Vai al contenuto

Giulio Cavalli

‘L’amico degli eroi’ si è fatto libro

copertina3Questo libro non è un libro. Meglio: non è solo un libro. È la cassetta degli attrezzi per entrare preparati in una storia che si prova a rimuovere come se non fosse mai accaduta. Quando abbiamo deciso di preparare un’operazione culturale sul processo di Palermo che riguarda i rapporti mafiosi di Marcello Dell’Utri ci siamo convinti che l’abbinamento perfetto sarebbe stato uno spettacolo teatrale e un libro come manuale d’istruzioni. Come il bugiardino dentro le medicine, una cosa così, solo che qui il bugiardino c’è uscito di qualche centinaio di pagine perché ci teniamo che l’uso (e soprattutto le controindicazioni) siano chiari a tutti.

L’amico degli eroi’ (che è il titolo dello spettacolo e anche del libro) è un “produzione sociale”: un’idea culturale che è stata sottoposta ai lettori e agli spettatori prima di essere costruita. Abbiamo pensato che anche il percorso di produzione avrebbe dovuto rispettare lo spirito generale: non cadere nella troppo comoda tentazione di smussarci. E per farlo abbiamo deciso di farci produrre dal nostro stesso pubblico: “se funzionerà significherà che ha un senso”, ci siamo detti. E ha funzionato: abbiamo raccolto abbastanza fiducia perché l’idea diventasse forma. E se è vero che non è una novità che uno spettacolo o un libro nasca grazie al crowdfunding (ingarbugliatissima parola inglese per non rischiare di dover dire “produzione sociale”) è pur vero che per me si trattava di un azzardo: io che per lavoro ho il privilegio di scrivere per importanti editori o sostenuto da teatri riconosciuti mi sono buttato lì dove con troppa comodità di solito indichiamo il dilettantismo o al massimo il semiprofessionismo.

Sono convinto invece che la “produzione sociale” sia il punto d’arrivo per un artista che voglia verificare l’empatia e la fiducia con il proprio pubblico. Questo libro e questo spettacolo, altrimenti, difficilmente sarebbero stati così: ci avrebbero fatto notare che “la storia è vecchia”, che “è già stato scritto tutto” o che ci sarebbe stato bisogno di un mezzo scoop, uno spicchio di scandalo per diventare vendibile. E invece questa storia è potente proprio perchè è già pubblica eppure così impolverata, archiviata. Deposta. Una storia deposta senza discuterla.

Mi sono detto «ma davvero solo io ritengo scandaloso che tutto questo sia finito così? Con un mezzo editoriale, qualche trasmissione e pace alla storia?.» Perché se non conosciamo Dell’Utri non riconosceremo i prossimi Dell’Utri. Non è giustizialismo, è memoria. Semplicemente. E allora ci siamo tuffati in questo gorgo di amicizie unte, amorosi sensi corrisposti, convergenti interessi particolari. Ci vuole stomaco, certo, ma è un viaggio che ci tocca fare. Per il nostro Bene. Quello maiuscolo.

(si può comprare ovunque, ad esempio qui)

Nummeri

trilussa

NUMMERI
di Trilussa

– Conterò poco, è vero:
– diceva l’Uno ar Zero –
ma tu che vali? Gnente: propio gnente.
Sia ne l’azzione come ner pensiero
rimani un coso voto e inconcrudente.
lo, invece, se me metto a capofila
de cinque zeri tale e quale a te,
lo sai quanto divento? Centomila.
È questione de nummeri. A un dipresso
è quello che succede ar dittatore
che cresce de potenza e de valore
più so’ li zeri che je vanno appresso.
1944

Cara Guidi, la “sguattera del Guatemala” è un premio nobel

rigobertamenchu

«Le definizioni qualificano i “definitori”, non i “definiti”» ha detto di recente all’Economist la scrittrice premio Nobel Toni Morrison. La definizione «sguattera del Guatemala» ha richiamato nella mente di molti – ovviamente per contrasto – un altro premio Nobel (per la Pace, nel ’92), Rigoberta Menchu Tum. Migrante, bracciante, domestica, attivista dei diritti umani, Rigoberta ha ricevuto il riconoscimento per il suo operato volto a promuovere «la giustizia sociale e la riconciliazione etno-culturale basata sul rispetto per i diritti delle popolazioni indigene».

