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Giulio Cavalli

I frammenti che hanno punto

frammenti

Adamantia è una lettrice. Una di quelle che scompare nelle statistiche di questo Paese in crisi di lettori ma poi ti rinfranca con il mondo perché la incontri alla presentazione di un tuo libro o alla prima di un tuo spettacolo. Ci incrociamo poco. Ci si scrive ogni tanto. Quando la incontro, ogni volta, mi regala un libro. Insomma, Adamantia mi segue e conosce da anni e per questo le sue osservazioni sono fitte, precise. Adamantia ha letto ‘Mio padre in una scatola da scarpe‘ e mi ha inviati i frammenti che secondo lei pungono nel libro. In elenco. Così. E mi sembra una cosa talmente bella che li appoggio qui:

Un sospiro a forma di banalità
Ha le scarpe che chiedono scusa
E’ una casa dove si è consumato un urlo che non è mai passato
Può succedere che tu non te ne accorga ma sei già sporco di bianco o sporco di 
nero
Spalmata sul pavimento come un cadavere sgocciolato dal soffitto
Ilpomeriggioelasera tutti attaccati
Il riso dei servi è bava
La chiesa si beve tutta la piazza
Il babbo è un tuono afono, la mamma un fiore che cerca un fosso
Massimiliano ha in testa una visione talmente molle che sembra uscirgli dal 
naso
Il parroco che conosce i peccati e li rivende al mercato del compromesso
Chissà come fa Massimiliano ad aprire un sorriso così largo e non volare via
Spettinato nella sostanza
Non si può spostare l’asticella dei valori in nome della stanchezza
Giovanna è una donna punita. Troppo compita, troppo edicata, troppo recintata 
per essere solo una questione di equilibrio piuttosto che di dolore.
Ora è matematicamente imbarazzato.
Esce con un abbraccio che è partito con il suono della campanella.
Il loro amore è un amore antico … tra persone che sono cresciute imparando ad 
aggiustare le cose senza buttarle
Ecco il sonno che cammina
Il clic del telefono di un figlio lontano è un ferro da uncinetto
Quante cose succedono nelle persone mentre sembra che fuori continui a non 
accadere niente
Un equilibrio troppo precario per rischiare un rumore
La burocrazia carabiniera non ha la pancia per accogliere una frase così 
diretta
Dolori rallentati
Rinchiusa dentro il suo scheletro
Ci si abitua a tutto, tranne che alle attese
Dieci chili di rughe che le si sono appiccicati addosso
(La lucciola) è un lampione piantato su un pianeta largo come una mela.
La sua visione ha salvato tutti
Decidi di fare pace col tuo dolore. Come se fosse parte del tuo corpo … 
attaccato come un dito in più.

Quel prete a Savona che incenerisce il giubileo

arnasco

Eh, sì. Sempre meglio. Questa chiesa che ci vorrebbe insegnare a fare famiglia. La notizia sconcertante è qui:

«Nel giorno del dolore, scoppia una sconcertante polemica ad Arnasco, il paese del Savonese dove sabato scorso una fuga di gas in località Bezzo ha provocato il crollo di una palazzina con cinque persone morte ed una donna ancora gravemente ustionata che lotta per sopravvivere.

A San Bernardino di Albenga, una folla commossa ha partecipato ai funerali del 49enne Marco Vegezzi e del 71enne Edoardo Niemen; ma alle 15, il rito previsto ad Arnasco per l’addio al 76enne Dino Andrei e  sua moglie Aicha Bellamoudden, di 56 anni, di origine marocchina, ha vissuto momenti di tensione. Don Angelo Chizzolini, parroco di Arnasco ma anche di Vendone e Onzo, il paese dove, quest’estate, aveva asserito che, piuttosto che ospitare migranti, avrebbe bruciato la canonica, si era infatti rifiutato di celebrare il rito per una persona di fede musulmana, trascurando la realtà, e cioè che Aicha, che risiedeva da qualche tempo ad Arnasco, aveva intrapreso un percorso di conversione al cristianesimo a  cui mancava solo la confermazione con il rito del battestimo.

