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Giulio Cavalli

Cosa c’entrano Formigoni e Lady Gaga con le primarie di Milano

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Ma andiamo con ordine. A Milano sono andate in onda le primarie del centrosinistra. Meglio: sono andate in onda le primarie tra i nostalgici idealisti e visionari e dall’altra parte il Grande Partito della Politica Nazionale sempre in cerca dei manager più brillanti per la propria rete di vendita del consenso. Da una parte ci stavano i due candidati specializzati nell’umanità dei numeri (Majorino) e nell’etica della serietà (Balzani) mentre di là il manager più manageriale del momento, il Bertolaso in salsa renziana, il candidato Giuseppe Sala, l’universalmente esposto, macinava tutt’altro: fili di governo, sponsor importanti e quella faccia un po’ così di quello che ci sta facendo un piacere ad essersi candidato e pure “abbassato” a primeggiare nelle primarie prima della corsa vera. Quelli facevano le primarie e lui aveva già superato il colloquio di assunzione. Per dire.

Per carità, niente contro Giuseppe Sala: al di là della piccola spinta di un EXPO al posto dei gazebo come campagna elettorale, di un bilancio finale (dell’Expo) che ha acceso una difformità di interpretazioni nemmeno fosse stato il quinto vangelo e la sfortuna di avere avuto qualche collaboratore infingardo mi dicono comunque che sia uno bravo a fare di conto e hanno pensato bene di farne l’amministratore delegato di Milano. Con un piccolo neo: che Sala sta al progetto Pisapia (o comunque a quello che gli elettori hanno creduto di vedere nell’era Pisapia) come Formigoni potrebbe stare a Lady Gaga: possono scimmiottarne le mossette ma il risultato finale rimane piuttosto distante. Ah, c’è un altro piccolo neo: Sala ha vinto le primarie di centrosinistra senza essere di sinistra e forse appena appena di centro. Niente di grave, eh, sta benissimo nel nuovo corso del Partito Unico ma Milano ha il cuore morbido e chissà perché ci sperava ancora che questa cosa del Partito della Nazione fosse solo una maldicenza.

(Continua qui su Left)

Finalmente

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Sei condanne a pene tra i due e i sei anni e quattro mesi. È quanto ha deciso il gup di Palermo, Angela Gerardi, gli imputati che rispondevano del reato di traffico di essere umani. Si tratta della prima sentenza italiana che riconosce l’esistenza di un’organizzazione che gestiva il traffico dei migranti. Il processo, celebrato in abbreviato, nasce da un’indagine coordinata dal procuratore aggiunto di Palermo, Maurizio Scalia, e dai pm Gery Ferrara e Claudio Camilleri.

I sei imputati, in carcere dal 2014, sono tutti eritrei. Sono la cellula dell’organizzazione che gestiva la permanenza in Italia dei migranti giunti dalla Libia e il loro trasferimento eventuale in altri Paesi europei. Sul banco degli imputati, che rispondono di associazione a delinquere finalizzata al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, anche il primo pentito tra i trafficanti di esseri umani, Nuredin Atta, condannato a 5 anni, al quale il gup ha riconosciuto la speciale attenuante prevista per i collaboratori di giustizia.

A 4 anni è stato condannato Tesfahiweit Woldu, a 6 anni e 4 mesi Samuel Weldemicael, a 6 Mohammed Salih, a 2 Yared Afwerke, a 2 e 4 mesi Matywos Melles. Assenti sul banco degli imputati, perché irreperibili – il processo a loro carico è sospeso – i capi dell’organizzazione tra cui l’imprendibile Ermis Ghermay, che si nasconderebbe in Libia. Proprio per la mancanza dei tre il gup ha escluso l’aggravante della transnazionalità, ma ha riconosciuto l’esistenza dell’organizzazione. Il processo nasce dall’inchiesta denominata Glauco che ebbe l’input dopo il naufragio del 3 ottobre del 2013 davanti alle coste di Lampedusa in cui persero la vita 366 migranti. I superstiti raccontarono i loro viaggi e diedero agli investigatori gli elementi per risalire ai capi e ai gregari della banda di trafficanti.

(fonte)

La Casta

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La principessa di Danimarca accompagna i figli a scuola. C’è anche un simpatico cane di scorta, eh.

