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Giulio Cavalli

Sono evaso dal mio comodissimo lato peggiore.

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C’è solo un rischio nel godersi il dolore. E te lo scrivo perché ci ho nuotato dentro per anni e forse ogni tanto ci ricado ancora: convincersi che quello sia il nostro stato naturale. Apprezzarne i ritmi blandi, assopirne le incostanze e prendere la forma della tristezza così tanto e così in fondo, perché te la bevi tutta perché credi di meritartela, che alla fine la forma della tristezza è l’unica forma comoda per appoggiarci il viso. E te ne accorgi perché tutto intorno, tutto, ma proprio ogni cosa di tutte le cose, ti sembra troppo ripida per metterci sopra il piede, ti prende il mal di testa ancora prima del primo scalino e non sentirsi all’altezza ti disabitua a prendere il volo. È naturale, questo sì. E poi comincerai a diventare gelosa del tuo dolore, ti dirai che almeno qualcosa hai il diritto che sia solo tuo, senza sapere che così ti stai concimando per essergli perfetta, al dolore: sola. E alla fine anche l’esser sola ti pesa come colpa, così all’infinito: ogni scelta, una colpa. Così smetti di scegliere e ormai sei andata così lontana che non avresti mai la voglia di prendere per mano qualcuno e riportarlo fin lì. Poi a me è successo così: ho sentito i suoni e ho visto i colori. Sono evaso dal mio comodissimo lato peggiore.

«Renzi? Più che un rottamatore è in effetti un disneyficatore»: scrive un professore di Harvard

Lettera di Francesco Erspamer, professore a Harvard:

renziharvard-600x766«Questa mattina Matteo Renzi parlerà a Harvard. Penso che abbia voluto venirci, oltre che per promuovere se stesso, per promuovere in Italia la sua riforma dell’università. Il premier italiano lo disse chiaramente, alcuni mesi fa: bisogna imitare il modello americano. E ora è venuto per far vedere ai suoi connazionali ed elettori che lui quel modello lo conosce. Harvard è la più prestigiosa università del mondo e questo gli basta: non si domanda con quali criteri e scopi siano stilate le classifiche di eccellenza o quali siano le condizioni e implicazioni di una simile preminenza (per esempio che Harvard sia una corporation con un capitale di più di 36 miliardi di dollari che ammette lo 0,04% degli studenti che ogni anno vanno al college) o tanto meno quale sia il livello delle altre 4139 università americane: no, lui tornerà tutto contento in patria e proclamerà che l’università italiana, la più antica del mondo, deve diventare come quella americana, convinto che se lo diventasse non sarebbe una scopiazzatura fuori contesto e fuori tempo (l’America sta cominciando a guardare all’Europa per rimediare ai disastrosi scompensi del suo sistema educativo) ma una sua grande innovazione. Un po’ come se gli riuscisse di aprire uno Starbucks in Piazza della Signoria a Firenze; o ancor meglio in Piazza della Repubblica a Rignano sull’Arno.

Ma non è per questo che stamattina non andrò a sentirlo. E neppure per via del mio radicale dissenso con il suo progetto di reaganizzare l’Italia (e per di più in ritardo, quando gli altri paesi stanno cercando rimedi): non andrò a sentirlo perché è venuto a Harvard con lo stesso spirito con cui sarebbe andato a inaugurare un centro commerciale o ad aprire il nuovo anno alla Borsa di Milano. Tutte cose che un primo ministro deve fare: ma accorgendosi che sono differenti e rispettando le loro differenze. Per Renzi invece sono la stessa cosa: occasioni di visibilità, interamente prive di contenuti.

Significativamente, non parlerà alla Kennedy School of Government, dove avrebbe avuto senso per il ruolo istituzionale che ricopre. E neppure a economia, in riconoscimento delle sue riforme liberiste. Parlerà in un museo, all’Harvard Museum. Scelto, immagino, per confermare l’immagine che dell’Italia hanno gli americani: il paese della cultura e della bellezza. Forse chi lo ha invitato ricordava la sua foto insieme a Angela Merkel sotto il David, al meeting di un anno fa alla Galleria dell’Accademia: senza accorgersi (o peggio: senza curarsi) di quanto non autentica fosse quella cornice: ambienti carichi di storia abusati per promuovere politiche globaliste, volte a distruggere proprio quell’identità culturale.