Solo l’intervento del vescovo di Albenga monsignor Giacomo Borghetti, che ha benedetto tutte e cinque le salme delle vittime e ha formalmente imposto a don Chizzolini di celebrare il funerale, ha permesso che venisse celebrata la messa nella chiesa di Nostra Signora Assunta; ma nel corso del rito, tra lo sconcerto dei tanti parrocchiani presenti, il parroco ha citato sempre e solo il nome di Dino Andrei, escludendo la benedizione al feretro della moglie; rifiuto esplicitato anche durante la cerimonia della sepoltura nel piccolo cimitero del paese. In tutto, per cinque volte il parroco ha asperso con l’acqua benedetta la bara dell’uomo, ma non quella della donna».

#Left cosa ci abbiamo messo dentro

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Eccoci. L’editoriale di Corradino Mineo è qui. Il sommario del numero lo trovate qui. Io mi sono dedicato alla “mia” Milano e le primarie e ho raccontato la vicenda e gli ultimi sviluppi sul caso di Attilio Manca. Insomma mi sembra un bel numero. Sì.

Il problema del sistema bancario? L’etica. Semplicemente.

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Etica. Manca l’etica. C’è bisogno di etica. Urge acquistare sul mercato interno e internazionale dosi massicce di etica, a qualsiasi costo. Altrimenti è lo sfascio, il disastro, la tragedia. Il mondo dei risparmiatori allo specchio si racconta e ci racconta, ogni giorno, in un impressionante crescendo, l’imponente e drammatica visione dei retroscena che hanno prodotto il crack delle banche popolari, l’Etruria di Arezzo in prima fila. Non bastano le rassicurazioni dagli scranni del governo a placare gli animi, ad acquietare gli spiriti dei truffati, dei raggirati, dei correntisti presi per i fondelli dagli istituti che, sul territorio, rastrellavano risparmi e li immettevano in giochi pericolosi e, per lo più, perdenti.

(Nicola Tasco qui)

I nuovi affiliati alla renzicrazia

Verdini

Io non so se vi è capitato di leggere chi siano i verdiniani nominati dal governo. Per fortuna ne scrive De Angelis qui:

«Eva, il primo nome. Destinata alla vicepresidenza della commissione Finanze. Eva è la senatrice Eva Longo, una delle colonne del Pdl di Nicola Cosentino, approdata in Ala proprio su promessa di un incarico parlamentare. Appagato l’appetito anche Vincenzo Compagnone e di Pietro Langella, altro campano eccellente. Pietro Langella in una relazione per lo scioglimento del Comune di Boscoreale era considerato “esponente dell’omonimo clan”. Omonimo perché suo padre Giovanni, detto “il Paglietta”, era un boss trucidato nel 1991 per ordine della “cupola” agli ordini di Carmine Alfieri, capo della Nuova Famiglia. Langella, che diversamente da Cosentino non ha avuto problemi con la giustizia, da allora di carriera ne ha fatta approdando a palazzo Madama col Pdl e ora approdando alla vicepresidenza della commissione Bilancio. Si chiede Roberto Speranza, leader della minoranza dem: “Forse è il caso che Renzi ci dica se esiste una nuova maggioranza politica che sostiene il governo con Verdini dentro. Se è così si apra un dibattito pubblico e in Parlamento”

La maggioranza invece c’è, ma non si dice. Si capisce dai posti: “Tre in quota Ala, una presidenza alle Autonomie, la Giustizia ad Alfano”. È questo l’accordo raggiunto nelle stanze del capogruppo Zanda. Tradotto dal politichese: il Pd, pur di trovare la quadra, rinuncia a una presidenza di Commissione, per compensare le Autonomie e per lasciare tre vicepresidenze ai verdiani. L’accordo prevedeva Antonio Fravezzi ai Lavori pubblici ma poi, una manovra delle opposizioni lo fa franare, consentendo di rimanere presidente ad Altero Matteoli, uno che con Denis Verdini ha sempre avuto rapporti eccellenti».

Un regalo (se vi piace): leggo il secondo capitolo

pennac

Come promesso, ‘Mio padre in una scatola da scarpe’ diventa podcast con la lettura a voce alta. Ha qualcosa di magico, la lettura di un libro, perché mi tiene in bilico tra i miei diversi lavori, tra la scrittura e il palco, e per questo ci tengo moltissimo. Quindi pian piano aggiungeremo tutti i capitoli, un cammino svolto insieme, una compagnia prima di dormire. Eccoci al secondo, “le botte in piazza”, che rientra personalmente tra i miei preferiti.
Il podcast è anche facilmente scaricabile da iTunes qui (oppure abbonarvi via mail qui). Ma tra qualche giorno vi racconto anche come le portiamo sul palco. Restiamo in contatto. Buon ascolto.