Colpe dei padri e i loro figli

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Dai, davvero siamo seri. Ora il sindaco 5 Stelle di Bagheria (beccato insieme all’assessore con un abuso edilizio) si difende dicendo che “le colpe dei padri non devono ricadere sui figli” (qui).

Ma davvero? Ma dopo che ci siamo quasi tutti indignati (giustamente) per la Boschi e suo padre?

Dai. Su.

Si può dunque dire che Leni, al momento fa una vita da cane

«La protagonista femminile dell’azione, nella prima parte, è una donna di quarantotto anni, germanica: alta m. 1,71, pesa Kg 68,8 (in abito da casa), perciò ha solo 300– 400 grammi meno del peso ideale. Ha occhi cangianti tra il blu cupo e il nero, capelli biondi molto folti e lievemente imbiancati, che le pendono giù sciolti, aderendole al capo, lisci, come un elmetto. Questa donna si chiama Leni Pfeiffer, nata Gruyten, e per trentadue anni, naturalmente con interruzioni varie, ha subito quello strano processo che si chiama processo lavorativo: per cinque anni come impiegata priva di ogni preparazione professionale nell’ufficio del padre; per ventisette come operaia, ugualmente non qualificata, nel ramo della floricultura. Poiché, in un momento inflazionistico, si è disfatta con molta leggerezza di una cospicua proprietà immobiliare, una non disprezzabile casa d’affitto nella città nuova, che oggi varrebbe non meno di centocinquantamila marchi, è piuttosto priva di mezzi, dopo aver lasciato il suo lavoro senza un serio motivo, non essendo né vecchia né malata. Poiché nel 1941 è stata moglie per tre giorni di un ufficiale di professione della Wehrmacht, oggi riscuote una pensione di vedova di guerra, cui non si è ancora aggiunta una pensione dell’assicurazione sociale. Si può dunque dire che Leni, al momento – e non solo dal punto di vista finanziario – fa una vita da cane, specie da quando il suo amato figliuolo sta in galera».

(Foto di gruppo con signora, di Heinrich Böll)

Quella brutta risposta de Il Manifesto

Che brutta la risposta de Il Manifesto ad un commento ricevuto in bacheca. Trovarsi in una situazione difficile è legittimo ma rivendicarlo in questo modo beh. Non so. Fate voi. Il commento è questo qui:12513588_10203819190839798_9061754486115056486_o

Vorrei passare tutta una notte a spiare la felicità degli altri. Come stasera, in stazione.

Chissà che forma ha la felicità nei periodi più grigi, quando è di cattivo gusto mostrarla, quando ci si sforza ad essere felici con moderazione per non disturbare l’aria tutto intorno anche se avresti voglia di saltare a prendere tutte le farfalle che ci sono in giro, con la bocca.

Chissà quei due che stavano sul binario quindici di Bologna, io con una valigia piena di libri e di fianco a me un padre al telefono che chiedeva alla figlia di provare a non addormentarsi, di sforzarsi ad aspettarlo da sveglia, e quegli altri due, giovanissimi anziani, che sorridevano come se gli fosse scoppiata una gazzosa in mezzo al cuore.

Come sono belle le persone che non hanno paura a mostrarsi felici. Come sono forti. Sono davvero l’orma più resistente della nostra specie.

Venghino signori venghino! È arrivato Padre Pio!

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“Forze speciali, materassi ammortizzanti (dovesse rovinarsi) e teche antiproiettile (arrivasse il pazzo), così Padre Pio è arrivato a Roma. E per sette giorni (fino all’11 febbraio) ogni giorno, saranno impegnati almeno 800 tra poliziotti, carabinieri e finanzieri per garantire la giusta tranquillità al suo soggiorno nella capitale (quasi fosse vivo!). L’ha voluto Francesco il frate di Pietrelcina, per scuotere questo Giubileo troppo sottotono. Deve aver pensato a quei trecentomila fedeli che nel 2002 avevano affollato piazza San Pietro per la canonizzazione. E allora ha organizzato il tour, sette giorni di passione tra processioni, messe e ostensione del  corpo di uno dei “santi” più discussi dei nostri tempi e meno “misericordiosi” che io ricordi di aver studiato. Ancora oggi alter Christus per i suoi i devoti, falso messia per la nomenklatura di allora, il cappuccino di Petralcina da vivo fu al centro di grandi polemiche e da morto di avventure persino incredibili, se non fossero vere”.

Ilaria Bonaccorsi ne scrive qui.