Più che un rottamatore Renzi è in effetti un disneyficatore: che banalizza tutto ciò che tocca riducendolo a evento mediatico, dunque equivalente a qualsiasi altro che attiri l’attenzione dei giornali e dei network televisivi, senza gerarchie, distinzioni, senza valori di riferimento. La sua dimensione è quella della pubblicità e dei reality, in cui si fa finta di essere veri ma facendo in modo di non essere davvero creduti, in cui ci si maschera ma mantenendo una distanza ironica che impedisca equivoci, guardandosi bene dal correre il rischio che possa diventare un’esperienza autentica e dunque cambiare qualcosa. In ciò Renzi è integralmente liberista, impegnato nella sistematica deregulation dei princìpi e specificamente dell’autenticità: contro la quale impiega collaudate tecniche come la cazzata, che toglie di significato (scrisse il filosofo Harry Frankfurt in un celebre saggio) all’opposizione verità-menzogna e realtà-virtualità.

Non so di cosa parlerà a Harvard. Gli annunci del suo intervento non aiutano: “A keynote address”, “un discorso ufficiale”, senza ulteriori specificazioni, a confermare che non è venuto perché avesse qualcosa da dire. C’è venuto per far sapere che c’è stato. Presumo che abbia messo qualcosa insieme all’ultimo momento, cercando su Google qualche aneddoto su Harvard; come fece poco più di un mese fa in un’altra università, quella di Buenos Aires, dove al termine di un discorso confuso e infarcito di perle da Baci Perugina (“Non c’è parola più grande dell’amicizia per descrivere la storia di popoli diversi”: qualcuno mi spieghi cosa significa) citò in spagnolo dei versi di Borges. Solo che non era una poesia di Borges, subito notò El País, bensì un falso che compare su internet quando si inserisca la coppia di parole borges-amicizia.

Qualcuno ricorderà il concetto rinascimentale di sprezzaturateorizzato nel Cortegiano, uno dei libri italiani che più influenzarono la civiltà europea. Castiglione pretendeva dalla classe dominante, in cambio dei suoi privilegi, capacità e stile senza ostentazione: bisognava sapere tutto e saper fare tutto però come se fosse una cosa naturale. Ma quella era una società fortemente regolamentata. Nell’età della deregulation i vincenti alla Renzi seguono un precetto opposto: ostentazione senza capacità né stile. Per questo stamattina non andrò a Harvard ad ascoltarlo. Perché a differenza di Berlusconi e di tanti altri politici, Renzi non si limita a ignorare la cultura o magari disprezzarla. La cultura può sopravvivere all’ignoranza e al disprezzo. No, Renzi la svuota. Con la sua programmatica trivialità svilisce la ragione e il linguaggio, riduce la comunicazione, ossia la facoltà più propriamente umana e sociale, a rumore. La chiarezza e il rigore costringono a una certa misura di coerenza; le improprietà deresponsabilizzano, rendono tutto indifferente, il vero e il falso, il giusto e l’ingiusto, le qualità e i difetti, i profittatori e le loro vittime. E quando il vuoto diventa uno stile e un programma, la fine della democrazia è pericolosamente prossima.»

(fonte)

Ops, Sala si è dimenticato della sua casa e del suo conto in Svizzera

Giuseppe_Sala

(Gianni Barbacetto per Il Fatto Quotidiano)