Chi ha ucciso Nino e Ida Agostino? C’è un indagato. Intanto.

ninoagostino

Ne avevamo scritto un bel po’ di tempo fa qui. Ora Salvo Palazzolo scrive di importanti novità:

Ventisette anni dopo, c’è un nuovo indagato per l’omicidio dell’agente Nino Agostino e di sua moglie Ida Castelluccio, trucidati il pomeriggio del 5 agosto 1989. E’ l’ex agente della squadra mobile di Palermo Giovanni Aiello, “faccia da mostro” com’è ormai chiamato negli atti giudiziari. Fra qualche giorno, sarà il protagonista di un confronto all’americana in tribunale: lui, accanto ad alcuni uomini che gli assomigliano, magari degli attori truccati ad arte; dall’altra parte, il signor Vincenzo Agostino, il papà del poliziotto ucciso. Pochi giorni prima del delitto, un uomo con la “faccia da mostro” andò a casa degli Agostino, a Villagrazia di Carini: “Mi disse che era un collega di mio figlio”, racconta Agostino. Adesso, ventisette anni dopo, dovrà dire se è Giovanni Aiello, l’ex poliziotto al centro di diverse indagini sulla stagione dei delitti eccellenti di Palermo. Il confronto si terrà il 18 febbraio.

L’UDIENZA
“Sono tornato a sperare”, dice Vincenzo Agostino, che non ha mai smesso di cercare la verità sulla morte del figlio. Ieri mattina, in tribunale, si è tenuto l’incidente probatorio per il delitto dell’estate 1989, sono indagati due mafiosi, Gaetano Scotto e Antonino Madonia. “Agostino era ritenuto un cattivo”, dice il pentito Vito Galatolo rispondendo alle domande dei pubblici ministeri Nino Di Matteo e Francesco Del Bene. “Stefano Fontana mi rivelò che Angelo Galatolo l’aveva visto all’Addaura, il giorno del fallito attentato a Falcone”. Galatolo non sa cosa stesse facendo Agostino, non dice se stava in mare o sugli scogli. Ma ribadisce: “Lui come Emanuele Piazza cercava latitanti, erano i cattivi per noi”. Piazza fu sequestrato e ucciso nella primavera del 1990. Galatolo è un fiume in piena, parla anche del tritolo acquistato per l’attentato al pm Nino Di Matteo. Dice: “Il discorso è ancora aperto, dottore. E’ sempre in corso. Fino a quando non si trova l’esplosivo lei è a rischio”.

I COMPLICI
Nelle parole del figlio di Enzo Galatolo, uno dei fedelissimi di Totò Riina, c’è il racconto di una lunga stagione di morte: “Fra il 1984 e il 1989 la base dei sicari di Cosa nostra era vicolo Pipitone, all’Acquasanta. Da lì partirono i gruppi di fuoco per uccidere Chinnici, Dalla Chiesa, Cassarà e Natale Mondo”. All’epoca, Vito Galatolo era un ragazzino. “So che mio padre riceveva persone di un certo livello in vicino Pipitone”. Collegato in videoconferenza da una località segreta cita l’ex superpoliziotto Bruno Contrada (“Era accompagnato dall’avvocato Marco Clementi, che però restava fuori”), poi Giovanni Aiello (“Quando facevo il monello, mio padre mi diceva: stai attento che faccio venire il mostro”).  Galatolo cita anche l’ex capo della squadra mobile Arnaldo La Barbera (“Era a libro paga dei Madonia”) e un sottufficiale dei carabinieri: “Il maresciallo Salsano si occupava di tenere lontani occhi indiscreti, si metteva davanti al vicolo oppure ci comunicava strani movimenti nel quartiere”.  Un quadro desolante di rapporti fra mafia e pezzi delle istituzioni, in una città collusa. “Oggi, siamo più vicini a un processo per l’omicidio Agostino”, dice l’avvocato Fabio Repici, legale di parte civile della famiglia Agostino. L’udienza è stata presieduta dal giudice Marina Pino. “Ogni volta che Aiello veniva in vicolo Pipitone poi accadevano degli omicidi eclatanti a Palermo”. Galatolo conferma le accuse che alcuni giorni fa aveva fatto un altro collaboratore di giustizia, Vito Lo Forte, citato anche lui all’incidente probatorio: “Madonia e Scotto hanno agito con Giovanni Aiello, che subito dopo l’omicidio aiutò i due a distruggere la moto usata. Li fece scappare a bordo di un’auto pulita per non destare sospetti”.

