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Giulio Cavalli

Eppure il petrolio non cambia verso

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“La chiamo per darle una buona notizia..ehm.. .si ricorda che tempo fa c’è stato casino..che avevano ritirato un emendamento…ragion per cui c’erano di nuovo problemi su tempa ross … pare che oggi riescano ad inserirlo nuovamente al senato..ragion per cui..se passa…e pare che ci sia l’accordo con Boschi e compagni…(…) se passa quest’emendamento… che pare… siano d’accordo tutti…perché la boschi ha accettato di inserirlo… (…) è tutto sbloccato! (ride ndr)…volevo che lo sapesse in anticipo! (…) e quindi questa è una notizia…”.

La telefonata di Gianluca Gemelli, compagno della ministra Federica Guidi, al rappresentante della Total. Il governo che cambia il Paese. Quello che ha preparato lo spot per chiederci di disinteressarci di referendum, petrolio e trivelle.

Il carcere d’oro del boss nell’ospedale Niguarda

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Un articolo de L’Unità su Francesco Cavorsi del 24 novembre 1996

È tornato qui da tre mesi ed è come se non fosse mai andato via. Camera doppia a uso singolo, pasti, tv, cellulari, visite, parenti, amici. Niente piantone di polizia. C’è un boss mafioso, un killer ergastolano della Sacra Corona Unita pugliese, che vive da 15 anni all’ospedale Niguarda di Milano. A spese nostre: costa 700 euro al giorno, 4.900 euro a settimana, 235mila l’anno. Moltiplicati per 15 anni fanno 3 milioni 525mila euro. Tanto ha pagato e continua a pagare la sanità nazionale per mantenere l’ergastolo dorato di Francesco Cavorsi, 53 anni, da San Giovanni Rotondo, un passato da romanzo criminale.

È stato condannato alla pena massima per tre omicidi eseguiti negli anni ’90, quando, tra partite di droga e regolamenti di conti, assieme ai due fratelli scala le gerarchie della mala milanese e diventa il “killer in sedia rotelle” (è paraplegico dal 1988, pallottole ordinate dal capo ‘ndranghetista Pepè Flachi, ma lui riesce ugualmente a eliminare i nemici di spaccio convincendoli a salire in auto e freddandoli a colpi di calibro 7,65).

La scandalosa lungodegenza ospedaliera di Cavorsi, ora incredibilmente riattivata, viene a galla due anni fa: denuncia di Repubblica, imbarazzo dei vertici del Niguarda. Il caso – siamo a marzo 2014 – finisce sul tavolo del governo. Si muovono i ministri di Giustizia, Andrea Orlando, e Sanità, Beatrice Lorenzin: ispezioni e relazioni per capire come e perché sia possibile che un padrino di elevato spessore criminale viva a carico della spesa pubblica, non in carcere, o in una struttura alternativa, ma in un ospedale. Dove occupa stabilmente due posti letto (camera doppia).

Risultato: Cavorsi – che è un detenuto da tempo non più in carico al Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) bensì alla magistratura (di lui si occupa il giudice di sorveglianza) – viene trasferito in un altro luogo. Meno costoso. Una struttura del Comune. Il killer è affetto da diverse patologie, ma “non bisognoso di una struttura di degenza per malati acuti”, men che meno a 700 euro al giorno, dichiarò due anni fa il direttore sanitario del Niguarda, Giuseppe Genduso. Con la delocalizzazione del paziente pareva che sullo scandalo dell’ergastolo dorato fosse stata messa la parola fine. Invece no.

Tre mesi fa mesi fa il padrino pugliese rientra al Niguarda, il più grande ospedale lombardo con 1.300 posti letto e 131mila ricoveri l’anno. La sua camera doppia è al Dea, il padiglione che ospita, tra gli altri, il reparto di chirurgia di emergenza (plastica e maxilofacciale). È un ritorno a casa. Fuor di metafora. Perché da 15 anni – da quando nel 2001 è stato aperto il Dea – Cavorsi risulta domiciliato all’ospedale “Niguarda Cà Granda, piazza dell’Ospedale Maggiore, 3, Milano”. Per essere un ergastolano con alle spalle tre omicidi, il boss non vive in condizioni particolarmente restrittive: nessun agente di piantone lo controlla; riceve normali visite; gira in ospedale su quella stessa sedia a rotelle con la quale vent’anni fa si spostava (in auto) per chiudere la bocca ai suoi nemici.