La parola “sguattero” (con la “s” iniziale rafforzativa di “guattero”) deriva probabilmente dal longobardo wathari, guardiano, e che questo termine ha la stessa radice della parola acqua in inglese, water. Nel senso etimologico del termine, è una sguattera Rigoberta e lo è chiunque agisca prendendosi cura della collettività e delle risorse, tutti i custodi dell’acqua e della terra. Che cos’è e come si qualifica chi utilizza in termine spegiativo questo termine lo spiega bene la stessa attivista guatemalteca nel suo “Mi chiamo Rigoberta Menchu”, quando racconta chi è «l’eletto» nella sua comunità.

«Forse la maggior parte delle cose che facciamo è basata su quel che facevano i nostri antenati. Per questo abbiamo l’eletto, che è la persona che riunisce in sé tutti i requisiti, ancor validi, che i nostri antenati sapevano riunire. È la persona più importante della comunità, i figli di tutti sono suoi figli, insomma è quello che deve mettere in pratica tutto quanto. E più di tutto, è il rappresentante dell’impegno nei confronti dell’intera comunità. In questo senso, quindi, tutto quel che si fa lo si fa tenendo presenti gli altri»

(l’articolo è qui)

#Left cosa ci abbiamo messo dentro

Left_cover-trivelle-768x980

Nel numero in edicola sabato ho raccontato la storia di Luca Neves (in arte Fat Negga) che è diventato straniero in casa propria.

Il sommario del prossimo numero è qui. Come sempre sono curioso di sapere cosa ne pensate.

Non si può volere e pensare nel frastuono assordante

peppinoimpastato

Un mare di gente
a flutti disordinati
s’è riversato nelle piazze,
nelle strade e nei sobborghi.
E’ tutto un gran vociare
che gela il sangue,
come uno scricchiolo di ossa rotte.
Non si può volere e pensare
nel frastuono assordante;
nell’odore di calca
c’è aria di festa

(Peppino Impastato. Sì, proprio lui.)

Su #renzirisponde

renzinapoli

Se ne sta scrivendo un po’ dappertutto oggi. E tra le tante cose vale la pena leggere due pezzi due, secondo me: c’è questo articolo di Adriano biondi che prova a verificare se e quanto tutto quello che è stato detto corrisponda al vero e c’è Galatea che fa una riflessione sulla disintermediazione qui. E, volendo, c’è la disintermediazione che non sta funzionando benissimo a Napoli, ecco. Qui.

Perché Giulio Regeni era una minaccia per le forze di sicurezza egiziane

regeni

Un pezzo interessante di di Jean Lachapelle:

«Poche settimane fa, una persona che stava facendo ciò che faccio io — ricerca sul campo in Egitto — è stato assassinato. Giulio Regeni, cittadino italiano, era un ricercatore di filosofia presso la Cambridge University che studiava i movimenti dei lavoratori egiziani. È scomparso il 25 gennaio, il quinto anniversario delle rivolte del 2011, e i suoi resti ritrovati alcuni giorni dopo presentavano segni di bruciature, ossa rotte ed elettroshock. Queste lesioni sono state interpretate come segni di tortura, poiché somigliano alle stesse subite dai molti egiziani che si sono trovati a fare i conti con le forze di sicurezza del Paese in passato. Di fronte a quello che potrebbe essere il primo caso di uccisione da parte della polizia di uno studente straniero in Egitto, il MEA (associazione degli studi in medio oriente) ha di recente inviato un avviso di pericolo ai propri membri.

Cosa possiamo fare per questa tragedia? Perché è stato ucciso? E ancora, ci sono altri ricercatori a rischio?

La notizia della morte di Regeni è un profondo shock per tutti coloro che hanno condotto una ricerca in Egitto. Come lui, io ho intervistato attivisti dei sindacati commerciali indipendenti. E come molti altri cittadini di nazionalità non egiziana, ho potuto provare il largamente diffuso, ma raramente dichiarato assunto che il mio stato di cittadino straniero mi offrisse un po’ di protezione dai modi estremi della polizia, come l’abuso fisico. Questo terribile evento indica entrambi i limiti di quel senso di comfort e il sempre esplicitato spazio per i ricercatori, stranieri o egiziani che siano.

Non è immediatamente ovvio perché le autorità possano aver considerato Regeni una minaccia. Lui faceva ricerca sindacati indipendenti, un argomento apparentemente innocuo in un Paese dove la sinistra non solo è debole, ma anche ostile ai fratelli mussulmani, ovvero gli oppositori maggiori del regime. Inoltre, lo studente non era l’unico accademico sul campo che studiava problemi sensibili.