(fonte)

I “sempreverdi” Santapaola a Catania

nittosantapaola

(fonte) La pressione delle mani dello Stato questa volta ha piegato il cuore finanziario e patrimoniale di Cosa nostra catanese. Il colpo è stato assestato direttamente ai vertici della “famiglia”: l’entourage criminale è quello legato a Irene Santapaola, alla figlia di Salvatore Santapaola fratello – quest’ultimo – del capomafia Nitto deceduto nel 2003. Sedici persone sono finite nell’elenco di un’ordinanza di custodia cautelare e molte società sono state strappate al controllo del Clan Santapoala Ercolano. La Squadra Mobile di Catania sta eseguendo una serie di arresti e sequestri. Gli indagati sono accusati a vario titolo di associazione mafiosa, furti e intestazione fittizia di beni. L’inchiesta coordinata dalla Dda di Catania ha radiografato i capi della piramide della cosca Santapoala Ercolano: in particolare hanno fotografato l’interessamento (ormai diventato abitudine) dei rappresentanti del gotha della famiglia a investire nel settore economico, attraverso la “ripulitura” in attività finanziare e commerciali del denaro sporco.

Nel corso dell’operazione sono stati sequestrati (misura preventiva) diverse società che gestiscono impianti sportivi, nel settore della ristorazione, parcheggi e autolavaggi e anche uno stabilimento balneare. Il valore del patrimonio strappato al circuito mafioso ammonta a svariati milioni di euro.

Ancora una volta l’indagine ha portato alla luce tra le attività illecite poste in essere dalla famiglia mafiosa quello del “recupero crediti”, il creditore invece di rivolgersi ad avvocati che cercheranno di riottenere i debiti attraverso gli strumenti previsti dalla legge chiede “supporto” a boss o esponenti della criminalità organizzata che con i tradizionali mezzi di intimidazione e minaccia cercherà di “recuperare” le somme, di cui una fetta entrerà nelle casse del clan.

Gli arrestati:

Roberto Vacante, classe ’63

Santo Patanè, classe ’69

Salvatore Caruso, classe ’54

Salvatore Di Bella, classe ’67

Giuseppe Massimiliano Caruso, classe ’81

Francesco Russo, classe ’73

Danilo Di Maria, classe ’70

Giuseppe Celestino Vacante, classe ’59

Irene Grazia Santapaola, classe ’74

Mario Aversa, classe ’72

Maria Santanocito, classe ’50

Pietro Musumeci, classe ’65

Giuseppe Caruso, classe ’81

Nunzio Di Mauro, classe ’67,

Nunzio Giarrusso, classe ’70,

Pietro Augusto Bellino, classe ‘71

Un’intervista. Su tutto.

intervista

Dialoghi Resistenti tra Ultimo Teatro Produzioni Incivili e Giulio Cavalli (fonte)

Ciao Giulio, benvenuto tra noi. Sono felice che un uomo come te, che ha deciso di metterci la faccia in prima persona di fronte al cancro – chiamato banalmente mafia – abbia aderito a questa nostra operazione di conoscenza reciproca e di scambio, tra coloro che si muovono giorno per giorno nella creazione del migliore dei mondi possibili e di questa società – che sempre più – dimentica i propri figli ed i propri padri, in nome di una giustizia e di uno status che sembra essere incancrenito, malato, alla deriva.

Come primo passo, vorrei che tu mi raccontassi chi è Giulio? Da dove viene? Quali le sue origini? Quali le sue aspettative?