“Bum, bum, bum, bum, bum… cinque colpi ci ho sparato, perché quello non meritava di morire troppo velocemente”: così, nell’estate del ’92, intercettato dalle cimici piazzate dal pm Maurizio Romanelli, un compiaciuto Cavorsi racconta l’omicidio, sei mesi prima, di un trafficante di droga, Virgilio Famularo. È il terzo delitto in tre anni: nel ’90 uccide il veterano della mala milanese Oreste Pecori; nel ’91 tocca ad Antonio Di Masi, spacciatore legato agli slavi. Tre omicidi confessati davanti ai giudici della terza Corte d’assise di Milano. Nel ’96, due anni dopo l’arresto (operazione Inferi), il 33enne Cavorsi è condannano all’ergastolo con l’aggiunta di 53 anni di carcere.

Qui inizia un’altra storia. La perdita dell’uso delle gambe costringe il boss a una serie di cure. Soggetto pericoloso, sì. Ma, per i giudici, incompatibile con il carcere. Pena differita: al posto della cella, una stanza d’ospedale. Doppia perché, essendo un detenuto, il killer non può stare con un altro paziente. Tecnicamente finisce agli arresti ospedalieri. Nella seconda metà dei ’90 Cavorsi gira una serie di ospedali. Poi, nel 2001, trova casa al Niguarda. Ogni tanto esce in permesso: il via libera arriva via fax dal giudice di sorveglianza. Poi torna.

Quando due anni fa questo giornale denunciò il caso, intervenne, tra i tanti, l’allora assessore regionale alla Salute, Mario Mantovani, poi arrestato per tangenti e oggi in carcere: “Cavorsi? È åun carico che ci è stato imposto dall’autorità giudiziaria – dichiarò – . Mi auguro che adesso si trovi una soluzione più adeguata e meno onerosa. Attendiamo una risposta per un alloggio da parte del Comune”. L’alloggio arrivò. Ma oggi il boss in carrozzella è ancora in ospedale. Disse Cavorsi: “Spero che le mie condizioni di salute migliorino e, a quel punto, di poter finire di scontare la mia pena in carcere” . Già.

(fonte)

Laicità, se vi pare

laicità

Ieri in Parlamento si è discusso dei Patti Lateranensi. Non è una scherzo. E, al solito, le voci che si alzano sono isolate:

«Ci sono le grandi basiliche, come San Giovanni in Laterano o Santa Maria Maggiore. E fin qui nessuna osservazione, anche se vengono chiamati in causa pure gli «edifici annessi». Ci sono gli edifici sul Colle gianicolense della Congregazione di Propaganda fide, e altri palazzi famosi, come quello della Cancelleria, quello della Dataria o del Vicariato, a Trastevere. Ci sono, soprattutto, gli immobili per i quali Stato e Chiesa sono finiti in tribunale, senza però arrivare al giudizio finale. Per tutti questi, un disegno di legge all’esame della Camera, prevede un’esenzione dai tributi «presenti e futuri». Un «condono tombale» su Imu, Tasi, tassa sui rifiuti e tutto il resto, secondo Pippo Civati e Andrea Maestri, deputati di Possibile, gli ex Pd che hanno lasciato il partito in polemica con Matteo Renzi. «Solo l’attuazione di una sentenza della Cassazione» rispondono dal Pd stesso. Il testo che fa discutere è la ratifica della convenzione fiscale firmata un anno fa dal governo italiano e dalla Santa Sede. Dice che su tutti gli immobili indicati negli articoli 13,14, 15, e 16 dei Patti Lateranensi, firmati nel 1929, la Chiesa non deve pagare un euro di tasse. E questo perché sono «esenti da tributi sia ordinari che straordinari, presenti e futuri, tanto verso lo Stato quanto verso qualsiasi altro ente, senza necessità di ulteriori e specifiche disposizioni». «Un’esenzione in saecula saeculorum», ironizza il deputato di Possibile Andrea Maestri, che chiede di sapere «a quanto ammonta il gettito sottratto ai bilanci pubblici, compreso quello disastrato del Comune di Roma». Risponde il relatore del provvedimento, Franco Monaco, fedelissimo di Prodi ai tempi dell’Ulivo: «Non c’è mancato gettito e non è un condono perché queste tasse già adesso non sono pagate». L’esenzione per tutti i palazzi indicati nei Patti lateranensi era già prevista nel 1929. I Patti sono un trattato internazionale: senza una modifica vanno rispettati. Ma, su questo punto non c’è una legge italiana di attuazione. Resta il principio, ma ogni volta che il nostro fantasioso fisco crea un nuovo tributo sarebbe necessario confermare l’esenzione ad hoc. Per questo, nel 2012, la Cassazione ha richiamato la necessità di una legge applicativa. Che adesso è arrivata. Ma c’è un altro punto che fa discutere.»

