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Giulio Cavalli

Quel barbecue di Pasqua laggiù nel Pakistan

Sì, ho volutamente scegliere un titolo forte per il mio #buongiorno di #Left di oggi. E lo rivendico con tutta la forza che sta nelle parole. Comunque se vi interessa altro oltre al titolo l’editoriale è qui. O cliccando sulla straziante foto qui sotto.

lahore

Ogni persona che incontri sta combattendo una battaglia di cui non sai niente. Sii gentile. Sempre.

 

ognuno

Io lotterò fino allo stremo questa moda arrogante e intellettualmente sciatta di credere che gli anaffettivi siano i forti, i più affidabili per i ruoli dirigenziali e i meglio preparati per affrontate questo tempo. Preferisco piuttosto rischiare di essere goffo, patetico, melenso oppure ridicolo ma racconterò in ogni mio spettacolo, in ogni mio libro e in ogni incontro nelle scuole quanto sia troppo facile imparare a diventare insensibili.

Scorgere le battaglie più dimesse: vorrei riuscire a diventare un esploratore capace di starmi giorni interi in apnea nel cuore. Ogni tanto mi viene voglia di buttarmi in un esercizio così.

Ops, hanno trovato un De Chirico

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Da leggere il pezzo di Salvo Palazzolo:

Per la procura di Palermo è uno dei gioielli dell’impero Rappa sfuggito al sequestro del marzo 2014. Un prezioso De Chirico, “Il Trovatore”, olio su tela dimensioni 90 centimetri per 60, valore di mercato 500 mila euro. Venerdì mattina, gli investigatori della Direzione investigativa antimafia l’avevano cercato in un’abitazione di Vincenzo Corrado Rappa. Ma la perquisizione era andata a vuoto. Ieri è stato l’imprenditore a consegnare il quadro nella sede della Dia, Villa Ahrens. “Non c’è alcun mistero, nessuna irregolarità – dice l’avvocato Giovanni Di Benedetto – quel De Chirico non appartiene alla società, ma è un bene personale di Vincenzo Corrado Rappa”.

C’è un’inchiesta della procura sulla proprietà del quadro dipinto dal grande Giorgio De Chirico, un quadro che illustra l’uomo in un’insolita veste, quella di robot-manichino che si muove in un universo meccanico. E, intanto, è entrato in un momento cruciale il processo alle Misure di prevenzione sul patrimonio dei Rappa. Su istanza della difesa, la Cassazione ha dichiarato illegittimo una parte del sequestro da 800 milioni di euro, che comprende immobili, aziende, imprese radiotelevisive e concessionarie di automobili (leggi l’elenco dei beni). Per i giudici della Suprema Corte, i Rappa non sono tecnicamente eredi del nonno condannato per mafia con sentenza definitiva. La Cassazione ha bocciato la nozione utilizzata dai giudici di Palermo, “eredi di fatto”. Nella motivazione del provvedimento viene spiegato: “Deve escludersi qualsiasi interpretazione di tipo analogico, quale quella proposta dal tribunale”. Il riferimento è alla sezione presieduta da Silvana Saguto. Adesso, il nuovo collegio, presidente Giacomo Montalbano, è chiamato a prendere una decisione. Il 7 aprile, saranno in aula i periti nominati dal tribunale: hanno esaminato il patrimonio dei Rappa, soprattutto l’origine delle loro ricchezze. Un altro punto decisivo di questo caso, anche perché sul tesoro degli imprenditori palermitani c’è anche un secondo catenaccio messo dalla procura. Una misura di prevenzione è scattata direttamente per Filippo Rappa e per i figli Vincenzo Corrado e Gabriele, ritenuti dall’accusa “socialmente pericolosi”.

Ma, adesso, le attenzioni sono tutte sul De Chirico. L’inchiesta, coordinata dal procuratore aggiunto Dino Petralia, è nata qualche mese fa. Dopo una ricognizione sul patrimonio fatta dal nuovo amministratore sono saltate fuori alcune tracce del quadro, attraverso la fattura di un gallerista. Vincenzo Rappa sostiene che di quel quadro aveva già parlato con il vecchio amministratore nominato dal tribunale, l’avvocato Walter Virga (pure lui coinvolto nello scandalo Saguto), e che nulla era stato mai eccepito. “È un bene che non ha nulla a che fare con il patrimonio societario”, ribadisce la difesa. Ma la procura insiste. La perquisizione scattata giovedì era arrivata dopo diversi accertamenti svolti dalla Dia. Gli investigatori ritengono di aver ricostruito i passaggi che avrebbero portato i Rappa a “spogliare” il patrimonio del De Chirico. Anche su questo si preannuncia battaglia fra accusa e difesa.