Vengo dal profondo nord, dalla piccola provincia ultracattolica e medioborghese che sogna di sculettare come un città. Forse molto del fastidio per l’oppressione intesa in tutti i sensi nasce proprio dal fatto di essere cresciuto in un luogo in cui l’osare è di per sé sempre sconveniente. Fin da piccolo ho cominciato a studiare pianoforte, ho sempre amato la lettura e poi ho scoperto quel magico mondo che è il teatro dove entrambe le cose possono meravigliosamente convivere. E mi ci sono ritrovato dentro.

Autore, attore, scrittore, giornalista: quale il tuo obbiettivo nella società? E quali sono i risultati delle tue operazioni di denuncia e/o di sensibilizzazione?

Sinceramente il mio obbiettivo è semplicemente osservare e raccontare le storie che credo valga la pena raccontare. Non ho mai pensato al fine se non alla bellezza. Bellezza nel suo senso più etico e morale, quella bellezza che riesce a salvare e salvarci dalle brutture più ostinate. Devo ammettere che ancora oggi molto spesso rimango stupito di quanta forza possano avere le parole.

Perché hai scelto il teatro per parlare di mafia?

Perché il teatro non ha mediazioni: c’è l’attore, la sua parola, il pubblico. Basta. Nessuno si può infilare in mezzo. Quindi è il luogo più genuino dove poterci mettere la faccia e dare anche a chi ti ascolta la responsabilità di ascoltare nomi e cognomi. Usciti da un teatro non si può dire «non sapevo».

Dopo le minacce subite per il tuo monologo “Do ut Des”, ti è stata assegnata una scorta. Cosa vuol dire per un uomo di libertà, vivere sotto protezione?

Sinceramente questa moda di scorte e scortati mi lascia piuttosto indifferente. Le privazioni alla propria libertà in questo Paese sono molte e molto più quotidiane di quello che si pensa. Non credo che una persona sotto protezione debba per forza avere un’eroicità maggiore rispetto ad un padre di famiglia che fatica a mantenere la propria casa o ai tanti piccoli o strazianti soprusi che ognuno di noi deve ingoiare nella vita. Vivere sotto protezione è diventato un circo a cui non mi interessa partecipare.

Hai dei rimpianti, rispetto alle scelte che hai fatto? Quali i fallimenti? Quali i successi?

Rimpianti moltissimi. Ma mi ci sono talmente affezionato che forse rifarei gli stessi errori per non privarmi di loro. I fallimenti invece credo che siano dei sentimenti che hanno bisogno di sedimentare e quindi posso averne avuto molte sensazioni ma sarà il tempo, più di me, a setacciarli e mettermeli sotto al naso nei prossimi anni. Di sicuro ho cercato sempre di non farmi accalappiare nelle diverse correnti che mi avrebbero voluto offrire garanzie. Se dovessi sentirmi garantito diventerei muto.

Da giornalista, come vivi la manipolazione che se ne fa nell’informazione dei media Italiani? Quali le sue origini? Quali i suoi risultati?

L’aspetto peggiore della nostra classe giornalistica è l’autocensura. Qui siamo un gradino oltre la paura, siamo nel campo del servilismo. Si scrive, o meglio non si scrive, ciò che non smuove troppo i poteri in campo. Brutta cosa.

Rispetto alla lotta contro la mafia e la mentalità mafiosa, qual è – secondo la tua esperienza – il ruolo dello Stato e quale, il ruolo del comune cittadino?

In realtà una buona lotta contro le mafie prevederebbe nessuna distinzione tra cittadini e Stato ma la piena consapevolezza dell’uno e dell’altro di essere la stessa cosa. Il cittadino non è mai ‘comune’ a meno che non scelga di esserlo per vigliaccheria.

Appurato che il mondo della mafia, non è più un mondo relegato all’ignoranza, al sud Italia e alla violenza fisica del potere o di un certo tipo di potere, ma che anch’esso si è “evoluto” in modo più raffinato e colto, “contribuendo” così alla creazione di questa società che noi tutti viviamo: chi sono oggi i mafiosi e – sempre che sia possibile – come si identificano? E quali i loro campi d’azione, i loro metodi, le loro tecniche?