L’articolo è qui.

«Neanche. Cioè, sì. Io ne ero vagamente innamorato, ma in modo estremamente casto»

È un libro da avere e da leggere Io che vi parlo. Conversazione con Giovanni Tesio

71jyiR-PM8LTorniamo ancora un poco sull’amicizia. Sentivi la differenza dell’amicizia maschile e di quella femminile?  

 «Qui tocchi un tasto molto delicato, perché io ero un timido, un timido patologico, per cui avevo delle amicizie femminili, ma si fermavano lì. La mutazione, il salto della barricata è arrivato per me estremamente tardi, dopo Auschwitz. È un argomento di cui parlo con un certo imbarazzo, una certa difficoltà. Sta di fatto che io ero un inibito, lo si vede dalle cose che ho scritto. Io ero fortemente inibito, anche per via delle campagne razziali, perché era un taglio netto. Molte ragazze, con le buone, senza offendere, si allontanavano, ma io cercavo proprio quelle con cui non potevo avere rapporti».

Cercare chi ti respinge?  

«Forse sì, ma io questo lo lascio agli altri. Di fatto ho avuto parecchie amicizie femminili, ma nessuna è sfociata in amore».

Neanche con la compagna d’università con cui – ne hai parlato sotto mentite spoglie nel Sistema periodico – vi scambiavate le letture?  

«Neanche. Cioè, sì. Io ne ero vagamente innamorato, ma in modo estremamente casto».

E ne soffrivi?  

«Sì, ne soffrivo tremendamente, soffrivo in modo pauroso perché vedevo tutti i miei amici che ci passavano da questa esperienza, avevano esperienze anche sessuali. Io no e ne ho sofferto in un modo spaventoso, fino a pensare al suicidio».

Forse anche perché avevi compagni che esibivano fin troppo i loro trofei…

«Certo. Qualcuno andava al casino, ci andava con la tessera falsa. Io non avrei mai fatto una cosa simile».

Amicizie femminili che siano durate nel tempo?  

«Oh, parecchie, sì, parecchie. C’è stata, per esempio, quella della ragazza del Fosforo nel Sistema periodico. È tuttora mia amica. Ma è proprio un periodo, questo, di due o tre anni, in cui le amicizie si sono sfaldate».

Perché?  

«Per ragioni diverse. Intanto per le mie ragioni, vicissitudini familiari, per cui mi muovo poco, e poi… chi muore, chi si ammala, chi perde interesse per la vita… È un capitolo che sta estinguendosi».

Il sentirsi invecchiare è questo?  

«Sì».

Vedersi corrodere l’ambiente che ti sta intorno?  

«Sì, questo è molto doloroso, molto doloroso e irreversibile».

Ma tu nel complesso ti giudichi una persona di natura vincente?  

«Mah! Io mi ritengo uno che ha combattuto parecchie battaglie. Che ne ha perse alcune e ne ha vinte altre. Devo avere una certa forza profonda, perché sono sopravvissuto ad Auschwitz, questa è una grossa battaglia. Anche come chimico ho sopportato sconfitte, ma ho vinto parecchie volte. Poi, come scrittore. Mi sono ritrovato a diventare uno scrittore quasi mio malgrado, ho aperto un capitolo nuovo. Mi è venuta addosso a scalini, prima in Italia e poi all’estero, questa ondata di successo che mi ha squilibrato profondamente, mi ha messo nei panni di qualcuno che non sono io».