«Giuseppe Sala, candidato sindaco a Milano per il centrosinistra, nella sua risposta alle tre domande poste dal Fatto Quotidiano (rapporti con Cl, possesso di conti all’ estero, appartenenza alla massoneria) ha ammesso di avere un conto corrente all’ estero: “Ho un appartamento di vacanze a Pontresina in Svizzera e ho un conto bancario per le spese strettamente connesse all’ abitazione e per nessun altro utilizzo”.
È una casa a La Senda, nell’ incantevole paese di Pontresina, in Engadina, a un passo da St. Moritz. Un conto e una casa all’ estero devono essere dichiarate al fisco italiano, nel quadro RW della dichiarazione dei redditi. Non abbiamo l’accesso all’ anagrafe tributaria, dunque non possiamo verificare se il candidato abbia fatto il suo dovere con il fisco. Ma sappiamo che non l’ha fatto con il Comune di Milano e la società Expo 2015 spa. Perché come amministratore di un’azienda pubblica, Sala ha l’ obbligo di dichiarare i beni immobili posseduti.
Nelle sue dichiarazioni, la casa in Svizzera non c’ è. E non c’ è, a essere puntigliosi, neppure la sua villetta al mare di Zoagli. Sala ha messo online una “Indicazione reddituale e patrimoniale” aggiornata al 31 dicembre 2014 in cui dichiara un reddito imponibile di 410 mila euro e, come beni immobili, il possesso del 12,5% di un fabbricato con due box (è la quota della casa di famiglia a Varedo) e del 100% di un terreno: non ci sono indicazioni ulteriori, ma è il terreno di Zoagli, che però non è un semplice terreno, bensì una villa, quella per cui Sala ha chiesto l’ intervento, a pagamento, dell’ architetto Michele De Lucchi che, mentre lavorava per il commissario di Expo, riceveva da Expo (anche attraverso Fiera Milano spa) incarichi per un valore di oltre 600 mila euro per il Padiglione Zero e l’ Expo Center. In questa dichiarazione non c’ è alcun accenno all’ appartamento in Svizzera.»

Nero di Lucania

Tramutola (Val d’Agri), affioramento naturale di petrolio. © Michele Amoruso
Tramutola (Val d’Agri), affioramento naturale di petrolio. © Michele Amoruso

Simone Valitutto e il fotoreporter Michele Amoruso hanno fatto un bel lavoro per raccontare il rapporto tra il petrolio e la Lucania. Ed è importante leggerlo per capire quanto la questione non sia strettamente giudiziaria, economica o imprenditoriale ma soprattutto culturale. E quando qualcuno racconta il brutto con bellezza è sempre un’occasione rara.

Trovate tutto qui. O cliccando sulla bella foto di Michele.

Ci si vede martedì 5 aprile a Bollate #miopadreinunascatoladascarpe

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Martedì torno giù al nord, a Bollate, per presentare il mio ‘Mio padre in una scatola da scarpe‘ e per discutere insieme a voi del valore della verità. Bollate non è scelto per caso: a Bollate si è consumata un paradigmatica commistione tra mafia, imprenditoria e cittadinanza che per lavoro (e per legittima difesa) ho seguito per anni. E la presentazione sarà a Cassina Nuova, la località che è stata il feudo di Vincenzo Mandalari, uomo di ‘ndrangheta e di affari.

Insomma, se siete da quelle parti vale la pena esserci. Ecco. Info sull’evento qui.

È che poi io ci credo, forse sbaglio, alle parole

impegno

Quale parola mi verrebbe voglia davvero di scrivere, mi chiedo, di solito prima di andare a dormire? Scrivo quintali di parole al giorno, battute con con il rumore di un elastico che mi parte dalla testa e poi mi schiocca sulle dita con l’agilità di un certo allenamento. Ne scrivo di arrabbiate, d’amore, di cronaca cercando sempre di riuscire a non provocare nemmeno un cerchio nell’acqua dei fatti e spesso ne scrivo per mostrare un lato che è rimasto così tanto al buio che ci fa un freddo cane. E poi, quando mi capita di parlare per librerie, nei teatri o nelle scuole cerco sempre di non alimentare il feticcio, delle parole, che da sole senza qualcuno che le scrive e quelli che le leggono o chi le ascolta le parole sarebbero un’articolazione anche piuttosto ostica di suoni brevi. Però quando penso alla parola che vorrei riuscire a scrivere prima di andare a dormire mi verrebbe voglia, dico stasera, di scrivere impegno. Perché c’è dentro tutto, nell’impegno: la perseveranza, lo studio, la fatica, la passione, il tempo da spenderci, la misura, l’architettura dei sentimenti, lo sforzo ma anche la soddisfazione, il realizzarsi, il compiere. Ecco: se potessi esprimere un desiderio vorrei riuscire a non dire le parole che non sono abbastanza impegnate. Si eviterebbero i fraintendimenti, i dolori, le superficialità e sarebbero tecnicamente impossibili le bugie. Non credo che sarebbe un mondo tanto barboso quello delle “parole d’impegno”. E ci farebbe bene a tutti. A chi legge, a chi scrive, a chi pensa, a chi vive.