Sono coloro che credono che si possa usare la minaccia e l’intimidazione per raggiungere i propri scopi personali a danno del pubblico. La mafia, dai per sé, non è molto diversa nella sua natura dai molteplici egoismi che si solidificano in sacche di potere e oligarchie. Pesa solo la differenza della forma dell’intimidazione ma non la sostanza. E sui grumi privatistici direi che il nord Italia ha di sicuro la leadership e quindi trovo normale che le mani ci si trovino così bene.

Cosa consigli a coloro che pensano che le mafie, non siano un problema che riguarda tutti?

Gli chiederei di guardare fuori dalla propria finestra, sotto dal proprio balcone per scoprire quanto vivano in città piene di case invendute, faraoniche opere rimaste vuote, ipermercati così vicini l’uno all’altro oppure di bar e pizzerie bellissimi e vuoti. Dove c’è una città “dopata” significa che ci sono soldi che devono nascondersi prendendo altre forme. E spesso dietro c’è la mafia.

Chi sono le vittime della mafia?

Tutti coloro che non possono aspirare ad esercitare il diritto di avere diritti. Quindi molte di più di quelle che comunemente pensiamo.

Cosa rende la mafia così potente e cosa la rafforza?

La convergenza di interessi con un pezzo di politica, di imprenditoria e di borghesia. La mafia per alcuni è il socio migliore che possa capitare.

Come uomo di parola e di scrittura, hai un legame forte con il mondo del web e soprattutto con i social network. Quale senso dai a tutto questo comunicare – giornalmente e passo passo – i tuoi pensieri o le tue filosofie? Ed a cosa serve o a cosa dovrebbe servire l’incontro delle diversità all’interno del mondo virtuale?

Non vedo differenza tra il raccontare una storia su un libro, in uno spettacolo o dentro un blog. Mi interessa l’esercizio della parola e della memoria. In tutte le sue forme. Ritengo il web un luogo in cui stanno persone reali, come un ristorante, un chiesa o un teatro. Appunto.

Quanto, il teatro, subisce i condizionamenti della società ed in che modo?

Sempre, anche quando non se ne accorge. Uno spettacolo teatrale è uno pezzetto di vita vissuta che vogliamo mostrare agli altri perché ci appare così spaventosamente significativo.

Come definisci i tuoi spettacoli?

Mi dicono che siano civili. Io preferirei “incivili”, visto la stomachevole situazione del civilismo e del teatro in Italia.

Come vedi la situazione dei finanziamenti alla cultura ed a cosa porta questo processo – quasi clientelare –, sul lato etico e pionieristico?

Ma come possiamo aspirare ad una buona culturale se ci troviamo di fronte alla peggior classe dirigente degli ultimi cinquant’anni? Com’è possibile parlare di teatro con politici che valgono un’unghia dei loro funzionari e perseguono solo posizioni all’interno della loro ristretta realtà partitica? Il teatro va maneggiato con cura e sapienza.

“Mio padre in una scatola da scarpe” è il tuo nuovo libro, ma anche il tuo nuovo reading. Un romanzo che prende ispirazione dalla famiglia Landa. Perché hai scelto proprio loro e cosa si cela dietro la frase che si trova in copertina “Capita a tutti l’occasione di essere giusti”?

Perché credo che mi sia necessario affezionarmi alle storie minime che non hanno bisogno di grandi volumi o ricercati aggettivi per arrivare comunque al cuore. La vicenda della famiglia Landa ci descrive quanto sia difficile essere giusti. Per tutti.

Chi sono – per la maggior parte e senza doverne fare un ammasso informe – i politici che ci governano oggi e chi dovrebbero essere in realtà gli uomini e le donne di politica?

Sono quelli che governano con i sodali di Marcello Dell’Utri, gli amici di Nicola Cosentino e i figliocci (fieri) di Andreotti. Serve dire altro?

Cos’è il coraggio?

La consapevolezza di avere paura. E gestirla.

Uno degli argomenti che mi piacerebbe affrontare, è il fenomeno di pentitismo, cioè quel fenomeno che ha sostituito la dicitura “collaboratori di giustizia”, probabilmente molto più giusta e meno patetica. Certo, non dico che in alcuni casi non ci sia stata una sorta di redenzione e ammissione dei propri peccati o per meglio dire delle proprie atrocità, ma come tu ben sai, “il confino” di molti boss in altre regioni, ha permesso loro di prenderne possesso, ricreando quello strato di potere che con il tempo ha permesso loro, di invadere il nord con le stesse dinamiche sanguinarie e mafiose, già presenti quasi da tre secoli nel sud Italia.

