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Giulio Cavalli

Italia 90 e mafia lodigiana: ecco le condanne.

Ne avevamo parlato molto tempo fa (ad esempio qui) e oggi arrivano le condanne:

img_9973--676x433Dieci condanne per un totale di oltre 17 anni di reclusione sono state inflitte stamane dal Tribunale di Lodi per la vicenda Italia 90, l’azienda di Palermo che nel 2009 subentrò nell’appalto quinquennale da cinque milioni di euro per la raccolta della spazzatura, secondo la Procura e i carabinieri del Noe facendo pressioni sia sull’ ufficio tecnico sia sull’ altra azienda, anche essa di Palermo, che aveva vinto la gara con un ribasso più alto. Per gli inquirenti qualcuno usò metodi «paramafiosi» ed emersero dalle indagini anche irregolarità attribuibili all’azienda in occasione di appalti a Mulazzano, Zelo Buon Persico e Maleo. Alcuni capi d’accusa sono però già caduti in prescrizione. La pena più alta, 8 anni di carcere, è stata inflitta all’allora socio unico di Italia 90 Claudio Demma, assieme all’interdizione perpetua dai pubblici uffici. Oltre due anni per turbativa d’appalto anche a due ex componenti dell’ufficio tecnico del Comune di Sant’Angelo Lodigiano. Il municipio si è costituito parte civile e si è visto riconoscere una provvisionale immediatamente esecutiva di 173mila euro. (fonte)

A Seregno “vogliono bene” alla mafia?

tripodi-2Succede a Seregno. Il bar “Tripodi” viene chiuso dalla Prefettura. Il proprietario è la stessa persona che casualmente aveva un box pieno d’armi a disposizione delle famiglia di ‘ndrangheta del posto. Non è difficile pensare che i collegamenti tra bar “Tripodi” e mafia siano consistenti. In un paese normale un bar che puzza di mafia dovrebbe finire deserto, osteggiato, pisciato. In un paese normale. A Seregno invece hanno pensato di appenderci fuori un lenzuolo con scritto “vi vogliamo bene” e tanto di cuore da adolescenti graffiati molesti. Apologia di mafia. Una cosa così. E allora forse c’è qualcun altro da estirpare in fretta oltre al bar.

Beato quel Paese in cui i direttori pubblici lavorano troppo

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Lo dice anche la Camusso: a Caserta i sindacati hanno preso una cantonata. Criticare il direttore Mauro Felicori di “lavorare troppo” è un boomerang contro tutti coloro che lavorano nel settore pubblico, soprattutto nell’arte, che si ritrovano spesso a fronteggiare i pregiudizi di chi crede che siano dei nullafacenti dorati. Perché l’idea di un Paese in cui tutti abbiano il diritto di lavorare e in cui molti hanno la voglia di spendersi più del proprio compitino non mi sembra così malaccio, sinceramente.

#LEFT cosa ci abbiamo messo dentro

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Dice Yann Arthus-Bertrand, regista di Human: «L’umanità non si perde. Può essere positiva o negativa. Siamo capaci dell’attentato al Bataclan e allo stesso tempo di un’onda di empatia dal mondo intero per le vittime. Questa è una contraddizione profonda all’interno della quale viviamo tutti. Io vivo nel Paese dei diritti dell’uomo, con delle Ong fantastiche, Medici senza frontiere, Azione contro la fame, eccetera, e però il mio Paese è il terzo venditore di armi nel mondo.»

Ecco, per raccontare il numero di Left che oggi è in edicola si potrebbe partire da qui: raccontare il bianco e il nero di un uomo che riesce a passare da picchi di umanità ai più bassi gorghi di nefandezze. E a noi, ovviamente interessano i picchi. Il sommario del numero lo trovate qui. Fatemi sapere se vi piace.

Letteratitudine recensisce ‘Mio padre in una scatola da scarpe’

(La recensione sul romanzo ‘Mio padre in una scatola da scarpe‘. Il libro lo potete acquistare qui. L’articolo originale è qui.)