Quello dello scrittore è il mestiere più pesante? 

«Più pesante?».

Sì, questa è la domanda.  

«Come effetti senza dubbio sì. Come fatica e durata direi di no, perché ho scritto i miei libri generalmente volentieri, in modo facile, senza sentirne il peso».

© 2016 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino

Il libro lo potete comprare (qui)

Il cattivismo e il nuovo peccato di “senso di colpa”

cattivismo

“Non ci farete venire i sensi di colpa” (un distinto signore rivolto a un funzionario dell’ufficio immigrazione del ministero dell’interno).

Assisto, inquieto e tuttavia ammirato, al trionfo finale del Cattivismo. Ma cosa intendo con questo termine? Il Cattivismo nasce come rovesciamento materiale di un presunto sentimento trasformato in una retorica che si vorrebbe dominante: il Buonismo.

Dico materiale perché all’origine si tratta semplicemente di una sorta di declamazione della fermezza: mezzi forti e metodi spicci in contrapposizione a mezzi considerati “molli” e a metodi ritenuti inconcludenti, che sarebbero connotati qualificanti del Buonismo.

Dopodiché, quest’ultimo – criticato e stigmatizzato per ogni dove e assurto al rango di vizio capitale della sinistra – si è rivelato per quel che era: un’invenzione di comodo, utilizzata come ingiuria politica, per squalificare valori e programmi osteggiati dalla destra.

Di conseguenza, quell’invenzione di comodo ha rappresentato il bersaglio ideale in un ambiente sociale e in un clima ideologico segnato da ansie collettive e da paure sotterranee. Ansie e paure che pretendevano di essere sedate non con formule ispirate a una fragrante solidarietà e alle buone virtù sociali di una volta, bensì con strategie aggressive e maschie. Ed è andata proprio così.

Il Buonismo si è rivelato qualcosa di simile al vapore acqueo o, al massimo, un residuo evocativo di sparute minoranze religiose e/o comunistiche. Ma dietro al paravento di questa offensiva antisolidaristica e antivirtuosa, si è affermato un pesante apparato repressivo.

Se solo si osservano con un minimo di attenzione le normative in materia di immigrazione, di rom e sinti, di istituti penitenziari e ospedali psichiatrici giudiziari e più in generale quelle relative alle marginalità e alle povertà, si vedrà che l’insieme di provvedimenti di legge e di ordinanze municipali, di misure per l’ordine pubblico e di politiche per le minoranze risulta connotato da un orientamento sostanzialmente di controllo, di esclusione e di discriminazione. In altre altre parole, è il Cattivismo che domina non solo nel governo del disordine sociale, ma anche nel senso comune diffuso.

Il Buonismo, ridotto a quel che è sempre stato – una esile espressione retorica, propria di piccoli gruppi – è in rotta. Dunque, ecco il fiero affermarsi del crudelismo sociale e ideologico. Ed esso, come avviene in tutte le rivoluzioni vittoriose, aspira a prolungarsi e a riprodursi nella forma di una egemonia ideologica e fin morale.

Un racconto per anime belle

Dunque, il Cattivismo, diffusosi largamente, e diventato bandiera e promessa del nuovo potere, ambisce ad assumere i tratti di un vero e proprio sistema di valori. E a dotarsi di una sua base morale.

Ciò può accadere perché la nostra società ha conosciuto profonde trasformazioni. L’imporsi della cultura dell’individualismo come egotismo autosufficiente ha reso friabili le grandi idee, quali uguaglianza e giustizia, le ha espunte dal sistema dei diritti e delle garanzie, le ha ridotte a manifestazioni di sentimentalismo.

In questo scenario, sembra che quei concetti abbiano perso qualunque fondamento razionale e qualunque riferimento all’utilitarismo sociale, per assumere la forma, evanescente e impalpabile, di espressioni umorali e, nel migliore dei casi, di categorie dello spirito.