I pessimi giudici amici della mafia

corruzione

Ne ha per tutti, il pentito Carmelo D’Amico, che nell’aula della Corte d’Assise, dove si celebra un processo per un omicidio di mafia, ha detto, ancora una volta, le ‘sue’ verità. Verità che adesso sono al vaglio degli inquirenti, e non quelli del tribunale di messina, ma quelli del tribunale di Reggio calabria, perchè D’Amico, stavolta, ha tirato in ballo giudici messinesi, e competenza territoriale vuole che a indagare non sia il distretto coinvolto dalle dichiarazioni.

Ha parlato con disinvoltura di fatti che, se davvero fossero accertati, sarebbero di una gravità assoluta.
“Abbiamo corrotto qualche pubblico ministero, qualche procuratore generale, e abbiamo aggiustato qualche processo molto importante”. Così, come parlasse di quisquilie, Carmelo D’Amico, ex boss, oggi pentito, di Cosa Nostra barcellonese, ha parlato al processo che vede imputato Enrico Fumia per l’omicidio di Antonino “Ninì” Rottino, avvenuto nell’agosto 2006. Un delitto che per gli inquirenti ha segnato l’ascesa al potere del gruppo mafioso dei Mazzarroti capeggiato da Tindaro Calabrese.

Delle dichiarazioni di D’amico ne parla Nuccio Anselmo su Gazzetta del Sud.
Il pentito risponde alle domande del Pm Massara:

“Guardi – ha detto l’ex boss – io ho deciso di collaborare con la giustizia, perché sono stato sempre chiuso al 41 bis, da quando mi hanno arrestato dal 2009. Il 41 bis mi ha fatto riflettere tantissimo stando da solo, anche perché il 41 bis è un carcere duro, e niente ho deciso di cambiare vita, anche se avevo la possibilità può darsi, di uscire dal carcere, perché io ho esperienza nei processi perché abbiamo aggiustato, la nostra organizzazione ha aggiustato diversi processi, abbiamo corrotto qualche giudizio di cui ne ho parlato, abbiamo corrotto qualche pubblico ministero, qualche procuratore generale e abbiamo aggiustato qualche processo molto importante e quindi c’era possibilità che io potessi uscire dal carcere”.

Il processo ‘molto importante’, a detta del pentito, sarebbe stato quello scaturito dal triplice omicidio Geraci-Raimondo-Martino, avvenuto la notte del 4 settembre 1993 alla stazione di Barcellona: le vittime, tre ragazzi di Milazzo, furono giustiziate perchè superavano i confini territoriali del loro comune nel commettere reati, spingendosi sino a Barcellona.

D’Amico ha toccato anche l’Arma dei carabinieri con le sue ‘rivelazioni’:

“ Ho avvisato pure Carmelo Bisognano dell’operazione Icaro, l’ho avvisato io che c’era l’operazione in corso, perché avevamo saputo praticamente, tramite carabinieri corrotti che noi avevamo, che pagavamo sul libro paga dal ’90, carabinieri corrotti che era uno.. uno apparteneva alla.. alla squadra catturando latitanti, un altro era nella Dda… nella Dda che faceva la scorta.. e tanti altri carabinieri e poliziotti che sono sui libri paga, che ne ho parlato purtroppo”.

Infine, il passaggio alla Cassazione: “La nostra associazione – ha detto D’Amico – era molto ramificata a livello politico, a livello istituzionale, era una delle più potenti che c’era in Sicilia, diciamo la cosca barcellonese e anche molto sanguinaria. Noi siamo arrivati anche sino alla Cassazione a sistemare un processo molto noto. Abbiamo corrotto un giudice di Cassazione, che sono andato personalmente io insieme a Pietro Mazzagatti Nicola, e abbiamo corrotto questo giudice nativo di Santa Lucia del Mela e che risiede a Roma, abbiamo comunque per questo le dico che io ero sicuro di uscire, perché sapevo che avevamo anche l’appoggio in Cassazione di questo giudice corrotto che era in Cassazione”.

(fonte)

