nella parola “buona” di questi tempi c’è uno spettro di significati che ne ha svuotato completamente il senso: della Cox sappiamo che (come molti altri) riteneva la politica lo strumento per costruire un cambiamento. C’è un filo rosso nella sua esperienza professionale che da Oxfam a Save The Children arrivando fino al parlamento è stata dedicata ai diritti. Nel delirio di un nazionalismo esasperato dalla paura e dalla crisi la Cox, del resto, aveva voluto porre l’attenzione anche sulla netta chiusura della Gran Bretagna rispetto all’accoglienza dei rifugiati siriani e continuava a spendersi.

(continua qui)

Colpire un cretino per educarne cento

Lui è uno di quesi senatori che possono sperare al massimo di non farsi notare. Ce ne sono, a Roma, di parlamentari, che si insabbiano sperando semplicemente di non fare cazzate. Tipo un “prendi i soldi e scappa” solo che in questo caso i soldi non sono nemmeno da cercare, arrivano direttamente sul conto corrente personale insieme alla diaria su carta intestata del Senato della Repubblica. Eppure lui, il senatore Bartolomeo Pepe (volutamente minuscolo) ieri sera proprio non ce l’ha fatta a non dire la sua e così ha twittato:

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(il mio buongiorno per Left continua qui)

Referendum: lasciate perdere Berlinguer

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È un nuovo must della narrazione renziana, una di quelle trovate che capisci che sono state organizzate dall’alto perché ti ritornano nei dibattiti dappertutto, ogni volta, come una tiritera: «Berlinguer avrebbe votato questa riforma costituzionale» dicono i sostenitori del Sì con la miseria di chi ha bisogno di trovare testimonial frugando nel passato per nascondere la pochezza dei presenti.

Il trucco è sempre lo stesso: una veloce googlata tra i discorsi del prescelto e poi l’estrapolazione (sempre piuttosto semplicistica) di qualche frase ad effetto che possa risultare funzionale alla propaganda. E così tutti quelli che negli ultimi decenni si sono espressi contro il bicameralismo perfetto diventano direttamente sostenitori della riforma Boschi. È un trabocchetto volgare eppure rischia di funzionare e per questo vale la pena approfondire, studiare e smentire.

Pierpaolo Farina è uno dei più appassionati e preparati studiosi di Enrico Berlinguer, ha fondato il sito enricoberlinguer.it e ha pubblicato un libro su Berlinguer, il suo coraggio e le sue idee (Casa per casa, strada per strada, Melampo Editore) nel quale riporta un articolo di Berlinguer che verrà pubblicato postumo su Rinascita il 16 giugno 1984 e che rappresenta il suo testamento politico.

Ne ho scritto qui.

Il bestiario del Parlamento

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Tanto per capirsi. Un elenco:

  • i renziani. Tutti. Tutti quelli che sono in posti di potere solo perché servetti del renzismo. Che saranno poi i primi a mangiargli la carcassa. Furbetti perché senza il vizio della servitù non riuscirebbero nemmeno a farsi eleggere in una riunione di condominio.
  • NCD. Il nuovo centrodestra che si è inventato una sigla per ripulirsi ma che poi sono gli stessi che ci hanno ripetuto per anni che il processo a Dell’Utri è una persecuzione della magistratura. Berlusconiani senza rinnegare Berlusconi perché sono troppo ricattabili. Abusivi.
  • Formigoni: in un Paese normale un Presidente di Regione finito com’è finito lui sarebbe costretto a vita privata. Oggi è in maggioranza. Con Renzi. Evviva. Furbetti colorati.
  • Cicchitto: si lascia andare in una lunga intervista su l’Unità (mio dio, l’Unità) per dirci che a Roma bisogna votare Giachetti. Cicchitto. E intanto Giachetti ci insegna di essere il nuovo.
  • Tutti quelli che ci dicono che il M5S sono una massa di potenziali delinquenti. E intanto si fanno sostenere alla Camera e al Senato da delinquenti acclarati. Pensa te.
  • Maria Elena Boschi. Che ha mezza famiglia impastata nella banca più scandalosa degli ultimi anni. A questo punto ci facevamo Fiorani ministro. Si faceva prima.
  • Beppe Sala (sì, lo so, non è in Parlamento ma è un prototipo che non possiamo tralasciare) Ha promesso di non volere fare politica. E si è candidato. Ha promesso di mostrare i conti di Expo e hanno dovuto strappargli la borsa per vederli. Ha promesso che i conti fossero in attivo e poi ci ha sgridato perché non sappiamo l

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Tomaso Montanari: «Perché ho detto no a Virginia Raggi (e perché la voterei)»

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di Tomaso Montanari

Seppur a malincuore ho deciso di non accettare la proposta di Virginia Raggi di diventare (in caso di una sua vittoria al ballottaggio di domenica prossima) assessore alla Cultura di Roma. Ci ho pensato a lungo: per me, che mi occupo della storia dell’arte di Roma e che sono profondamente convinto della centralità della cultura nella vita democratica, sarebbe stata una straordinaria sfida professionale.