In un simile quadro, solo il Cattivismo è apparso come concreto, efficace e utile. E il Buonismo è risultato un racconto per anime belle. Poco importa che la verifica scientifica della remuneratività del Cattivismo riveli tutta la fallacia di quella strategia e proprio rispetto ai fini che dice di perseguire.

La vita sociale sembra involvere in una spirale avvitata su se stessa e in un progressivo accorciamento della misura dei rapporti di comunità

Un esempio solo: esiste in Europa un solo stratega militare o un polemologo o un ingegnere navale o, accontentiamoci, un marinaio che confermi l’utilità di “bombardare i barconi”, “attuare il blocco navale”, “affondare scafi e scafisti”? In altri termini, il crudelismo sociale e ideologico si rivela un’utopia regressiva e fosca (espellere i rom? Ma se, al 52 per cento, sono cittadini italiani!).

E, tuttavia, quel processo di torva regressione non si arresta. La vita sociale sembra involvere in una spirale avvitata su se stessa e in un progressivo accorciamento della misura dei rapporti di comunità: così che la “dimensione umana” si restringe vieppiù, fino a coincidere con quella del nucleo familiare.

Non è più solo la crisi dell’universalismo: è, piuttosto, la manifestazione ultima ed estrema di quella stessa crisi. E non è nemmeno più l’esaltazione della società liquida: in suo luogo, si delinea una società di “nicchie”, compartimentate e, nelle aspirazioni , autosufficienti e indipendenti.

Ne discende che non regge più alcuna solidarietà più lunga del perimetro della propria abitazione privata. Lo stesso localismo – metro politico di misura degli ultimi due decenni – risulta troppo “largo”: imporre una qualsivoglia integrazione comunitaria è un’impresa ardua da realizzare in un tempo di così acuta crisi sociale e di così esasperata frammentazione.

È in questo quadro che il senso di responsabilità – come reciproco farsi carico dell’altro – rovina. Io mi faccio carico di me stesso, dei miei cari e, al più, dei miei simili più simili. Il legame sociale, fondamento di ogni comunità organizzata, si riduce al vincolo familiare e, eventualmente, a quello di famiglia estesa e di parentela allargata.

La sequenza successiva è fatale: se non mi assumo responsabilità per quanti si trovano al di fuori di questa cerchia ristretta e saldamente presidiata, non proverò senso di colpa per la mancata assunzione di responsabilità. Tutto qui. La cancellazione del senso di colpa ha questa origine e segue questa dinamica.

Una interpretazione frettolosa, sulla scorta di letture superficiali potrebbe considerarlo un progresso, ovvero il segno di una acquisita maturità. Ma, se nella sfera della psiche individuale il superamento del complesso di colpa può rappresentare l’emancipazione da un pesante apparato di ansie e fobie di punizione, nella vita sociale e nelle comunità organizzate il sottrarsi al senso di colpa corrisponde irreparabilmente a una dichiarazione di irresponsabilità. Dunque, a una fuga senza fine.

Sono scappati dalla guerra. E sono morti.

rifugiatisiriani

Tre bambini siriani sono morti in un campo per rifugiati in Turchia a causa di un incendio. Sono scappati dalla guerra, sono sopravvissuti al mare e sono morti dopo essere stati “accolti”. La notizia è qui. Il giudizio, beh, fate voi.

Eccolo l’onorevole sapientino che ci insegna che la verità costa

Senato, la conferenza stampa dei genitori di Giulio Regeni

Intanto, in un intervento su ‘Libero Quotidiano’, l’eurodeputato del PD Antonio Panzeri dopo un panegirico sull’Egitto e i suoi depistaggi scrive la teoria più realista del re:

«Una cosa però è bene considerarla: se come molti credono c’ è stata una responsabilità dei servizi segreti e se magari sussiste un conflitto interno fra diverse espressioni del regime, allora sarà molto difficile ottenere pieno accesso alle informazioni. Considerare questo elemento non significa abbandonare la ricerca della verità, che è doverosa. Ma capire che questa verità non sarà raggiunta facilmente e che conoscerla potrebbe avere un prezzo, ivi compreso mettere in sofferenza le relazioni diplomatiche per l’ Egitto e l’Italia.»

Ne ho scritto qui.