Eco secondo Bartezzaghi

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«Torna in mente, a questo punto, una serata passata ad Almese, in Val di Susa, dove aveva accettato di ricevere un premio, per omaggiare con affetto sincero la memoria del bravo giornalista culturale della Stampa e di Tuttolibri a cui era intitolato, Giorgio Calcagno. Esaurita la cerimonia ci fu una cena «placée» in un ristorante, allietata dalla musica di una giovane arpista che suonava in mezzo ai tavoli. La cena durò come un medio matrimonio e subito dopo il dessert lo sentii dire, all’altro capo della sala, «ora vado a bermi un whisky con Bartezzaghi». Io ero seduto a un tavolo di notabili locali, vicino all’uscita: Eco passò, reggendo borse che si indovinavano pesanti, e mi rapì dicendo a voce neppure troppo bassa: «Se non andiamo in fretta mi regalano altri libri». In una borsa trasportava preziosissimi acquisti che gli avevano recapitato lì certi librai antiquari torinesi amici suoi; in un’altra aveva alcuni esemplari dell’unica forma di editoria che attualmente non è in crisi: i libri dell’Assessore (volumi illustrati di grande peso e formato, commissionati dagli enti locali a proposito di glorie e tesori del territorio, regalati sistematicamente e con forse involontaria crudeltà a ogni personalità in visita). All’uscita del ristorante scoprii che per l’occasione disponeva di un autista: un signore suo coetaneo, molto loquace e spiritoso, che era stato comandante dei vigili urbani e che era stato incaricato, in mattinata, di andare a prendere il professore a casa. Durante il tragitto avevano molto familiarizzato, con barzellette, aneddoti, confidenze sulle famiglie e sugli acciacchi, forse anche canti: così Eco lo aveva eletto a proprio custode. L’unico bar aperto era sullo stradone che collega Almese al resto della valle, una specie di stazione di servizio, con tabaccheria, tavola calda, pompe di benzina. Trovammo un tavolino sulla terrazza esterna, in mezzo ai clienti notturni, fra i quali conviveva pacificamente una popolazione autoctona di anziani dialettofoni giocatori di carte e/o commentatori «di base» di eventi sportivi e giovani variopinti e vario-tatuati, tutti già un po’ alticci. Il dehors sopraelevato del bar dava sulla strada, su cui rombavano auto, camion e moto. Eco patteggiò le consumazioni, ottenendo le quantità e proporzioni di bevande e ghiaccio da lui preferite. Da quel momento fu a perfetto suo agio per un paio d’ore: non era mai stato là e non conosceva nessun altro, a parte me e, da poco, il comandante in pensione (strabiliato dalla familiarità stabilita con una persona di tanto rilievo), eppure era come se fosse nel suo locale preferito di Milano o Bologna.»

Vale la pena leggere il bel pezzo di Bartezzaghi su Eco e il suo prossimo.

Una ciclofficina a casa del boss

Perché è importante ricordarsi che mentre intorno molto marcisce ci sono piccoli artigiani della legalità che senza troppi strepiti compie piccoli capolavori. L’ultima è un’officina per biciclette lì dove prima c’era la mafia.

nuova_ciclofficina_paisiello_630«Nello stabile confiscato alla mafia di via Paisiello 5 nasce la “Ciclofficina Zona Loreto”: qui, grazie alla presenza costante di un Maestro biciclettaio, l’Associazione Gruppo volontari A.G.V.Onlus insegnerà a ragazzi provenienti dall’area del disagio, in special modo dal carcere del Beccaria, l’arte della riparazione delle biciclette. I ragazzi saranno monitorati da operatori del Comune durante tutto il loro percorso di reinserimento nella società.

“È molto positivo che un bene tolto alla mafia diventi uno strumento per sostenere percorsi di legalità e progetti utili per il futuro dei giovani milanesi – dichiarano gli assessori Marco Granelli(Sicurezza e Coesione sociale) e Pierfrancesco Maran (Mobilità) e Pierfrancesco Majorino (Politiche sociali) -. È importante che all’interno di questi locali sia sorta una ciclofficina, un servizio che promuove l’uso delle due ruote e della mobilità sostenibile in una città dove i ciclisti sono sempre più numerosi”.

A Milano i beni confiscati e poi riassegnati sono complessivamente 161: sono stati destinati ad associazioni del Terzo Settore e del Volontariato e utilizzati per numerose e diverse attività di sostegno alla persona e promozione della socialità: assistenza agli anziani e alle persone con disabilità, laboratori di quartiere per giovani, abitazioni per famiglie in difficoltà, negozi solidali, spazi per iniziative culturali. Nel mese di aprile si svolgerà l’edizione 2016 del Forum delle Politiche Sociali: durante questa edizione del Festival il Comune consegnerà le chiavi di tre beni, due al Centro Ambrosiano di Solidarietà (Ce A. S.) e uno alla Fondazione Padri Somaschi Onlus, che saranno destinati all’accoglienza di donne maltrattate e vittime di violenza.

Secondo l’ultimo dato pubblicato dall’Agenzia nazionale (ANBSC – 30 settembre 2015) sono 17.577 gli immobili sequestrati e 3.187 le aziende confiscate in Italia: la Lombardia è quinta con 1.266 immobili dopo Sicilia (6.916), Campania (2.582), Calabria (2.449) e Puglia (1.665); è quarta invece nella classifica delle aziende con 286 attività sequestrate e confiscate, dopo le 1.148 della Sicilia, le 529 della Campania e le 315 della Calabria.»