Dove tale prassi, cioè l’utilizzo dei pentiti senza una corretta gestione e certezza che lo siano veramente, ma solo come mezzo di smantellamento delle ‘ndrine o delle cosche o dei clan, mostra le sue falle?

Per questioni di lavoro mi è capitato negli ultimi anni di interessarmi del fenomeno dei falsi pentiti, vere e proprie teste di ponte tra la criminalità organizzata e gli uomini sotto protezione. Devo ammettere che il sistema ha delle falle che sicuramente chiederebbero una riorganizzazione. Al di là del fatto che la pratica del confino sia stato un enorme errore storico di cui ancora oggi paghiamo le conseguenze c’è il problema di una sicurezza che viene garantita in modo troppo discrezionale. E così finisce che veri “collaboratori di giustizia” si trovino spesso in serio pericolo mentre i pentiti per calcolo usufruiscono di tutti i privilegi.

Nella storia internazionale delle detenzioni, l’Italia non ha proprio una posizione a suo vantaggio. Più volte sanzionata per il degrado ed il maltrattamento che si subisce al suo interno, continua a ripudiare la pena di morte, ma gestisce e condanna “i fuori legge” con l’Ergastolo. Naturalmente il subire il “fine pena mai”, forse a molti può sembrare giusto, ma in molti dei casi – così come descrive bene Carmelo Musumeci, condannato all’ergastolo ostativo – la punizione è molto più grave del reato. E vivere rinchiuso a vita, senza la possibilità di quella reintegrazione che la legge italiana prevede, può essere molto più crudele di una sedia elettrica o di una iniezione letale. Il giudicante – con molte sfumature diverse – assume tutti gli aspetti del carnefice.

So, che l’argomento è molto più complesso della domanda che ti pongo, ma come pensi vengano gestite – in linea di massima – le carceri? E dove esse non rispettano i buoni propositi – cioè il reinserimento nella società – che tanto viene sbandierato? In breve. Quali sono quei limiti oggettivi che non possono sicuramente ottenere altri risultati?

Non possiamo correre il rischio di combattere l’inciviltà con l’inciviltà e nemmeno la violenza con la violenza. Credo in uno Stato che riesca ad essere guida e ispirazione per il valore etico che riesce ad esprimere nelle proprie scelte. Devo ammettere che la mia esperienza personale di vita con tutte le limitazioni che ho dovuto affrontare per la mia protezione mi spingerebbero ad una risposta vendicativa. Ma sarebbe ingiusto. Facciamo in modo, piuttosto, che il reinserimento sociale parta da una netta presa di distanza con il proprio passato criminale e un reale servizio alle indagini e alla giustizia. Tieni conto che molto spesso il figlio di un mafioso nasce e cresce dentro una scala di valori completamente distorta e non ha gli strumenti culturali per riconoscere il bene dal male, il giusto dall’ingiusto: credo che la detenzione debba essere la scoperta esplosiva di una reale alternativa. Allora davvero ha svolto il suo compito.

Ringraziandoti ancora per il tuo tempo, ti lascio con il frammento di un’intervista fatta a Assata Olugbala Shakur (attivista e rivoluzionaria statunitense di origine afro-americana), apparsa nel 1991 su Crossroad e che in un certo senso potrebbe essere modificata – cancellando la parola bianchi, e sostituendo le parole razzista/i con mafiosa/i e razzismo con mafiosità –, indirizzandone così il messaggio a noi tutti senza distinzione di sesso, colore o credo ideologico politico religioso: << Penso che sia disonesto dire che la gente bianca, che vive in una società razzista, che ha un’educazione razzista da parte di maestri razzisti e spesso con parenti razzisti, che legge libri razzisti, che guarda una televisione razzista, etc, etc, non è affetta da razzismo. Chiunque vive in una società razzista è affetto da razzismo. La gente bianca deve preoccuparsi del razzismo su due piani: a livello politico e a livello personale. E questa è una battaglia di tutta la vita per chi è seriamente interessato a lottare contro il razzismo. >>