di Eliana Camaioni

539526612È una storia di famiglie, “Mio padre in una scatola da scarpe” (Giulio Cavalli, Rizzoli ed.): quella di Michele e del Nonno, composta da ‘brave persone, che lavorano e tacciono’, e quella dei Torre, simile ad ‘una marchiatura a fuoco sull’orecchio o una targhetta pinzata in mezzo alle palle come un toro’, capace di ‘allargare le regole finché non ti entrano perfettamente’. Sono le regole non scritte del paesino di Mondragone, dell’entroterra napoletano: appartenenze suggellate da battesimi di sangue e persiane chiuse, omertose e vigliacche; baci in piazza che timbrano come bestiame, e gonne da processione paesana –gonne debutto, per donne da marito, e gonne gabella, assenzi taciti di sottomissione ai boss.
‘Non guardare e non sentire è il modo più maturo e responsabile per difendere la tua famiglia e i figli che vorrai’, questa la ricetta per sopravvivere a Mondragone, paese di poche anime e tanti segreti, dal lessico silenzioso dell’abito buono esibito alla messa domenicale, di una scollatura che ti rende donna e di morti sparati, ‘morti interrotti’, guardie e ladri, corriere e corrieri.
Un affresco collettivo, nitido e tridimensionale per l’uso intenso che Giulio Cavalli fa di similitudini e metafore; ci sono caffè all’alba e turni di notte, cervelli che schizzano e mogli che aspettano, odore di salsa ed esalazioni di vino, amici che muoiono e carabinieri che archiviano.
E poi ci sono gli occhi, di chi tutto guarda e nulla vede, occhi che piangono e occhi che seccano, occhi che urlano parole non pronunciate, e picchiano più delle bastonate; occhi di bue da regista, che Giulio Cavalli stringe su ciascun capitolo, con una focalizzazione disincarnata e variabile, raccontando quarant’anni e quattro generazioni di una terra ‘così omertosa e schiava’ di cui il Nonno, agli occhi del nipote Michele, sembra essere il ‘certificato’. Michele e la famiglia coraggiosa che farà con Rosalba, secondo i dettami delle ‘brave persone’: perché ‘c’è tanta bellezza e tanto coraggio a crescere una famiglia con dignità’, lo stesso coraggio necessario ‘a rinunciare, anche ai principi se serve’. Un mos maiorum che si tramanda di Nonno in nipote, una rabbia sorda impossibile da accettare per Michele se non quando sarà nonno a sua volta, perché a Mondragone ‘la vita è molto più semplice di come la pensi: basta non fare la rivoluzione tutte le mattine’, basta sposare una donna onesta ed accontentarsi di un onesto lavoro, dribblando le ingiustizie, stando fuori dagli affari dei potenti.
Il tempo della storia vola via veloce, fra chi da Mondragone parte e chi a Mondragone resta, fra chi espatria per cercare salvezza e chi partendo fa la fortuna di chi comanda, come una sberla per chi al paese lavora e tace, ‘facendo quello che è possibile fare’; cene fra amici segnano il passo, e come un impietoso consuntivo di fine anno tirano la riga sotto le vite dei protagonisti, mentre queste si intrecciano, si intersecano, divergono, si interrompono.
Di tutti i luoghi, la spiaggia e la piazza sono elette a testimoni silenziose: di amori onesti e amori rubati, del punto di equilibrio in cui risiede la felicità perfetta, di macabri ritrovamenti, di quella desertitudine – meraviglioso neologismo – che a Mondragone ‘prende il posto dei sorrisi’.
Il termine mafia è un gas mortale che ammorba l’intera narrazione, ma compare solo a metà del romanzo, nell’epoca in cui di mafia finalmente si osa parlare: e sarà un boato, l’esplosione di quel gas, per bocca di un figlio che si rivolge al padre: ‘Quelli che fanno finta di niente con il tuo amico morto ammazzato sono mafiosi!’ perché è mafioso ‘anche chi non ammazza, spende soldi guadagnati ammazzando la gente’.
Uno scatolo da scarpe, una morte tanto ingiusta quanto ingiustificata, indica la fine di una storia iniziata con una fine che era un inizio: perché ‘per uno cauto di natura la fine è un punto di domanda’ si legge nell’incipit, ‘per uno più arrogante è un vinto lasciato per terra’.

Si va a fare un po’ di colonialismo in Libia

Libia

“Dopo aver giustamente ribadito per mesi che non avremmo mai mandato soldati in Libia senza l’invito di un governo di unità nazionale la situazione di stallo diplomatico e l’evoluzione della situazione militare sul terreno costringono il governo a cambiare idea e a decidere di intervenire senza richiesta di intervento da parte di un esecutivo libico, accordandosi con le tribù e le milizie dell’area di tradizionale interesse energetico italiano, ovvero la Tripolitania in cui si trova il terminal Eni di Mellitah, mentre le forze speciali francesi e inglesi sono schierate in Cirenaica a sostegno delle forze del governo di Tobruk. Una scelta di divisione del territorio per aree di influenza dal sapore neocolonialistico”.

Sono le parole di Leonardo Tricarico, già capo di stato maggiore dell’Aeronautica, e forse meriterebbero una discussione. No? (l’intervista è qui)