Ma governare una città non è solo una questione professionale. Per farlo davvero bene – specialmente nella cultura – non si può essere capitani di ventura, o tecnici vaganti: bisogna essere un membro stabile di quella comunità. È necessario essere parte di quel popolo, sentirsi esistenzialmente radicato a quelle pietre. Io non sono romano e non vivo a Roma: e in Italia come in pochi altri paesi il legame con la nostra città è viscerale, carnale. È un’appartenenza biunivoca: la nostra città ci appartiene, ma anche noi le apparteniamo.

Dunque, questa non è la mia partita. Ma vorrei sottolineare il valore politico della proposta di Virginia Raggi. Mi riconosco nei valori della Sinistra. Non ho mai votato Cinque Stelle, e se avessi votato a Roma, al primo turno avrei votato per Stefano Fassina.

Ma è un dato di fatto che in questi anni, nelle tante battaglie per la difesa dell’ambiente, del territorio e del patrimonio culturale, ho sempre trovato dall’altra parte della barricata un sindaco o un presidente di regione del Pd o di Forza Italia (purtroppo spesso indistinguibili). E, invece, dalla mia parte e senza che li cercassi, c’erano immancabilmente i cittadini che si riconoscono nel Movimento Cinque Stelle. È da questa oggettiva convergenza su alcuni valori, è da ciò che ho scritto nei miei libri, che è nata l’idea di rivolgersi a me. Ed è per lo stesso motivo che la Raggi ha scelto come assessore all’urbanistica Paolo Berdini: uno degli eredi diretti di Antonio Cederna, inflessibile avversario degli eterni palazzinari romani, editorialista del Manifesto e indiscutibilmente di sinistra.

Ora, io credo che questa apertura del Movimento Cinque Stelle verso alcuni dei valori costituzionali cari alla storia della Sinistra italiana sia da salutare come un fatto assai positivo.

Quando più di un romano su tre vota per i Cinque Stelle – con percentuali assai alte tra i più giovani e altissime nelle periferie – diventa evidente che non si tratta più di un voto di protesta, ma di una richiesta (quasi di un’implorazione) di governo.

Mi pare indispensabile che ora i Cinque Stelle accelerino la loro evoluzione: vanno superati al più presto il ruolo incongruo di Beppe Grillo, l’inquietante dinastia proprietaria dei Casaleggio, le inaccettabili posizioni sui migranti, sul cammino dell’Unione Europea e su altre questioni cruciali. Se questo processo continuerà sarà un bene per l’intera democrazia italiana: che rischia di bloccarsi sul mantra dell’assenza di alternative al Pd di Matteo Renzi.

Sono tra i molti che credono che Renzi stia spostando la politica del Pd ben più a destra dell’imperante moderatismo liberista europeo: ne sono segni inequivocabili una politica insostenibile per l’ambiente e il territorio, una inaccettabile mercatizzazione della scuola e della cultura, la contrazione dei diritti dei lavoratori e soprattutto una caotica quanto pericolosa manomissione della Costituzione, accompagnata da una legge elettorale programmaticamente non rappresentativa, e sostanzialmente antidemocratica.

Se la sinistra radicale non riesce, con ogni evidenza, a rispondere a tutto questo, è impossibile non riconoscere che i Cinque Stelle (occupando di fatto lo spazio che in Spagna è stato conquistato da Podemos) stanno invece aprendo nuovi spazi di cittadinanza: suscitando partecipazione almeno quanto questo Pd sembra invece puntare, irresponsabilmente, sull’astensione.

Se votassi a Roma, al secondo turno sceglierei dunque la Raggi, anche perché (nonostante l’evidente probità di Roberto Giachetti) è vitale – dopo l’impressionante disastro consociativo – che sul Campidoglio tiri un’aria radicalmente nuova.

Se poi quest’aria riuscirà a costruire una alternativa nazionale ispirata ad un riformismo radicale, e se lo farà aprendosi a valori e personalità della sinistra, il Paese non avrà che da guadagnarci.