Altri ricercatori hanno intervistato gli attivisti dell’opposizione sotto il corrente regime militare, inclusi membri dei fratelli mussulmani, mentre studenti hanno pubblicato alcune criticità del regime. Ma è stato questo giovane ricercatore che ha incontrato un così brutale destino.

Perché?


Dal 2011, ho studiato come le forze di sicurezza egiziane percepiscono le minacce e selezionano i loro obiettivi. Ho catalogato atti di coercizione da parte della polizia, consultato documenti amministrativi e parlato con attivisti politici, inclusi i leader del lavoro e gli ex membri delle forze di sicurezza. La mia ricerca mi ha insegnato due cose. La prima è che le forze di sicurezza prestano più attenzione ai segnali di politicizzazione nei movimenti dei lavoratori. Sotto il regime di Mubarak, le forze di sicurezza stabilirono una sottile distinzione tra i disordini di tipo politico e quelli di tipo economico. Le proteste dei lavoratori venivano spesso tollerate o ignorate fintanto che i protestanti non facessero rivendicazioni politiche. In parallelo, agli attivisti politici erano comunque consentite le proteste e le critiche al regime, a patto che non tentassero di aizzare le masse a fini anti governativi.

Secondo, le forze di sicurezza hanno diverse idee sulle cause delle mobilitazioni popolari. Come i ricercatori sociali, le autorità egiziane hanno sviluppato teorie sull’esplosione delle rivolte popolari nel 2011. Mentre i primi hanno enfatizzato la spontaneità, il coraggio e le azioni dei cittadini ordinari durante i 18 giorni delle rivolte del 2011, le forze di sicurezza egiziane credono che la rivolta fu suscitata da ben organizzate forze politiche, capaci di manipolare la maggioranza dei cittadini per fini politici. Nell’estate 2011, quando chiesi ad un ex membro delle forze di sicurezza perché i protestanti anti-Mubarak avessero avuto successo, lui diede la colpa a cospirazioni dall’estero, in particolare dal gruppo palestinese Hamas. Accuse di pressioni dall’esterno che causano instabilità politica in Egitto sono comuni tra i media egiziani.

Negli USA, queste visioni sono spesso chiuse come classica propaganda autoritaria. Comunque sia, la mia ricerca suggerisce che queste ansie sono reali e spiegano il modo in cui il regime egiziano percepisce le minacce. In particolare, fanno in modo che le forze di sicurezza siano molto attente ai legami tra gli elementi stranieri e i settori “mobilizzabili” della società.»


È possibile che le attività di ricerca di Regeni siano state scambiate come tentativo di preparare una nuova rivolta. Lui ha costruito legami con gli attori locali, frequentato incontri con gli attivisti del lavoro e parlava un arabo eccellente — una abilità essenziale per un ricercatore, ma anche un elemento che sfortunatamente tende a creare sospetti. Sembra che avesse a cuore i problemi del lavoro e scrisse articoli critici sul regime guidato dal presidente Al-Sisi per un giornale italiano. Un articolo, pubblicato postumo, che offre una analisi accurata dello stato dei sindacati indipendenti in Egitto.

Contrariamente a ciò che è stato suggerito altrove, le sue visioni critiche erano probabilmente meno consequenziali rispetto alle sue connessioni, i suoi contatti e il suo attento lavoro di reporting sul campo.

Regeni è sparito durante un’azione di sicurezza atta a prevenire qualsiasi tipo di protesta il giorno del 25 gennaio. Nei giorni precedenti questo anniversario, le forze di sicurezza hanno perquisito 5000 appartamenti nel centro del Cairo, un’azione che, a quanto riferito, aveva seguito mesi di lavoro di intelligence per trovare “attivisti pro-democrazia dentro e fuori dal Paese, stranieri inclusi”.

Forse il rapimento di Regeni fu ordinato dopo una lunga osservazione. O forse è stato semplicemente preso dalla strada da qualche ufficiale nervosetto mentre era sulla via per incontrare un amico, per poi aumentare il sospetto durante la detenzione. Ad ogni modo, il fatto che sia stato “interrogato fino a 7 giorni” indica la probabilità che le forze di sicurezza lo vedessero come una minaccia.

(continua qui)